martedì 31 dicembre 2024

HAPPY NEW YEAR

Il finto proverbio cinese per il 2025

(di Felice Celato)

Sarà difficile l’anno che viene, inutile nasconderselo; difficile ed enormemente rischioso, come ci scrivono, con solidi argomenti, i nostri commentatori più seguiti; inutile – anzi: addirittura altamente dannoso per l’umore – fare, qui, un analitico censimento delle inquietanti correlazioni che collegano fra loro gli scenari dei vari mondi di cui facciamo parte (la Terra, infestata da prepotenze e da violenze fisiche e verbali; il genere umano, tanto spesso dimentico di se stesso; l’Europa sull’orlo di una  folle crisi identitaria; il nostro povero Paese, galleggiante nella banalità dei suoi slogan ad uso di menti pigre).

Nello sconforto del contesto, mi soccorrono – per mia e nostra fortuna – le parole con le quali si chiude la monumentale Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger (qui tante volte citata): Chi crede sa che si va “avanti”, non si gira intorno. Chi crede sa che la storia non assomiglia alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per venir continuamente disfatta. Anche il cristiano potrà essere assalito dagli incubi angoscianti, dell'inutilità di tutto […]. Ma nel suo incubo penetra la voce salvifica e trasformatrice della realtà: “Coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv. 16,33). Il mondo nuovo, raffigurato nell'immagine della nuova Gerusalemme con cui termina la Bibbia, non è un'utopia, ma una certezza a cui andiamo incontro nella fede. C'è una redenzione del mondo, ecco la ferma fiducia che sostiene il cristiano e che lo convince che anche oggi vale la pena di essere cristiano.

Direi che basta e avanza per avviarci al Nuovo Anno, magari oppressi ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati (2 Cor. 4,8).

Infine, per salutarci e farci un piccolo ma decisivo augurio “pratico”, attingo, dal bel libro di un raffinato intellettuale Italiano che vive ed insegna a New York (Antonio Monda, Incontri ravvicinati, La Nave di Teseo, 2024), questa citazione  presa dalle sue memorie familiari (un finto proverbio cinese utilizzato dal padre coi figli): sei io ti do una cosa e tu me ne dai un'altra, alla fine ne abbiamo una entrambi. Ma se io ti do un'idea e tu me ne dai un'altra, alla fine ci ritroviamo entrambi con due idee. Ecco: che il 2025 ci arricchisca di scambi di idee (e anche che lo Spirito Santo ci aiuti a distinguere quelle che è bene trattenere in noi da quelle di cui possiamo tranquillamente disfarci)!

Roma, 31 dicembre 2024

 

giovedì 19 dicembre 2024

Natale 2024

 Rigenerazione

(di Felice Celato)

Ancora una volta al Natale che viene chiediamo una cosa, sempre nuova ed antica, di cui, in quest’anno terribile per il mondo, sentiamo (credo tutti) forte il bisogno, mai così forte, in questi anni recenti, come oggi: una rigenerazione. 

Ci pare (mi pare) forse di meritarla (in fondo, magari a Natale, ci sentiamo più buoni); ma non ne sono del tutto sicuro perché – se nulla possiamo sui minacciosi scenari esogeni – almeno qualcosa di meglio, nel contesto in cui più prossimamente viviamo, potremmo forse fare anche noi: per esempio esercitare quotidianamente quell’azione di discernimento (QUI ci vuole!) che ci renderebbe meno gregari, magari inconsapevoli, magari per pigrizia o per il fastidio di dire sempre il contrario di ciò che sentiamo dire; ma, ciò nondimeno, non meno colpevoli, quando fossimo certi – e io, molto immodestamente, ne sono certo – di disporre delle risorse mentali e spirituali per gridare “basta!” al comunismo delle manipolate opinioni prevalenti, fatte di slogan e di volontarie  proposte di facile fraintendimento. 

Ma a Natale anche il “basta!” stonerebbe; e così – per chi crede – meglio godersi il senso profondo dell’eterna scommessa che Dio ogni anno rinnova sull’uomo, sapendo – e come potrebbe Lui non saperlo? – che ancora una volta la perderà, perché nessun altro meglio di Lui sa che siamo fatti di fango; e che – per quante Risurrezioni abbiamo già vissuto – abbiamo sempre bisogno di una nuova redenzione, quella che il Bambino, venuto ad abitare fra di noi, ogni anno ci lascia intravvedere dalla grotta di Betlemme (mi hanno sempre colpito quelle immagini sacre che ritraggono il Bambino che già mostra la Croce).

Allora come non concludere questo rituale – ma non per questo meno affettuoso – augurio di Buon Natale con una riflessione (tratta dal Messaggio Urbi et Orbi del 25 XII 2010) di quel maestro nella fede che è stato (certamente per me) il grande papa Benedetto XVI? 

“Il Verbo si fece carne”. Di fronte a questa rivelazione, riemerge ancora una volta in noi la domanda: come è possibile? Il Verbo e la carne sono realtà tra loro opposte; come può la Parola eterna e onnipotente diventare un uomo fragile e mortale? Non c’è che una risposta: l’Amore. Chi ama vuole condividere con l’amato, vuole essere unito a lui, e la Sacra Scrittura ci presenta proprio la grande storia dell’amore di Dio per il suo popolo, culminata in Gesù Cristo. In realtà, Dio non cambia: Egli è fedele a Se stesso. Colui che ha creato il mondo è lo stesso che ha chiamato Abramo e che ha rivelato il proprio Nome a Mosè: Io sono colui che sono … il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe … Dio misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà. Dio non muta, Egli è Amore da sempre e per sempre. E’ in Se stesso Comunione, Unità nella Trinità, ed ogni sua opera e parola mira alla comunione. L’incarnazione è il culmine della creazione. Quando nel grembo di Maria, per la volontà del Padre e l’azione dello Spirito Santo, si formò Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, il creato raggiunse il suo vertice. Il principio ordinatore dell’universo, il Logos, incominciava ad esistere nel mondo, in un tempo e in uno spazio. 

Al Logos venuto in mezzo a noi, chiediamo di non abbandonarci a noi stessi, nonostante tutto; nella certezza che non lo farà.

Roma, 19 XII 24

domenica 8 dicembre 2024

Pragmatismo

Ansia di comprensione

(di Felice Celato)

Questo post non è il frutto di una compiuta riflessione ma, come dice il titoletto, il frutto di un’ansia di comprensione; vorrei cioè capire – cosa che non mi è finora riuscita – che cosa si voglia veramente dire quando, sempre più frequentemente, si sente dire che la “bussola” di una politica (o di una parte politica) è il pragmatismo. Devo intendere – volendo far credito a questi affascinanti orientamenti e saccheggiando dai riferimenti filosofici che ho trovato sfogliando l’Enciclopedia Treccani – che per pragmatismo si intenda (nel migliore dei casi) l’atteggiamento che consiste nel privilegiare i risultati concreti, le applicazioni pratiche di ciascuna azione politica più che i principi o i valori ideali (che potrebbero costituire "l’ingombrante" fardello di ogni impostazione ideologica, magari della parte avversa).

E (direi: certamente) in larga misura un sano pragmatismo (come sopra inteso) è cosa buona e giusta, quando si tratta di scegliere fra una cosa buona (l’azione politica secondo ragione) e una cosa cattiva (l’azione politica non conforme alla ragione). [Del resto, diceva Benedetto XVI in un memorabile discorso di ben altro livello, non agire secondo ragione, σὺν λόγω, è contrario alla natura di Dio].

Ma mi domando (e vi domando, miei lettori): quale sarebbe, in politica, la cosa buona e giusta quando si tratta di scegliere fra beni diversi (al plurale) e fra mali diversi (al plurale) di un’azione politica? E ancora: fra beni di oggi e mali di domani invece che fra mali di oggi e beni di domani? [Faccio un esempio tratto dalle vicende recenti del nostro paese (i famosi super-bonus edilizi): fra un bene di oggi (il presidio della produzione del benessere, con un forte stimolo alla tenuta del famoso PIL, in un momento di grave crisi come lo furono le conseguenze economiche del Covid) e un male di domani (l’erosione delle entrate fiscali future)].

Certo, se l’azione politica consiste nell’amministrare il presente secondo ragione, un sano pragmatismo non può che essere una buona cosa, un saggio proposito. Ma se l’azione politica si affaccia sul futuro e sulla necessità di scegliere fra diversi beni o fra diversi mali, o (mi ripeto) fra beni di oggi e mali di domani, il sano pragmatismo non basta: ci vuole un certo progetto sul futuro della comunità che si dovrebbe guidare (questa è la leadership); e per fare un progetto ci vuole una visione del futuro (una vision, direbbero gli americani); e, ancora, per avere una visione sul futuro occorre avere un’idea di cosa è bene e di cosa è male per una comunità; e, in democrazia, sarebbe necessario comunicare con chiarezza questa visione a chi, in fondo (e senza affatto mitizzarne la saggezza), detiene il potere di determinare la scelta progettuale, cioè – nel nostro discorso – la scelta fra i diversi beni (al plurale) perseguibili e fra i diversi mali (al plurale) da scongiurare. Del resto, scrive il Censis, fare politica è un esercizio alto, è l’arte del consenso e dell’interpretazione dei sentimenti e dei bisogni sociali, è un compito complesso di responsabilità e immaginazione: significa leggere nel Paese lo sguardo nel futuro. Eppure, l’anno che si chiude lascia l’amaro sapore di una politica tutta giocata sul gusto non di fare, ma di essere politici (e questo, aggiungo io, non vale certo solo per chi è al governo!).

Capiranno bene, i miei lettori più intelligenti di me, che alla luce di queste considerazioni e di tante altre che potrebbero farsi al riguardo, urge capire se il sano pragmatismo come bussola della politica sia veramente la virtù (perché di virtù si tratta, beninteso) di cui abbiamo più bisogno per non solo galleggiare (copyright Censis).

Roma, 8 dicembre 2024, Immacolata Concezione e seconda domenica di Avvento

 

 

 

domenica 17 novembre 2024

Vènti e rotte

Una lettura nostalgica

(di Felice Celato)

Se è vero che l’incertezza del futuro è una costante delle nostre esistenze, è anche vero però, come diceva Seneca, che ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est (nessun vento è favorevole per chi non sa verso quale porto dirigersi). E questa mi pare la condizione del nostro mondo occidentale, questa simbiosi geopolitica ed economica che, come recita l’Enciclopedia Treccani, abbraccia un'estesa area che include le nazioni più ricche e industrializzate dell'Europa e dell'America, nonché l'Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone, e quei paesi accomunati, almeno idealmente, da determinate caratteristiche economiche e politiche: stato di diritto, liberalismo, liberismo economico, multipartitismo, tutela delle libertà fondamentali (di espressione e di associazione ecc.), sentite come l'eredità della democrazia e del pensiero razionalista sviluppatisi principalmente attraverso le vicende storico-culturali dell'Illuminismo e delle rivoluzioni americana e francese.

Ebbene, questo nostro mondo, in cui per quasi ottanta anni abbiamo vissuto senza prolungate e drammatiche scosse, sembra avvolto in una nebbia (di istanze gridate, di promesse o di minacce, di pulsioni e di irresistibili  pruriti) che non solo nasconde ogni porto ma ci induce  ad abbandonarci ad ogni vento, perché di ciascun vento cogliamo, per qualche tempo, la spinta che ci pare irresistibile. E all’interno di questo mondo, il nostro micro-cosmo Europeo (che si è fatto, come scriveva Joseph Ratzinger, attraverso la fede cristiana che porta in sé l'eredità di Israele, ma insieme accogliendo in sé il meglio dello spirito greco e romano) sembra anch’esso confuso quant’altro mai nella sua più breve storia recente; da un lato, quasi incapace di auto-riconoscersi nella meravigliosa impresa di pace e di progresso iniziata a valle della immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale; e, dall’altro, forse incapace di porre mano a quant’occorra fare per preservarne il valore.

In questo tempo così oscuro mi colpisce ogni giorno (soprattutto da noi) il contrasto fra la complessità e l’insicurezza degli scenari, da un lato, e, dall’altro, la semplificazione che sembra, da ogni parte, essere domandata alla politica e che da questa viene offerta a piene mani, attraverso slogan al posto dei ragionamenti, illusioni al posto delle realtà, semplificazioni al posto delle complessità di molti problemi, temporanee vie d’uscita al posto di soluzioni lungimiranti.

In questo mood inquieto è venuta a collocarsi una lettura in qualche modo nostalgica: di Giuseppe De Rita, Oligarca per caso (Solferino, 2024). Si tratta, in fondo, di un libro di memorie di tempi recenti, pervaso da una più che giustificata soddisfazione per il lavoro fatto, scritto da uno dei nostri grandi vecchi che ha percorso una vita a domandarsi come siamo fatti noi italiani, analizzando attentamente le morfologie delle nostre aggregazioni sociali, per coglierne i profondi significati, le insite dinamiche, i valori che esse esprimono e anche i limiti che esse manifestano. Una lettura che raccomando, soprattutto a chi, come me, …dal presente trae un flusso di nostalgie (di idee, di persone, di metodi).

La tesi cui allude il titolo è che De Rita è stato, a suo modo e con fierezza, un oligarca (in questo senso: l'oligarca ha un tessuto di potere che non dipende da un mandato verticale che cala dall'alto: quello è il gerarca, il cui potere finisce quando cade il suo dante causa. Il potere dell'oligarca sta nella capacità di tessere rapporti in linea orizzontale con quelle cento-duecento persone che in un sistema complesso possono sì regolare singole materie, ma hanno sempre bisogno di confrontarsi con gli altri). 

Da questa tessitura può nascere una felice azione politica, quando si coniuga con l’intenzionalità (cioè: con la voglia di raggiungere un obiettivo preciso agendo di conseguenza) che dovrebbe essere propria dell’agire politico (e De Rita ricorda nel libro i suoi tanti no alla politica). Ma questo è un discorso diverso che chiama in campo, non solo la tessitura di rapporti in linea orizzontale di cui l’oligarca è capace, ma soprattutto la sua capacità di aggregare il consenso, strutturato e competente, di cui l’agire politico dovrebbe nutrirsi. 

Ce ne è abbastanza, credo, per non dover giustificare la nostalgia della quale mi si è connotata la lettura del libro di De Rita.

Roma, 17 novembre 2024

 

 

martedì 5 novembre 2024

Letture di soccorso

Un discreto successo

(di Felice Celato)

Nell’appena decorso decimo mese di quest’anno così deprimente, ho praticato con discreto successo la difficile arte dell’auto-estraniamento, cioè della consapevole fuga da quanto si viene svolgendo attorno a noi, nel mondo tempestoso, nell’Europa confusa e balbettante (rectius: fra i membri dell’UE confusi e balbettanti), nell’Italia annegata in un mare di beghe, di ecolalie e di verbigerazioni spacciate per dialettica politica, di assillanti propagazioni all’insegna del semplicismo, talora irenico, talora tensivo.

E, come mi accade in casi del genere, devo il discreto successo di questo (sempre più spesso attraente) esercizio di auto-estraniamento, ad una felice coincidenza di letture impegnative ed assai interessanti, affrontata con ossessiva continuità.

Ove mai qualcuno dei miei lettori condividesse questa esigenza di fuga dal corrente, a suo beneficio provo qui ad elencare, con brevissimi cenni, alcune delle migliori “medicine” che mi sono auto-propinato, tralasciando le due o tre dell’area letteraria (che pure, però, avevo scelto, con ansia di fuga, nella produzione più recente di ben noti scrittori amanti del surrealismo metafisico, quali Haruki Murakami ed Eric Emmanuel Schmitt).

Eravamo fermi, ad inizio mese, al testo di Bernard-Henry Levy (La solitudine di Israele, di cui all’ultimo post) che però – ratione materiae et temporum – era tutt’altro che estraniante; siamo passati per Murakami e Schmitt; e siamo approdati a:

  • Felice, Flavio: Wilhelm Ropke (IBL, 2024, ebook): un saggio molto interessante, ma anche molto complesso, sul pensiero di uno studioso tedesco della corrente Ordo-liberale (cioè della difesa di un'economia fondata sulla libera concorrenza, la lotta ai monopoli, l'intervento pubblico alla sola condizione che sia conforme alla esigenza di salvaguardia del mercato come unica fonte di produzione del benessere). Noi crediamo.... scrive l'autore che per una comprensione il più possibile culturalmente onesta delle ragioni che hanno condotto il nostro paese a intraprendere alcune strade piuttosto che altre, andrebbe considerata anche l'influenza, benché per alcuni ritenuta marginale e forse proprio perché marginale, di un autore come Ropke che seppe parlare della crisi del suo tempo, ma che crediamo abbia ancora molto da dire anche sulla crisi del nostro.
  • Matteoli, Michela: La fioritura dei neuroni (Sonzogno, 2024, ebook): un breve ed interessantissimo saggio sui fondamenti cerebrali della convivenza, sui meccanismi del cervello e sulle “modalità” per preservarne nel tempo l’efficacia (capiranno da questo, i miei lettori, perché il testo mi ha così preso).
  • Busi, Giulio: Giovanni – Il discepolo che Gesu’ amava (Mondadori, 2024, ebook): il libro muove da un’ottica particolare: il Vangelo secondo Giovanni è riletto - da un non biblista ma, allo stesso tempo, profondo conoscitore della letteratura specialistica – nel faticoso itinerario spirituale ed intellettuale  del suo tormentato autore, nel corso della definitiva composizione del testo, attorno all’anno 110 e in Efeso; la figura di Giovanni non coincide con quella canonica (che identifica Giovanni Evangelista nella persona dell’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo) ma con quella – ben nota gli specialisti e da molti ritenuta autentica – di  un non meglio identificato Giovanni il Presbitero, apostolo anche lui (non uno dei dodici però, ma, anche lui, testimone diretto di quello che narra e, ovviamente, a conoscenza delle narrazioni sinottiche), appartenente alla casta sacerdotale di Gerusalemme, e perciò in grado di cogliere con maggiore profondità molte delle sfumature del linguaggio di Gesù e delle loro implicazioni. 
  • Ravasi, Gianfranco: Ero un blasfemo, un persecutore e un violento (Raffaello Cortina editore, 2024): una biografia a tutto tondo di San Paolo, ricostruita attraverso le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli, un libro di grande spessore culturale, scritto da un sommo biblista, anche con grande cura del lettore; un testo eccellente che raccomando a tutti.... ancorché non ossessionati (come me) dalla voglia di distanza dalla pericolosa banalità del presente.

Roma 5 novembre 2024

 

 

 

 

 

sabato 5 ottobre 2024

7 ottobre

 Solitudine di Israele

(di Felice Celato)

In mezzo al rumore delle parole (e speriamo solo delle parole!) col quale il mondo commenterà l’anniversario del pogrom del 7 ottobre 2023, col tutto il suo carico di violenza, d’improvviso perpetrata e – per voluto converso – suscitata, mi pare saggio segnalare un denso libro di Bernard-Henry Levy (La solitudine di Israele, La Nave di Teseo, 2024) che aiuta nel desueto esercizio del riflettere con uso di memoria e di coscienza: questa guerra è una guerra atroce che gli israeliani non hanno voluto. Il loro è un nemico terribile, il cui desiderio proclamato è quello di poter mostrare non solo il maggior numero possibile di morti ebrei, ma, in quello stesso campo, il maggior numero possibile di martiri.

Nel breve corso del libro (170 piccole e nitide pagine) ho ritrovato raccolti i pensieri che la singolare, inquieta storia di Israele mi ha sempre suscitato e che – credo – non può non suscitare in chi sappia guardare ad essa con l’animo disposto a riconoscerne la bellezza, l’originalità e la forza ideale, fra le tante vicende che le hanno insidiate; e i sentimenti di chi, innamorato dell’anima ebrea, abbia saputo coglierne la tormentata sopravvivenza anche di fronte alla (perenne) minaccia esistenziale che non ha, dinnanzi a sé, che una sola scelta, la scelta irrinunciabile di continuare ad esistere.

Si tratta di un libro complesso, cólto (come è ovvio attendersi da B-H. Levy), appassionato e commovente, che va letto con calma (anche perché scritto con una prosa spesso complessa); e che va meditato giorno per giorno, mentre si dipanano nelle cronache e nei commenti le banali trappole del buonsenso (i tanti sì, ma) che sembrano orientate alla decostruzione dell’evento (il 7 ottobre), le astratte petizioni di un cessate il fuoco pur che sia, le finte saggezze del giorno dopo ( qual è il piano di uscita?) mentre Israele affronta, dicevamo poco fa, la minaccia esistenziale, seguendo con fermezza la scelta irrinunciabile di continuare ad esistere.

Particolarmente toccante mi è risultato l’ultimo capitolo (Se ti dimentico, anima ebrea), una sorta di doloroso compianto sulle tensioni  che, da sempre, nella storia ed oggi, screziano l’anima ebraica (solo di essa?): facci un vitello d'oro, chiedevano le tribù di Israele; facci un Dio che cammini davanti a noi; facci un idolo che ci dispensi tutti e ciascuno dallo sforzo di pensare…. Ma, scrive B-H. Levy, nonostante tutto, l'anima, la mente e il genio dell'ebraismo sono saldi nella tempesta. Ma dimenticateli e non sarà la mano ma il cuore di Israele a inaridirsi.

Un inno di amore dolente e problematico che poco si presta ad essere riassunto nelle poche righe di un post.

Roma 5 ottobre 2024

 

 

 

mercoledì 25 settembre 2024

RITROVIAMOCI / 2

Una lettura intonata

(di Felice Celato)

Deve esserci qualcosa, nei meccanismi della mente e dell’animo, che muove talora i nostri umori verso cambiamenti inattesi. Assai raramente, in questi anni di conversazioni asincrone, mi è capitato di tornare dalle “vacanze” agostane con un mood così disposto alla rigenerazione. Non a caso avevo intitolato il primo post settembrino Ritroviamoci, per esprimere la civile speranza di, appunto, ritrovarci per una positiva transumanza verso il domani; se non per il breve domani di noi vecchi, almeno per quello –  lungo – dei nostri nipoti, l’epitome della umana speranza nel futuro terreno, che abbiamo il dovere di non deprimere con i  fantasmi che si agitano nella nostra mente.

E dunque eccomi qui con la segnalazione di una lettura in larga misura intonata a questo nuovo umore (di Federico Rampini: Grazie, Occidente!-Tutto il bene che abbiamo fatto,Mondadori, 2024). Si tratta di un libro “a tesi”, vigoroso e molto argomentato, scritto con grande chiarezza e passione anti-conformista, frutto di una visione del mondo alimentata da vaste esperienze internazionali, e dominato dall’ansia di ricostruire un adeguato senso di cosciente autostima della civiltà occidentale, assediata da una distruttiva congerie di narrazioni che essa stessa ha generato al suo interno (ed anche esportato), come per inculcare la “certezza” che l’Occidente Europeo e Nordamericano abbia seminato solo distruzione, oppressione e sofferenze; e che, in fondo, sia la radice dell’Apocalisse che ci attende.

Certamente un recuperato senso di cosciente autostima dell’Occidente è un presupposto di per sé rigenerante (e per questo ho letto con grande piacere soprattutto la prima parte del corposo volume); ma è anche certo che esso, per radicarsi beneficamente nel nostro sentire (e nel nostro agire), implica – come argomenta Rampini – anche enormi sforzi per introiettare le conseguenze pratiche di questo rinnovato mindset. Rampini prova a tracciare una mappa dei nodi cruciali che, quand’anche rigenerato nella sua autostima, comunque l’Occidente deve affrontare, come del resto ha già avuto necessità di fare altre volte nella sua storia.

Nel perturbato mondo in cui viviamo, le pulsioni isolazioniste degli USA in materia di difesa comportano l’uscita dal “limbo” in cui per mezzo secolo abbiamo vissuto, quando era comunemente e politicamente percepito che la sicurezza dell’Europa era “assicurata” dagli USA. E ciò, nel momento in cui il fronte orientale dell’Occidente (che non è solo l’Ucraina!) tocca con mano una forte tensione contro l’Occidente stesso, (proprio concentrata sul suo lato Europeo).E il “conto” di questa uscita dal “limbo” è molto salato, sia in termini finanziari che, conseguentemente, politici.

A ciò aggiungasi che il dinamismo industriale della Cina (nei settori tecnologici) e politico-militare (nel quadrante asiatico e anche africano), accoppiato col pericoloso ed incerto esito di difese protezionistiche dell’Occidente, lascia intravvedere scenari globali difficili da padroneggiare, specie quando quei dinamismi si connotano di minacce militari, concrete o anche solo possibili.

E dunque, ancorché rassicurato da una recuperata autostima (ovviamente tuttora da consolidare sul piano culturale), l’Occidente vive ancora una sfida al suo modello (Nulla di nuovo sotto il sole. Era già successo. E ogni qualvolta il mondo ha cercato di sostituire l'Occidente con un modello alternativo, la storia è sempre finita molto male); con la pretesa di vincerla, questa sfida, perché (conclude Rampini citando Amin Maalouf) tutti quelli che combattono l'Occidente e contestano la sua supremazia, per delle buone o cattive ragioni, vanno incontro a un fallimento ancora più grave del suo.

Dunque, se volessi tentativamente sintetizzare in poche parole il senso del corposo volume, direi che gli scenari ivi delineati sono comunque estremamente ardui da districare; non nuovi, certamente, ma non, per ciò, meno difficili. E tuttavia la chiave per uscirne con successo sta anzitutto nel recupero della nostra autostima perché, scrive (forse consolatoriamente) Rampini, quand’anche sia prossimo il momento in cui dovremmo cedere il primato e la leadership ad altri, è tanto più urgente aver chiaro cosa lasciamo in eredità, di quali successi siamo stati capaci, di che cosa possiamo andare fieri. 

Per concludere la segnalazione: un libro da leggere, utile – così mi è parso – per “ritrovarsi”, almeno sulla nostra storia, ma anche per non rinserrarci sulle “glorie” di questa.

Roma 25 settembre 2024

 

 

mercoledì 4 settembre 2024

RITROVIAMOCI

“Settembre, andiamo, è tempo di migrare!”

(di Felice Celato)

Lasciata vuota la “pagina” di agosto di questi spunti per conversazioni asincrone, eccomi qua, a settembre appena iniziato, con le molte gioie familiari nel bagaglio col quale abbiamo lasciato le “vacanze” (per la prima volta, l’intera famiglia, nelle sue articolazioni tri-generazionali, ha passato qualche settimana insieme nella stessa casa, con gioia ma anche con l’animo, le curiosità e le attese ovviamente concentrate sull’ultimo arrivato, nel suo secondo mese di vita) e con diverse letture, alcune delle quali per varie ragioni consolanti (che dirò sotto, brevissimamente, nella nota LETTURE SERIE, come mero stimolo alla condivisione); con qualche pensiero alla “ripresa” autunnale, densa di spaventose incognite.

Bene; veniamo alla “ripresa” autunnale, gravida, secondo me, di alcuni passaggi di decisiva importanza per il nostro futuro. Gli scenari geopolitici permangono quanto meno inquietanti; quelli europei sembrano contagiati dall’intersezione delle faglie (cfr il post Faglie, di qualche settimana fa); quelli domestici dominati dalla passione per le solite, decettive banalizzazioni reciproche. Aspettiamo con fiducia il “rapporto” di Draghi ma con assai minor fiducia guardiamo ai possibili utilizzi che sapremo farne nell’ansia di morderci reciprocamente le code nella cagnara.

Dunque per “ritrovarci” non ci resta che cogliere il senso del verso D’Annunziano col quale abbiamo dato un titolo a questo post, con la speranza che la transumanza (cui allude il poeta) non sia una semplice migrazione stagionale di animali guidati da pastori mercenari (Giovanni, 10, 11-12).

 

LETTURE SERIE: (1) di Oscar Cullman, Dio e Cesare (AVE, 2018): un breve ma intenso saggio (uscito nel 1957) sui passaggi della Scrittura sul rapporto tra Chiesa e Stato, terra e cielo, città eterna e città terrena. Lettura altamente raccomandata, almeno agli appassionati della materia. (2) di Benedetto XVI, Con Dio non sei mai solo (BUR, 2024): una breve selezione di alcuni “discorsi” ben noti ai cultori di questo sommo maestro nella fede, ma qui raccolti dal curatore (p. Federico Lombardi) secondo un filo logico che li connette, da un lato, al magistero ecclesiale del Pontefice e, dall’altro, alla Sua straordinaria attenzione al mondo della cultura lungo il crinale del dialogo fra ragione e fede, un tema magistralmente trattato anche in vari testi teologici da BXVI. Lettura obbligatoria per chi non ricordi quei discorsi, ma raccomandata anche a coloro che vogliano tornare a meditarne la commovente grandezza. (3) di Enrico Letta, Molto più di un mercato – Viaggio nella nuova Europa (il Mulino, 2024): al di là dei meriti di contenuto (una piccola, ragionata storia personale del percorso culturale che ha portato l’autore verso la redazione del Rapporto sul futuro del Mercato Unico Europeo, commissionatogli dal Consiglio UE e dalla Commissione), di questo libro colpisce il tratto competente, ragionante, concreto e lungimirante delle considerazioni di Enrico Letta; non certamente perché gli sia culturalmente estraneo, bensì per la sua palpabile rarità, nel contesto politico Italiano. Una lettura che raccomando a chi è in cerca di consolazioni dalla dilagante depressione del “pensiero” politico dei nostri tempi. (4) infine, un libro per ragazzi ma scritto da un grande storico contemporaneo, scomparso quest’anno: di Jacques Le Goff, L’Europa raccontata ai ragazzi (Laterza Ragazzi, 1999). Destinato, come dice lo stesso titolo, ai ragazzi (non a caso me l’ha segnalato mia moglie, professoressa di lettere in pensione) questo breve excursus sulla storia e i valori dell’Europa sarebbe molto adatto anche a certi ragazzotti più stagionati: in fondo è semplice e breve, anche con qualche bella illustrazione, alla portata anche di culture meno educate, ma molto utile per sapere, almeno qualcosa, di ciò da cui dipende il nostro futuro.  (5) le altre letture agostane di natura letteraria non le menziono perché sono state complessivamente molto deludenti dal punto di vista qualitativo (fa eccezione la rilettura di 1984, il terribile capolavoro di George Orwell, di molti anni fa ma riedito da Mondadori in ebook).

Roma, 4 settembre 2024 (Santa Rosalia, patrona di Palermo e salvatrice dalla peste)

 

mercoledì 24 luglio 2024

Critico esame di coscienza

 Il principio di realtà

(di Felice Celato)

Forse è l’avvicinarsi delle “vacanze” (ma per un vecchio ormai da tanto tempo al riparo dalle cure del mondo, e, per di più, scarso ma ostinato praticante dell’ozio golfistico, ha senso parlare di “vacanze”?); o forse la perdurante immanenza delle (accresciute) concrete cure familiari; o forse l’abbondanza del caldo e della luce (per me comunque da sempre benefica); o forse un casuale esercizio di rilettura di alcune delle mie riflessioni qui allineate nel tempo, alla luce delle intense visitazioni di questo sito rilevate in questi giorni. 

Fatto sta che oggi, ancorché come al solito confortato dalla coscienza che le mie povere sensazioni politiche siano sempre state condizionate dall’esplicita confessione della mia scarsa efficacia di elettore, sono percorso da un dubbio: nel guardare alle cose del mondo, coltivandone e segnalandone la percepita irrazionalità, non ho forse “peccato” di scarso senso della realtà? Così mi è tornata di nuovo in mente la citazione di San Tommaso: non est ratio mensura rerum sed potius e contario: cioè, non è la ragione che dà la misura delle cose ma piuttosto queste danno la misura della ragione; come dire, che le cose verificano o falsificano i nostri ragionamenti (O. De Bertolis: Il diritto nella società contemporanea, in Quaderno IVASS n.6).

Sei, dunque, un pentito delle tue geremiadi? mi sono detto [N.B.: per meglio intendere il senso di questo ambizioso riferimento al profeta Geremia, rimando al post Verso l’autunno, del 31 agosto del 2023, nel quale cercavo di illustrare il senso del pessimismo del profeta, come esposto dal domenicano francese Adrien Candiard ne La speranza non è ottimismo]. Non arrivo a pensare un pentimento tanto radicale; ma un qualche dubbio mi è venuto (e me ne scuso con coloro che, molto eventualmente, abbiano imprudentemente dato pieno credito alle mie “lagne”). Dunque: se le cose (tante!)  non vanno come a me sembrebbe quanto meno razionale che andassero, non è forse possibile che sia stata la mia ragione ad aver torto?

Possibile è possibile, naturalmente; probabile non so, né (ancora) mi rassegno a pensarlo. In questa giornata di caldo e di luce meno intensi, provo dunque (nello spazio di questo post) a non far credito alla probabilità.

Dunque, tanto per fare degli esempi, il degrado antropologico del nostro milieu, le gravi vacuità delle nostre tutt’altro che recenti politiche, il costante eccesso di percepito rispetto al reale, l’iper-comunicazione del niente, l’invasione del semplicismo come strumento di analisi, la propalazione di decettive ricette socio-economiche congiunta con il perseguito oscuramento del reale; in sintesi: la sostanza di gran parte delle mie geremiadi è tutta falsificata dalla realtà? E se sì, quale è dunque questa realtà che non ho percepito?

Cominciamo il salvataggio dell’(eventuale) salvabile: anzitutto vediamo i compagni di strada, del resto qui più volte citati (le relazioni del Censis o della Banca d’Italia, i numeri dell’Istat, gli articoli di seri osservatori indipendenti della realtà, etc): beh, non sono mai stato troppo solo! Questo me lo si riconoscerà, spero!

Allora perché le mie geremiadi  possono apparire un pessimismo falsificato dalla realtà? In fondo, bene o male, l’Italia va avanti comunque (o, forse meglio, sopravvive comunque): sarà lo scheletro contadino di cui parlava qualche anno fa il Censis? O lo stellone italico in cui molto spesso abbiamo sperato? O la tanto spesso evocata resilienza degli Italiani? O anche solo l’innegabile massiccio supporto offertoci dalla tanto deprecata Europa? Non lo so, ma mi pare certo che – grazie a Dio – siamo ancora qua (e anche in sostanziale buona salute fisica e, forse, psichica) a confrontarci col principio di realtà, come – purtroppo – facevamo financo dieci anni fa (cfr. post Ormai l’anno declina, proprio del 27 luglio 2014). Così pure mi pare certo che gran parte di quegli assunti punti forza non abbiano radice nelle politiche del nostro paese, almeno guardando ai tempi di queste geremiadi.

Roma, 24 luglio 2024

PS: Tanto per consolarmi e per invogliare a leggerlo, riprendo un cenno,  sempre di Candiard, dal libro sopra detto: Il pessimismo di Geremia ha una sola scusante: ha ragione lui.

 

 

 

 

 

 

 

martedì 23 luglio 2024

Stupidiario del caldo

Buone notizie!

(di Felice Celato)

Si dice che il caldo fa sragionare; non è vero! Almeno non sempre!

Pur facendo (almeno a Roma, sede del Governo e del Parlamento della nazione) un caldo boia, pare (il dubitativo è d’obbligo, appunto per il caldo) che non verrà sottoposto al Parlamento il disegno di legge (Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere) che, fra le altre amenità, prevedeva anche la sanzione pecuniaria da 1.000 a 5.000 € per chi facesse uso del termine “avvocata”.

Per un momento avevo temuto che – in violazione dell’articolo 19 della Costituzione sulla libertà di culto – diventasse reato recitare (come siamo soliti fare noi paolotti, cioè clericali, bigotti e baciapile, secondo la Treccani) il Salve Regina, che sarebbe diventato (severamente) punibile per il passo “Eia ergo, advocata nostra…etc”. Anche se restava comunque praticabile – bisogna riconoscerlo! –  la successiva acclamazione del Salve Regina: “illos Tuos misericordes oculos ad nos converte”, anzi caricata così anche di un significato quanto mai attuale. 

Ma, leggo dai giornali che il ddl è stato ritirato, a riprova che non è (sempre ) vero che il caldo fa sragionare. 

Meno male! 

Roma 23 luglio 2024

giovedì 11 luglio 2024

Faglie

Depressioni da caldo

(di Felice Celato)

Ne sono quasi certo: il caldo abbatte gli ultra settantacinquenni più assai di quanto non faccia coi ventenni e coi quarantenni! E spesse volte deprime.

Questa sconfortante constatazione aggiunge un’ulteriore cautela per chi volesse “maneggiare” le mie valutazioni politiche, già gravate dalla “maledizione” che mi insegue, forse da sempre: opzioni politiche sempre deluse (vedasi colonnina “Chi scrive”, qui accanto)! Per di più, come è ovvio, le mie fonti sono tutte di natura secondaria (attinte, cioè, dalla stampa nazionale e da qualche giornale internazionale).

Formulato questo “avviso ai lettori”, vengo alle accaldate depressioni di oggi.

Se fosse credibile una visione d’insieme delle avventure politiche del mondo, direi che il nostro mondo fronteggia (o meglio: spera di fronteggiare) almeno tre (o forse quattro) diverse faglie (da Treccani on linein geologia, frattura di masse rocciose accompagnata da spostamento relativo delle due pareti lungo il piano di frattura o di faglia …. così che terreni originariamente alla stessa quota vengono a trovarsi a diverso livello).

La prima faglia è di natura geo-politica: il mondo è incomprensibilmente diviso nell’atteggiamento verso gli autocrati e i teocrati che ne agitano la superficie. Che la divisione possa essere solo apparente (cioè riferita alla geo-politica parlata piuttosto che a quella effettivamente praticata) è non solo possibile ma soprattutto sperabile. Ma la faglia c’è e ne leggiamo tutti, nei confusi giorni che viviamo proprio nel milieu della cultura occidentale (che, ovviamente, è quello che credo di conoscere meglio).

La seconda faglia è quella di natura, per così dire, sociologica: il mondo è diviso dalle aspre sensibilità (spontanee o, assai più spesso, coltivate) sui temi delle migrazioni; temi epocali, demografici, economici e – forse – anche antropologici, che si intrecciano nelle quotidiane scompostezze – e, talora, indecenze – delle propagande politiche che vengono proposte ai molti cittadini del mondo in questo tempo coinvolti in processi elettorali.

La terza faglia è quella a noi più vicina perché le masse rocciose che ne sono interessate sono quelle della piattaforma politico-istituzionale (l’Europa) di cui siamo parte diretta: qui il piano di frattura è quello – non nuovo del resto in Europa – fra sensibilità nazionalistiche  (o sovraniste, come oggi si suol dire) e sensibilità europeistiche; le quali ultime – lo dico con franchezza – sono proprio quelle che mi riconosco, senza alcun dubbio al riguardo. Ovviamente anche queste opposte sensibilità sono l’oggetto di quotidiane e stucchevoli suggestioni emotive propinate all’opinionismo fugace dei rappresentati, anche dai cosiddetti rappresentanti quando sono in profonda crisi di leadership.

Credo – e non essendo un politologo torno a sottolineare il limite di questa opinione – che se si potesse mettere su una tabella (ah, le antiche deformazioni del desueto  mestiere!) una sintesi delle proposte politiche diffuse nel mondo occidentale si scoprirebbe che attorno a queste

faglie infuria gran parte della battaglia per la conquista delle opinioni e, conseguentemente, per la formazione  dell’offerta politica

Anche qui la cautela è d’obbligo (come sempre accade ad ogni super-sintesi di tendenze politiche): la cautela si basa soprattutto su una quarta faglia – questa di natura strutturale –

che, soprattutto nelle cosiddette democrazie occidentali (ma specialmente da noi), separa quotidianamente il proclamato dal veramente praticato (e, ancor più, dal praticabile). Si potrebbe dire, anzi, che l’Italia, da questo punto di vista, sembra confortare, nei fatti, la sostanza di questa cautela, talora, purtroppo, anche in materie che poco si presterebbero a questo gioco delle tre carte. Però confesso che sempre ne provo comunque fastidio, non foss’altro perché alimenta l’immagine di un paese sempre incline al chiacchieronismo; e poi perché (sorprendentemente) credo che in fondo i rappresentati non meritino di essere trattati come minus habentes e i rappresentanti non abbiano nulla da guadagnare, nel lungo periodo, dal palesarsi sempre del tutto privi di doti di leadership ( da Treccani on line: processo di influenza sugli altri per far loro comprendere e accettare decisioni o azioni che devono essere avviate al fine di supportare gli sforzi individuali e collettivi verso il raggiungimento di un obiettivo comune). Già: nel lungo periodo! Ma è questo l’orizzonte dei politici (dell’una o dell’altra fazione) che democraticamente mandiamo a rappresentarci?

Ma una cosa mi pare certa (e ce la insegnano i sismologi): quando una faglia si muove intensamente il rischio dei terremoti è assai elevato; particolarmente, poi, quando le varie faglie fra loro si sovrappongono.

Buon caldo a tutti!

Roma 11 luglio 2024

sabato 29 giugno 2024

Segnalazione (?)

Il mondo di ieri 

(di Felice Celato)

Certo è curioso segnalare un libro, sconsigliandone, al tempo stesso e per il momento, la lettura (questo è il senso del punto interrogativo, nel titolo di questo post). Però è questo il sentimento che mi ha suscitato il corposo testo (quasi 400 densissime pagine, anche scritte con caratteri poco adatti ai presbiti, un vero inno agli ebook con caratteri liberamente dimensionabili!) di Stefan Zweig dal titolo paradossalmente attuale, Il mondo di ieri (Mondadori, 2023). 

Si tratta di una specie di argomentata storia autobiografica dei pensieri e dei sentimenti di un grande (e controverso) letterato, scritta nel 1942; pensieri che hanno lentamente supportato la tragica decisione dell’autore di darsi la morte insieme alla sua seconda moglie, nell’esilio sudamericano nel quale l’autore aveva invano cercato un rifugio dalle sue drammatiche percezioni di un tempo ormai finito col travolgimento di un mondo che, fra le due guerre mondiali del ‘900, era andato via via sgretolandosi, fino alla tragedia della II guerra mondiale. Tragedia mondiale, certamente, ma, nella specifica percezione di un austriaco, anche e soprattutto, atto finale di quella finis Austriae, che aveva infiammato di nostalgie anche Joseph Roth nei suoi straordinari racconti (soprattutto La marcia di Radetzky e La cripta dei cappuccini).

Il libro di Zweig si raccomanda, oltreché per la qualità della prosa, per la drammatica organizzazione narrativa delle sensibilità del mondo dell’autore, uno scrittore di cultura europea, largamente tradotto in tutte le lingue del nostro continente, per molti aspetti divenuto cittadino del mondo, con le radici ben piantate in quel mondo della sicurezza che allora gli appariva l’amata patria mentre la storia la travolgeva. (*)

Però, come dicevo all’inizio, raccomando al lettore curioso di rinviare la lettura a tempi meno agitati dei presenti (se mai ve ne saranno); perché il testo certo non fa bene a chi vuole sperare che sia sbagliata la famosa sentenza di Shakespeare che ho ritrovato in inglese (dopo averla conosciuta tanti anni fa in Italiano) nel testo di Zweig: so foul a sky clears not without a storm ( un cielo così cupo non può schiarire senza una tempesta).

Di questi tempi OCCORRE sperare che non debba arrivare quella tempesta che il mondo, nei suoi vari scenari, sembra voler costruire ogni giorno, con intensa ed inesauribile lena: la guerra in atto alle porte dell’Europa, la crisi mentale degli USA, le instabilità politiche Europee, l’eterna crisi mediorientale, il poco rassicurante imperversare di fanatici teocrati ed autocrati, etc.etc.. 

E Zweig non è l’autore adatto per fugare queste ansie; semmai, se proprio non si vuol attingere alla promessa cristiana sulla storia (ecco, io sono con voi tutti giorni, fino alla fine del mondo, Mt 28,20), consiglierei di riscoprire il genere letterario latino delle Consolationes (composizioni filosofico-letterarie scritte per consolare sé o altri di qualche dolore, come recita la Treccani); di questo ultimo consiglio, però, non garantisco il risultato. Del primo, invece, conosco bene i limiti che la libertà dell’uomo pure riesce a frapporre all’assistenza del Padre Celeste; ma credo fermamente che, nonostante tutto (e tutti noi), ad essa è affidata la nostra speranza.

Roma, 29 giugno 2024, SS. Pietro e Paolo, auguri a tutti i Pietri e i Paoli.


(*) Se proprio un postumo appunto si volesse fare al libro, si potrebbe dire che l’Autore trascura proprio un precetto che lui stesso raccomanda agli scrittori (cfr. pg 272 e sg), quello della non prolissità. Ma – mi sono detto alla fine del libro – non si può chiedere a chi è lucidamente disperato di essere breve nel narrare la propria disperazione; perché la narrazione – anche prolissa –  è forse la prova di una disperazione che fatica ad accettarsi come tale.

 

giovedì 13 giugno 2024

Tecnologie per la politica

Il VAC 

(di Felice Celato)

Mentre cerco di digerire i risultati delle elezioni europee (un vero e proprio set-back dell’Europa, almeno dell’Europa in cui fermamente credo; un set-back, col suo focus in Francia ed in Germania, auspicabilmente mitigato – per quanto paradossale, irenico e prematuro possa apparire l’affermarlo – proprio dal risultato Italiano), mi sono concesso un esercizio di riflessione sulle mie stesse percezioni, per verificare se il tempo le abbia usurate, sconfessate o modificate . 

Ho riletto, quindi, quello che scrivevo, qui, giusto 10 anni fa (vedasi il post del 14 luglio 2014 dal titolo: Riproviamo). In dieci anni sono passati, in Italia, se non sbaglio, 6 governi (Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2,  Draghi e Meloni), con 4 diversi “orientamenti” (grossolanamente: 2 di “Centro-sinistra”, 2 confusamente “populisti”, 1 di “unità nazionale” e 1 di “centro-destra”); eppure – se si eccettua il periodo dell’”unità nazionale” durante il quale la forte personalità indipendente del Presidente del Consiglio ha, per un anno e mezzo, in larga parte modificato l’approccio del dialogo politica-cittadini – le mie considerazioni di allora, raggruppate sotto il titolo Scomunicazione, che allora avevo dato alle mie geremiadi sulla comunicazione della politica, non hanno mutato sostanza (o almeno così a me pare). Vi si parlava, appunto, di “scomunicazione”, di “luogocomunismo”, di “comunicazione decettiva”, del “parlare a nuora perché suocera NON intenda”, etc. [ Per memoria ricordo che allora il nostro “principale” problema era quello del debito pubblico e della nostra compliance con i nostri impegni di bilancio pubblico, problemi che, come è ben noto a tutti, ora non abbiamo più].

Stavo per abbandonarmi ad una analitica rilettura di quei termini, ben contento (si fa per dire!) di intravederne ancora l’attualità, quando una più urgente opportunità ha fatto capolino nelle vicende del nostro povero paese: sta’ a vedere che adottiamo il VAC! Che cos’è il VAC? Lo spiego meglio, anche a beneficio dei lettori che non hanno confidenza col mondo del calcio: il VAC (Video Assistant Chairman) potrebbe essere l’omologo parlamentare del VAR (Video Assistant Referee cioè l’arbitro elettronico, che assiste – appunto – l’arbitro umano nell’analizzare situazioni sportive delicate e anche per rivedere al rallentatore le dinamiche di certi falli). Ora, pare che – dopo una rissa in Parlamento – si stia valutando la necessità di analizzare la dinamica di tale rissa per accertare chi voleva scazzottare chi, o chi fingeva un infortunio simulando un cazzotto incassato; appunto introducendo in Parlamento il VAC, ovvero la moviola (come allora si diceva della moviola in campo, tanto invocata dal giornalista sportivo Biscardi) a sostegno delle decisioni che il Presidente della Camera dovrà – forse – adottare, né più né meno di come deve fare l’arbitro in campo.

Questa interessante novità mi suggerirebbe di aggiungere alle espressioni che usavo 10 anni fa come elementi caratteristici del rapporto democratico fra rappresentanti e rappresentati (mediaticamente molto supportato), un nuovo termine che – nelle intenzioni – dovrebbe includere il compiacimento per la rivoluzionaria innovazione (che sicuramente ci metterebbe all’avanguardia in Europa!): lo sVACcamento parlamentare, che va dalla pietosa ostentazione – in Parlamento, cioè dove si dovrebbe parlare per confrontare idee! – di cartelli e volantini a beneficio di telecamera, con lapidarie e pensose sentenze politiche (talora solo penose), fino alle vigorose scazzottate, da verificare col VAC!

Si dirà che non sono cose del tutto nuove; altre volte ci si è scontrati fisicamente in Parlamento; e tuttavia oggi sento il bisogno di invocare Sant’Antonio di Padova, Dottore della Chiesa, francescano, Portoghese vissuto in Francia e in Italia – un santo Europeo, si potrebbe dire – affinché, nel giorno della sua festa, preghi per noi, che ne abbiamo bisogno!

Roma 13 giugno 2024

 

 

 

martedì 21 maggio 2024

Ritorno al presente

Le elezioni di giugno

(di Felice Celato)

Eccomi qua, purtroppo riportato al presente dallo scorrere del calendario (fugit irreparabile tempus, direbbe Virgilio) ma, ancora una volta, con due fugaci segnalazioni di letture che, per la loro natura, hanno però contribuito ad allontanarmi dai mondi dei Borgia, del Manzoni, di Joice Lussu, di San Paolo e del matematico scettico coi suoi colloqui con Benedetto XVI, nei quali avevo trovato ristoro dalle allergie delle cronache nostrane; che, però, irreparabilmente urgono. 

Si tratta di due saggi di diversa natura ma entrambi focalizzati sui nostri destini Europei. 

Il primo (di Michele Bellini, Salviamo l’Europa, edizioni Marietti1820, 2024, ebook) è un testo sospeso fra la storia recente dell’Europa e le prospettive di allargamento e di ri-progettazione strategica e funzionale della stessa. Ne viene fuori un quadro politicamente molto complesso ricostruito attraverso otto parole chiave per riscrivere il futuro (allargamento, sovranità, democrazia, sostenibilità, immigrazione, convergenza e tecnologia). Non mancano, ad avviso di chi scrive, alcune scontate accentuazioni non pacifiche (specie sull’usurato dilemma stato-mercato); ma complessivamente il lavoro dell’autore si segnala per il tentativo di completezza e di organicità.

Il secondo saggio (di Claudio Martinelli, Il Parlamento Europeo, edizioni Il Mulino, 2024), per l’ambito specifico delle analisi condotte, ancor più si raccomanda in quanto arricchisce il quadro tematico-politico con una più precisa (e largamente ignorata) prospettiva tecnico-giuridica, estremamente utile in quanto focalizzata proprio sull’istituzione (il Parlamento Europeo, appunto) che saremo a breve chiamati a ri-generare, nella sua composizione, sulla base dei mutamenti politici che si sono prodotti in questo recente quinquennio (e non solo in Italia). 

Già, perché, se anche non fossimo stati richiamati alla realtà dall’ "imperdibile"  baruffa

chiozzotta sull’abortito confronto Meloni-Schlein, comunque dovremmo ricordare che, fra una ventina di giorni, quasi 360 milioni di elettori saranno chiamati alle urne nei 27 stati membri per una consultazione democratica alla quale – posso sbagliare, come sempre – annetto una decisiva importanza per l’Europa (della quale siamo poco coscienti cittadini) ma soprattutto per il nostro, forse del tutto incosciente, paese.

Essendomi programmaticamente auto-definito (cfr. noticina Chi scrive, qui accanto) un elettore sempre deluso da chi ha votato, comprenderanno i miei lettori l’assoluta reticenza ad elargire (peraltro non richiesti) pareri (probabilmente destinati alla fallacia). Però, proprio attingendo dal libro di Martinelli, un pro-memoria sul senso delle prossime elezioni voglio consentirmelo: lo spartiacque attorno a cui si profila la competizione sarà quello tra europeisti e sovranisti, cioè tra forze politiche interessate e disposte a innescare un'evoluzione dell'Unione Europea in senso tendenzialmente federale, e altre convinte della necessità di rivedere le dinamiche europee ma nel senso esattamente opposto, cioè per dare ancora più forza alla dimensione nazionale nel momento decisionale. In sostanza, da una parte più potere alle istituzioni comunitarie per decidere sulla base di interessi generali dell'Unione nel suo complesso; dall'altra più spazio ai governi degli Stati, per far prevalere la loro interpretazione degli interessi nazionali, sia per avanzare qualche proposta, sia per potersi opporre a decisioni che non condividano.

Al di là delle inclinazioni di ciascuno verso questa o quella impostazione “filosofica” (il mio ben noto apprezzamento per la vita e la cultura politica del nostro Paese, rende inutile precisare su quali dei due versanti mi schiererei), tre cose comunque mi paiono certe: (1) che le prossime elezioni Europee saranno di decisiva importanza per il futuro delle nostre generazioni più giovani; (2) che, perciò, la diserzione dal voto stavolta sarebbe più colpevole del solito; (3) che, proprio dall’ampiezza e dalla significatività “democratica” del voto, dipenderanno le possibilità di un rafforzamento del ruolo del Parlamento Europeo, per puntellare e sanificare la percezione dell’Europa come destino e patria comune di noi tutti cittadini ( a scapito del ruolo di bersaglio ideale per tutte le variegate colpevolizzazioni  che populismi di ogni genere ne hanno fatto per diluire le responsabilità delle proprie insufficienze).

Roma 21 maggio 2024

 

 

 

sabato 18 maggio 2024

Pentecoste 2024

 Un augurio per tutti

(di Felice Celato)

Una bella festa, quella di domani, per chi ha la ventura di viverla alla luce della Rivelazione! Ma non solo per essi.

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano…. e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi…

A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Ed erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi ed Arabi e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”.(Atti, 2, 1-11).

L’antitesi di Babilonia (per questo la si chiamò Babele, perché il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. Gn, 11,9) e il fondamento della cattolicità (universalità) della Chiesa.

Nella Babilonia del presente, la Pentecoste rechi a tutti, fideles e non, la capacità di parlare in una lingua comune di verità; e di ascoltarsi vicendevolmente, anche facendo un po' di silenzio per veramente ascoltare.

Ci sono troppe cose che non sappiamo (o non vogliamo?) più comunicarci. 

Roma, 18 maggio 2024, viglia di Pentecoste.

mercoledì 15 maggio 2024

Un'altra segnalazione

Il Natale del 1833

(di Felice Celato)

Sempre sulla via della fuga dal presente, eccomi con una nuova segnalazione; stavolta si tratta di una rilettura di un romanzo letto una prima volta quasi quaranta anni fa: di Mario Pomilio, Il Natale del 1833 (Mondadori, 1988); un romanzo – lo dico subito – “difficile”, che suscitò, a suo tempo, tante di quelle sapienti recensioni onde (al redattore di questa nota) per poco il cor  non si spaura; “difficile”, dicevo, per il tema “eterno” trattato (il cd silenzio di Dio), per la penna complessa dell’autore (Mario Pomilio, come sanno i miei lettori, da me molto amato), per l’immenso personaggio del protagonista (Alessandro Manzoni, qui a lungo silente e angosciato) e per la struttura stessa della narrazione, un mix di invenzione letteraria e di deboli tracce storiche (alcuni frammenti di un inno sacro, solo abbozzati dalla penna dello stesso Manzoni, a valle della morte dell’adorata moglie Enrichetta Blondel, appunto nel giorno di Natale dell’anno 1833).

Che doveva pensare, l’ormai cattolicissimo don Lisander – il cantore letterario della Provvidenza – del proprio dolore, della sua fervente preghiera non esaudita, nel giorno della solennità cristiana della nascita del Salvatore? 

A questo interrogativo Pomilio cerca una risposta, (letterariamente) immaginando un Manzoni naturalmente sconvolto, che si rifugia nella stesura di una tragedia di argomento biblico proprio su Giobbe o nella revisione del testo de La colonna infame, perché non gli consente più di leggere la storia nel quadrante della fede; e anche tentato dalla disperazione (deve essere terribile domandare a Dio di non chiedere troppo alla nostra fede), fino alla catarsi fideistica in una lettera (anch’essa immaginata da Pomilio) al suo amico Fauriel (che cosa c'è, riflettendoci bene, di più consolante che questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e d'amore? E in verità è questo, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; il dolore di ciascuno è la croce di Dio).

Come si intuisce da questi pochi elementi, Il Natale 1833 di Pomilio, col suo essere ad un tempo racconto e meditazione, si pone naturalmente fra le opere più dense della nostra letteratura del secolo scorso; forse sorretto dalle autorevoli recensioni più che – immagino – dal consenso dei lettori, vinse anche il premio Strega del 1983. Anche al lettore di oggi può forse apparire pesante; e un po’ lo è, non ostante la brevità. Io l’ho trovato tuttavia molto bello, come del resto mi apparve quando lo lessi la prima volta.

Roma, 15 maggio 2024

 

sabato 11 maggio 2024

Segnalazioni

 Letture come via di fuga

(di Felice Celato)

Sempre nell’intento (puntualmente frustrato) di trovare nelle letture (o nelle riletture) la via di fuga mentale dall’angoscioso presente (del mondo e del nostro paese), in questo periodo il mio ritmo di lettura si è – se possibile – ulteriormente accelerato. Eccomi dunque al solito, breve, resoconto delle letture più significative, limitandomi ad alcuni saggi veri e propri ma associando ad essi  quelli in forma di narrazione: 

  • Il primo (e di gran lunga il migliore, in questa fase delle mie letture) è un libro di Salvatore Maurizio Sessa [Il Gesù di Paolo e il Paolo di Gesù (San Paolo, 2009)], una specie di biografia spirituale di San Paolo, attraverso le sue lettere e gli Atti degli Apostoli, scritta da un biblista e teologo che, fra l’altro, cura per la Scuola Biblica delle Stimmate un bellissimo corso di teologia biblica, che raccomando di seguire, fruibile anche da remoto. Molto bello, ben scritto, anche – ovviamente – con intenti parenetici, il testo ha contribuito con efficacia al rafforzamento della mia ormai datata convinzione che San Paolo costituisca l’umano pilastro che regge la storia della nostra fede nel tempo. Una lettura altamente raccomandata.
  • Il secondo saggio (come si capirà subito, di tutt’altra “area”) è l’ampio volume di un matematico dalla penna molto prolifica [di Piergiorgio Odifreddi, In cammino alla ricerca della verità (Rizzoli, 2022)], che – lo confesso – se non mi fosse stato regalato da un amico che, però, mi chiedeva di leggerlo, non avrei certamente scelto di leggere. In esso, l’autore presenta le cronache intellettuali di qualche cordiale e anche affettuoso incontro e di molte corrispondenze (ovviamente di squilibrata lunghezza) con Benedetto XVI,  puntualmente ed onestamente riprodotte dall’autore come corpus del libro ma anche come spunto per le ampie contro-repliche e le immense divagazioni dell’autore stesso. Non è il caso in questa breve nota di accennare nemmeno di sfuggita ad alcuno dei temi critici di Odifreddi, tutti – a mio avviso – testimoni di attente letture e riflessioni ma dichiaratamente orientate ad un ragionante scetticismo sistematico che certamente non fa propria “l’opzione fondamentale” ( JR, Introduzione al cristianesimo: credere vuol dire aver deciso che nel cuore stesso dell'esistenza umana c'è un punto che non può essere alimentato e sostenuto da ciò che è visibile e percettibile, ma dove si incontra l'invisibile, sicché quest'ultimo gli diviene quasi tangibile, rivelandosi come una necessità inerente alla sua esistenza stessa ). Dò invece ben volentieri atto all’autore del libro dell’onestà intellettuale con la quale ha riferito delle severe notazioni di BXVI, sia quando estese e puntuali sia quando forse manifestate attraverso una possibile stanchezza (anche ingravescente aetate) di fronte al dilagare dialettico dell’autore.
  • Il terzo libro, invece, è un testo più che stagionato [di Alexandre Dumas, I Borgia (Rea, 2014, in formato e-book)] che ricostruisce in forma narrativa la convulsa storia dei Borgia (in particolare di papa Alessandro VI e di suo figlio, Cesare Borgia, il cd Duca Valentino, che tanto piaceva per coraggio ed intelligenza a Machiavelli), raccontata attraverso i mille intrecci delle alleanze che Papa e figlio andavano costruendo e disfacendo per assicurarsi potere, ricchezze e “gloria”. Curioso che il libro si concluda con una citazione che – durante tutta la lettura – anche a me era venuta in mente: la novella di Boccaccio sull’ebreo che si converte al cattolicesimo perché – vista la corruzione dei pontefici e dei loro entourage romani (si era nel 1300!) – si convinse che la sussistenza della Chiesa non poteva che essere frutto dell’assistenza dello Spirito Santo, non certo della dignità dei suoi capi (di quel tempo ora lontano).
  • Il quarto (ed ultimo) libro di questa raccolta di vie di fuga dal presente, è dello stesso genere (saggio in forma narrativa) ma relativo a personaggi assai più recenti e anche assai meno noti [di Silvia Ballestra, La Sibilla - Vita di Joyce Lussu (Laterza, 2022, ebook)]; un saggio storico-politico e letterario sotto forma di biografia di Gioconda Beatrice (detta Joyce) Lussu, moglie (anglo-marchigiana) di Emilio Lussu, antifascista e militante protagonista della resistenza. Un personaggio (Joyce Lussu Salvadori) molto interessante, di grande energia rivoluzionaria e femminista, scrittrice e poetessa costantemente impegnata nelle lotte antifasciste un po' in tutta Europa e anche in Africa, anche a prezzo di gravissimi rischi personali, corsi con indomita passione. Un  saggio senz’altro molto interessante, frutto di una appassionata ricerca documentale, anche piacevole da leggere nonostante una prosa talora pesante.

Certo, dirà qualche lettore malizioso, con queste letture ti sei perso gran parte dell’interessantissimo dibattito preelettorale, completamente de-focalizzato rispetto ai valori sottoposti al giudizio del “popolo” (anzi: dei popoli)! Pazienza, me ne farò – ben volentieri – una ragione.

Roma  11 maggio 2024