sabato 30 dicembre 2023

Un insonne 2024

L’anno delle Olimpiadi

(di Felice Celato)

Sì, ci ricorda il Sole 24 ore, in ben 62 paesi della terra, per un totale di 4 miliardi di abitanti, nel 2024 si voterà! Compresi Stati Uniti (5 novembre) ed  Europa (6-9 giugno). E, per quel che mi riguarda, basterebbero e avanzerebbero queste due consultazioni elettorali per tenermi insonne fino a novembre del prossimo anno.

Si aggrovigliano intanto i due scenari bellici che abbiamo vicino alla porta di casa, con fondate aspettative di durare ancora a lungo, trascinando con sé scie di sangue e di distruzione (e anche d’altro, ancora imponderabile). E anche qui c’è veramente poco da assopirsi!

Poi ci siamo noi, piccolo e sonnambulo punto del mondo continuamente alle prese con la sua ipertrofia emotiva, di cui abbiamo già parlato riferendo del 57° Rapporto Censis. Forse l’insonnia è più angosciante del sonnambulismo (e lo dico da insonne, senza alcun episodio sonnambulico, per quel che ne so); ma immaginare dei sonnambuli che vanno a votare… mi provoca altra insonnia!

Però, il 2024 – oltre a portarci l’avvio, finalmente, dei tanto attesi lavori per il Ponte sullo Stretto di Messina – sarà ancora un anno di Olimpiadi! E per qualche settimana – magari grazie a Jacobs e Tamberi – ci distrarremo sperabilmente, fra il 26 luglio e l’11 agosto, a votazioni Europee già espletate, però. E magari, chissà, verrà proclamata – come era d’uso nell’antica Grecia – la “tregua olimpica” (l’ekecheiria cioè la sospensione di ogni conflitto, pubblico e privato, durante lo svolgimento dei Giochi).

Per non aggrovigliarci con le date, finiamolo qui, questo post meramente augurale. Dormiremo poco nel 2024, questo è certo; e, quel poco, anche camminando verso i seggi elettorali. Ma pazienza! C’è sempre la speranza dell’ekecheiria!!!

Buon anno a tutti, nonostante tutto!

Roma 30 dicembre 2023

 

venerdì 22 dicembre 2023

"FESTIVITA'" 2023

 Gli auguri di Felice Celato

Sotto questa anodina e mondana denominazione (festività), sono tradizionalmente raggruppate – per la verità impropriamente  - due feste in realtà fra loro profondamente diverse: anzitutto il Natale, festa religiosa per eccellenza;  e, subito dopo, il Capodanno, festa laica e prevalentemente civile. Nel raggrupparle per “comodità augurale”, tuttavia mi piace tenerle separate, ancorché non manchino ragioni per viverle congiunte.

Il Natale è la festa in cui Dio si fa così vicino all’uomo da condividere il suo stesso atto di nascere, per rivelargli la sua dignità più profonda: quella di essere figlio di Dio. E così il sogno dell’umanità cominciando in Paradiso – vorremmo essere come Dio – si realizza in modo inaspettato non per la grandezza dell’uomo che non può farsi Dio, ma per l’umiltà di Dio che scende e così entra in noi nella sua umiltà e ci eleva alla vera grandezza del suo essere….. La grazia di Dio è apparsa: ecco perché il Natale è festa di luce. Non una luce totale, come quella che avvolge ogni cosa in pieno giorno, ma un chiarore che si accende nella notte e si diffonde a partire da un punto preciso dell’universo: dalla grotta di Betlemme, dove il divino Bambino è “venuto alla luce”; pochi – per quanto io ne sappia – l’hanno così brevemente ed efficacemente descritto, il senso profondo di questa festa religiosa del Natale, come ha fatto con queste parole il grande pontefice, Benedetto XVI, della cui scomparsa, giusto il 31 dicembre, cade l’anniversario. Per vie che qui non è il caso di analizzare, quest’anno, per me, uti homo et pater familias (non patriarca, per carità!), il Natale è stato particolarmente denso di umanissimi significati; auguro a tutti i miei amici e lettori di poterlo vivere con analoghe, dense sensazioni ed intenzioni: uomo moderno, adulto eppure talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prender per mano dal Bambino di Betlemme; non temere, fidati di Lui!

Poi c’è l’anno che muore, fra “bòtti” e calici scintillanti, e quello nuovo che segue, carico – come avviene in ogni Capodanno - di speranze “palingenetiche”; che restano tuttavia affidate, nella debolezza del pensiero e della volontà, alla libertà dell’uomo, alla sua libertà di scegliere fra il bene ed il male nel fare la sua storia (personale e collettiva) nel mondo. Il 2023, infatti, a dispetto delle speranze rigenerative che inutilmente l’hanno accompagnato al suo nascere, è stato, per il mondo in cui viviamo, un anno terribile: le guerre, le loro perduranti conseguenze, le minacce insite in esse, le tante morti ("colpevoli" ed "innocenti", come accade – ed è sempre accaduto ai figli di Caino - in ogni guerra, anche quelle che, pure, hanno costituito una svolta della storia ed il fondamento di nuovi mondi, magari sulle macerie delle umane follie); e poi i minacciosi scuotimenti dei faticosi ed instabili equilibri (politici ed economici) su cui poggiavano ancora una volta le nostre umane speranze di un mondo migliore, fondate o infondate che siano state.

Siamo immersi nella nostra storia, fatta di luci e di bui, e di essa siamo parte e in qualche modo protagonisti; e ne respiriamo profumi e miasmi. E tuttavia – lo ammetto come atto di giustizia nei confronti dell’anno che si compie – conserverò una privatissima memoria dolce e positiva del 2023: mi sono avvenute, in quest’anno terribile per il mondo, ottime cose, in parte lungamente attese ed in parte del tutto inattese. Anche queste  – col gesto mentale della nostra lontanissima infanzia – mi propongo di recare alla grotta di Betlemme dove è venuto alla luce quel Bambino di Betlemme, del quale - non per mia virtù ma per dono ricevuto – ho deciso di fidarmi, avendone anche sperimentato, in tutta la vita, la dolce forza e il sostegno.

Il mio augurio, per me stesso e per tutti i miei cari ed amici, è quello di nutrire questi sentimenti per tutto l’anno che viene; di trapiantare il senso del Natale in ciascuno dei giorni che ci aspettano e di goderne a lungo i frutti, nonostante tutto. Buon Natale a tutti e un Nuovo Anno che possa almeno mantenerci al riparo dalle follie del mondo (e nostre).

Roma, 22 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 14 dicembre 2023

Parole

Austerità, nostra gioconda serietà

(di Felice Celato)

Si deve ai (molti e talora stolidi) detrattori di una delle donne più influenti del XX secolo, Margareth Thatcher, la “corruzione” del senso di una nobile parola latina (austeritas), della quale forse vale la pena di ricostruire il significato.

Partiamo, appunto, dal dizionario Il Latino, edito da Le Monnier per conto di Mondadori, che, al punto 3 (che qui ci interessa, cioè all’accezione figurata) recita: Austeritas -ātis f. …. 3. fig., severità: Quint. 2.2.5; tua gravitas iucunda, mitis austeritas, la tua gioconda serietà, il mite rigore, Apul. fl. 9.

Poi esploriamo la mitica Treccani che, alla voce austerità, così spiega la parola nei suoi significati italiani: austerità s. f. [dal lat. austeritas -atis; nel significato 2, è un calco dell’inglese austerity]. – 1. L’essere austero, qualità di ciò che è austero: uomo di grande austeritàausterità di vitadi costumiausterità di un ambientedi un complesso architettonico; meno comuneausterità del climadella stagione. Riferito al vino, sapore lievemente aspro e astringente: il vin vecchio, perdendo la dolcezza, acquista quella forza piena d’austerità (T. Tasso). 2. Regime economico-politico di risparmio nelle spese statali e di limitazione dei consumi privati, imposto dal governo al fine di superare una crisi economica.

E per completare la ricerca, leggiamoci, sempre dalla mitica Treccani, quali sarebbero i contrari di austero (cioè di chi pratica l’austerità): immoderato, incontinente, sfrenato, smoderato, sregolato, corrotto, lascivo, vizioso, etc.

Bene: è bastata la (stolida) impopolarità di Margaret Thatcher (sui cui meriti magari torneremo un’altra volta, quando saremo meno in vena di divagazioni) perché l’austerity, dall’essere in qualche modo una virtù del costume, diventasse lo spauracchio degli Italiani incoscienti che si affidano alla propaganda lessicale corrente (sempre da Treccani: spauracchio: ….per estensione: persona cosa, situazione che incute timore e spavento. Anche persona tanto brutta, sciupata, malridotta e simili da fare quasi paura).

Si dirà: ma si sa e si capisce! Gli Italiani non vogliono proprio essere austeri, è nella loro natura (magari aggiungendo: che tutto il mondo ammira!). E’ vero; ma, per mero controllo lessicale, si rilegga – qualche riga sopra – quali sono i contrari di austero.

E, infine, si dirà ancora: ma come ti viene in mente, poi, questa pedante ricerchetta?

Niente, così, leggiucchiando, sui giornali, le acrobazie esplicative dei commentatori sul cosiddetto nuovo Patto di Stabilità…. ma, per ora, vi risparmio digressioni lessicali sulla parola stabilità; e anche l’analisi economico-finanziaria dei benefici e dei malefici della austerity (ormai tutti ne hanno sentite di tutte, su questo tema).Nostra gravitas iucunda, mitis austeritas, la nostra gioconda serietà, il mite rigore, direbbe forse Apuleio.

Roma, 14 dicembre 2023 

 

 

 

mercoledì 6 dicembre 2023

Stipi-diario dell'emotività (*)


Uno sciopero sognato

(di Felice Celato)


(*)

I lettori più stagionati di questo blog sanno che lo scopo di questa rubrichetta  (avviata, con intenti lievi, nel giugno del 2011 ma da tempo non alimentata) non è quello di attribuire arbitrarie patenti di stupidità a chicchessia ma solo quello di manifestare lo stupore di chi scrive per come va il mondo (e ciò anche se…. stupore e stupidità hanno lo stesso etimo).


Procedendo con l’analitica lettura del 57° Rapporto Censis mi sono imbattuto, qualche giorno fa, in un concetto (il mercato dell’emotività) che mi ha molto colpito per l’efficacia espressiva con cui sintetizza una sensazione che da tempo mi pervade quando, stancamente, scorro le pagine dei giornali nostrani o, tristemente, lascio affluire alle orecchie i polifonemi in uso a conduttori e a cronisti politici dell’informazione televisiva [N.B.: nel mio personale linguaggio l’espressione polifonema vorrebbe –stavolta sarcasticamente – indicare un’espressione linguistica formata da una pluralità di suoni che sono privi o hanno perso, nel tempo, il loro autonomo significato; significanti senza vero significato].

Il mercato dell’emotività presuppone, come ogni mercato, la produzione, il confezionamento, il trasporto e il commercio di qualcosa che, grazie all’incontro fra l’offerta e la domanda, trova collocamento presso i consumatori; il mercato dell’emotività è, perciò, la produzione, il confezionamento, il trasporto e lo smercio a grandi mani di emozioni, intese (Treccani) come processi interiori suscitati da un evento-stimolo rilevante per gli interessi dell’individuo, in risposta ai quali si verificano modifiche fisiologiche, che sono adattive in quanto permettono di mobilizzare le energie in maniera rapida e di far fronte ad una situazione di emergenza; il tutto muovendosi sull’uscio (spesso insuperabilmente serrato) della razionalità e della elaborazione di soluzioni, entrambe inevitabilmente più faticose della semplice percezione emozionale (e da qui il successo delle emozioni e quindi l’inconscia ma diffusa domanda di esse, cui corrisponde

inevitabilmente la loro offerta sul mercato, appunto).

Bene; se questo è – per come l’ho inteso io – il mercato dell’emotività, eccomi al sogno (audace e ...perverso) di una notte autunnale: immaginiamo che, per un mese, scendano in sciopero i trasportatori di emotività (resocontisti parlamentari, intervistatori di politici, conduttori di talk-show, etc.) e che, perciò, per un mese (non di più, per carità, perché sarebbe "democraticamente" pericoloso!) si blocchi il mercato dell’emotività veicolata negli slogan

della nostrana comunicazione politica. Immaginate, chessò, improvvisamente ferme, sulle autostrade mediatiche, lunghe file di TIR pieni di banalità e grattature di pance; e che, per esempio, Radio Radicale, per sciopero degli addetti, si veda costretta a sospendere le noiosissime, ma istruttive, trasmissioni di dibatti parlamentari, dove appare evidente – a chi purtroppo, come me, li ascolta diligentemente mentre viaggia in macchina – che pomposi relatori parlamentari parlano spesso di cose che evidentemente non hanno chiare, solo per veicolare slogan e grattature di pance ad uso di diffusione meta-parlamentare. Immaginate questo scenario e provate a svilupparne le (sempre immaginarie!) conseguenze (assumendo che il Vice-Presidente del Consiglio non provveda a precettare i trasportatori di stimoli emotivi!): per un po' si interrompe il commercio delle emotività, gli stimoli alle pance si sospendono e, magari, le teste ricominciano a pensare; i giornali risparmiano un sacco di pagine dedicate alle lofty platitudes della politica e i telegiornali recuperano tempi per la veicolazione dei loro argomenti preferiti (chessò, il compleanno di Del Piero o gli ospiti del Festival di San Remo del prossimo anno); i politici hanno più tempo per studiare i dossier e – ove necessario - per impadronirsi della differenza fra milioni e miliardi; i cronisti parlamentari non devono più – per un mese solo, però – inseguire deputati e senatori per carpirne lo slogan che si vuole canalizzare verso il mondo; la domanda di emozionalità viene temporaneamente disconnessa dalle agognate banalità!

Scenario irenico, diranno in molti, ancorché (mi raccomando!) per soli giorni trenta. Ma anche scenario speranzoso: chissà che solo trenta giorni non bastino per rimettere in azione le cellule cerebrali? In fondo il buon Dio ce ne ha fatto dono, con la sua consueta generosità!

Roma  6 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

venerdì 1 dicembre 2023

Censis 57°

Pessimisti ed ottimisti

(di Felice Celato)

Come ogni anno, ormai da molto tempo, il primo venerdì di dicembre è dedicato al Censis e alla sua annuale radiografia (quest’anno è la 57°) della società italiana, come emerge dalla congerie di dati che, su di essa, il Censis elabora, allinea ed interpreta. E come ogni anno, provo ad individuare le parole-chiave che danno un primo senso sintetico dell’analisi, traendole dalle pagine introduttive del corposo volume, alla cui (integrale) lettura ovviamente è necessario fare rinvio prima di trarre – come invece domani inevitabilmente avverrà su molti giornali – auspici o negative premonizioni per costruire la consueta nostra banale antinomia fra ottimismo e pessimismo (non sempre puramente intellettuale).

Molte scie, nessuno sciame: accomunando promesse di inclusione, occasioni di benessere, investimenti in capitale umano o patrimoniale, il nostro Paese ha costruito in decenni il proprio meccanismo di vita sociale, preferendo, per così dire, lo sciame allo schema, l'arrangiamento istintivo al disegno razionale. Uno sciame che oggi appare disperdersi distaccando dietro di sé mille scie divergenti…. Gli sciami si sono dispersi: quel meccanismo di promozione e mobilità sociale [che aveva costituito il nostro modello di sviluppo] si è usurato. La vitalità complessiva, probabilmente maggiore che negli anni recenti si dirada in una sequenza di scie, tracce fluide a bassa potenza unitaria, linee sottili a cui mettersi in coda con poche relazioni e pochi condizionamenti, in una solitudine montante di assetto e vita sociale.

Ciechi dinnanzi ai presagialcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall'agenda collettiva del paese o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l'insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza nel fronteggiarli con efficacia, per prevenire, per quanto è possibile, quelli che si annunciano come probabili collassi.

Sonnambulila società italiana, sembra (…) affetta da un sonnambulismo diffuso: al di là del coinvolgimento ordinario nelle tante ed articolate attività della vita quotidiana, la comunità nazionale sembra riposare in una sorta di torpore, in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali di lungo periodo dagli effetti potenzialmente funesti.

Ipertrofia emotiva: una ipertrofia della sfera emotiva ravvisabile nella nostra società, la rende impermeabile alle buone ragioni dei fatti e delle cifre e vanifica i tentativi di imbastire una discussione argomentata, finalizzata alla ricerca di soluzioni lungimiranti. Nell'atmosfera emotiva in cui la società italiana si è immersa, vincono le credenze fideistiche: ogni verità ragionevole può d'improvviso essere ribaltata, sbullonata dal piedistallo della indubitabilità per effetto di una nuova onda emotiva.

I desideri minori: è il tempo dei desideri minori, non più uno stile di vita all'insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l'agiatezza, ma una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori per garantirsi uno spicchio di benessere - magari temporaneo e reversibile - in un mondo ostile. Il consumo progressivo non è più la forza vitale che trascina gli italiani e che li spinge a lavorare di più per generare più reddito da spendere. Insomma, non agiscono più gli “eroici furori” della passata epopea perché  il cambiamento del rapporto con il proprio tempo e la ridefinizione della gerarchia dei valori fa sì che l'energia individuale, che in passato si traduceva in una spinta collettiva, ora si condensa in una nuova soggettività dei desideri a bassa intensità, che finisce per smorzare il ciclo.

 

Certamente, come accennavo all’inizio, queste brevi citazioni servono solo a dare un’idea di quello che a me sembra il mood interpretativo del Censis di quest’anno. E certamente anch’esse contengono, se proprio si vuole, più di qualche spunto per alimentare la banale antinomia di cui sopra. Tuttavia, lo ripeto, nelle sue oltre 400 pagine, il 57° Rapporto del Censis credo contenga tutti gli elementi perché ciascuno possa meglio sostanziare la propria visione del presente. I pronostici per il futuro (questo sono in sostanza i nostri ottimismi o i nostri pessimismi) restano affidati alla sicura lettura delle posterità, che hanno il grande vantaggio di potere giudicare questo presente come passato e quei pronostici come fallaci o veritieri.

Roma 1°dicembre 2023

  

giovedì 16 novembre 2023

Letture "necessarie"

La speranza di Europa

(di Felice Celato)

Complice un fragoroso e fluido raffreddore, mi sono immerso per molte ore nell’avida lettura di un denso e corposo libro che mi va di raccomandare caldamente, soprattutto a chi, come me, vive con ansia le vicende della nostra patria Europa, secondo la storica espressione che Alcide De Gasperi usò in un visionario discorso di quasi settanta anni fa (1954): Patrie – Una storia personale dell’Europa (Garzanti 2023) di Timothy Garton Ash, storico e docente presso le Università di Oxford e Stanford e opinionista di alcune testate internazionali. Si tratta, come dice il sottotitolo, di una storia dell’Europa dal 1945 ai giorni nostri, scritta con grande acume di studioso ma anche con la passione di chi, fin da giovane, l’Europa ha amato e conosciuto profondamente, anche attraverso numerose peregrinazioni nelle diverse patrie del caleidoarazzo europeo (un arazzo. realizzato da molteplici mani per produrre un'unica immagine… una Gesamtkuntswerk, un’opera d’arte totale….).

Certamente, come emerge dal quadro magistralmente ed appassionatamente disegnato da Garton Ash, l’Europa non gode, oggi, di splendida salute, per le sfide esterne (il “fronte” Ucraino e l’ attiva ostilità russa) ed interne (questione migratoria, nelle sue diverse declinazioni; debito pubblico e scenari economici; conseguenti populismi diffusi, non solo in Italia; debolezza di diverse democrazie, segnatamente quella Ungherese e quella Polacca); eppure, conclude Garton Ash, l’Europa di oggi, pur con tutti i suoi difetti, limiti e ipocrisie, pur con tutti i passi falsi degli ultimi anni, è di gran lunga migliore di quella che iniziai a esplorare all'inizio degli anni 70. Per non parlare dell'inferno in cui visse mio padre quando era giovane. È migliore anche di quella dei secoli precedenti, inclusa l'Europa pre-1914 idealizzata da Stephan Zweig. Di fatto, sulla falsariga della celebre affermazione di Churchill sulla democrazia, potremmo dire che questa è la peggiore delle Europe possibili, eccezion fatta per tutte le altre Europe che si sono sperimentate finora. Difendere, migliorare e allargare un'Europa libera ha senso. E’ una causa degna di speranza…una speranza che, secondo il pensiero che Vaclav Havel espresse negli anni ottanta dopo un lungo soggiorno in un carcere comunista, “non è una predizione ma un orientamento dello spirito e del cuore”. Una speranza – aggiungo io – cui dobbiamo tutti dedicare l’attenzione, la passione e le energie che richiede; anche perché non ha alternative se non quelle della tormentata storia dell’Europa dal 1945 fino ai giorni nostri; che, però, nonostante tutto, sono stati infinitamente migliori di quei molti, sanguinari decenni che li hanno preceduti.

Questo è il senso dell’appassionante libro di Garton Ash, che conduce a quella conclusione attraverso un analitico esame di molte delle vicende che ha studiato e vissuto, alcune delle quali – soprattutto la triste vicenda della Brexit – con personale dolore e rimpianto. L’Europa (una cultura del cuore…una comunanza nella diversità, come ebbe a dire Joseph Ratzinger in un magnifico discorso tenuto a Cracovia nel 1980) è stata il grande sogno di chi – sopravvissuto a due guerre mondiali, entrambe nate in Europa – ha saputo avviare un progetto di pace sulle macerie del passato; un progetto che a noi è tutt’ora affidato per il suo compimento. E’ per questo che mi indigna ogni segno di sciatta noncuranza o di sciocca alterigia o di irresponsabile iattanza verso la nostra patria Europa, che tanto spesso affiora non solo nel framing dell’Europa di cui abbiamo parlato qualche settimana fa ma anche nelle concrete azioni (o inazioni) di chi l’Europa concepisce come un bancomat che non abbia il potere di rifiutare carte di debito alterate.

Roma  16 novembre 2023.

mercoledì 1 novembre 2023

Tentate divagazioni

La fuga mentale

(di Felice Celato)

In questo buio periodo della nostra umanità (ma anche della nostra propria cultura), come mi accade in situazioni analoghe, ho tentato la fuga mentale, cercando rifugio in letture estranianti; e anche lasciando correre la curiosità dietro ai percorsi di qualche parola, magari divenuta corrente senza troppa coscienza della sua semantica. Due esercizi di fuga mentale che, come al solito, mi riescono sempre solo in parte: basta ri-sfogliare i giornali, come è inevitabile (e purtroppo doveroso) per ognuno che voglia restare, comunque, cittadino del presente. Eccovi comunque una breve “relazione” delle mie fughe:

I.

Letture estranianti.

Non starò ad elencarvele; vi dico solo che, ovviamente, c’è anche un libro “recente” di Benedetto XVI, una antologia di scritti sui Suoi Santi (I miei Santi, In compagnia dei giganti della fede, Fondazione Terra Santa, 2023), da leggere però un po' per volta. Vi vorrei invece segnalare con qualche parola di più un altro testo, di natura meno… intima e, tuttavia, estremamente gradevole ed interessante. Si tratta – e come ti sbagli? – di un libro vecchio di cinquant’anni (era uscito nel 1974, come frutto di decennali ricerche sul tema), meritoriamente ripubblicato quest’anno da Mondadori nella collana Oscar, e scritto da un grande autore del Novecento Italiano (di Mario Tobino: Biondo era e bello) che, nel testo, confessa il suo stagionato amore che dopo anni e anni non langue per quel monumento immortale della nostra cultura che fu (ed è!) Dante Alighieri, qui ritratto nel suo essere, ad un tempo, un colto comprimario del suo terribile tempo e il poeta sommo, che tutti conosciamo e che, da quel tempo, traeva gli umori (eterni) della sua poesia – e anche del linguaggio. Una specie di biografia intellettuale, politica e morale, magnificamente scritta, senza la pesantezza di minuziosi riferimenti cronologici ma con un trasparente radicamento nelle vicende di un’Italia che si faceva, come prodromo dell’Umanesimo e del Rinascimento, nella bolgia delle sue passioni e delle sue fazioni, alle quali Dante guardava, non senza animosità, come allo specchio eterno de li vizi umani e del valore.

Insomma: una lettura che raccomando caldamente, non solo per fuggire dal presente ma anche per meglio conoscere il padre Dante.

II

Parole

La “manovra” di bilancio per l’anno 2024 è blindata, dice qualche governante e ripetono i giornalisti. E forse, pare, sarà blindata anche l’incombente riforma costituzionale  che darà vita alla – tanto attesa! – terza repubblica. Ma che vuol dire blindata?

Partiamo dal Vocabolario on line, meritoriamente prodotto da Treccani in piena accessibilità via internet: blindato agg. [part. pass. di blindare]. 1. Rivestito di una corazza protettiva: treno b., carro b., automobile b. […etc] 2. estens. Nel linguaggio giornalistico, ben difeso, superprotetto (riferito a persone, o anche ai loro movimenti, a manifestazioni, ecc.): processo b., percorso b., testimone b., corteo blindato. 3. fig. Nel linguaggio giornalistico, non modificabile: accordo b., contratto blindato.

Ora passiamo all’ottimo Dizionario etimologico edito da Le Monnier (autore: Alberto Nocentini) e realizzato per Mondadori Education SpA, per renderci conto delle origini di questa parola così poco italiana nel suono:

blindàto agg. e s.m. [1905], part. pass. di blindare; vedi sotto blinda.

blìnda s.f. [1663], rivestimento metallico protettivo. Prestito germanico per tramite di altre lingue: dal fr. blinde, dal ted. Blende ‘schermo, protezione’, derivato di blenden ‘accecare, schermare’.

[Nota mia: del resto, anche in inglese to blind significa accecare].

Dunque: la manovra 2024 e fors’anche la tanto attesa riforma costituzionale sembrerebbero nascere sotto l’auspicio della cecità. Bene saperlo in anticipo.

III. Conclusione 

Con Dante, la fuga mentale per un po' mi è riuscita (fatte salve le serpeggianti analogie coi vizi eterni del nostro paese, così bene lumeggiati da Tobino nella Firenze dantesca). La blindatura, però, mi ha stroncato la fuga!

Andrò avanti in cerca di divagazione continuando la lettura di Benedetto XVI e dei “suoi” Santi, dedicando magari una speciale attenzione ai capitoli su San Benedetto da Norcia e Santa Caterina da Siena, patroni dell’Europa. Nel frattempo, corrono le battaglie in Ukraina e in Medio Oriente.

Roma, 1° novembre 2023 (festa dei Santi)

 

 

domenica 15 ottobre 2023

Drammatiche incombenze

Senza se e senza ma?

(di Felice Celato)

Si resta senza parole difronte ai massacri terroristici che stanno innescando, a due passi da noi, nel cuore di questo scampolo di Occidente che è Israele nel suo sitz im leben mediorentale, una delle più tragiche e temibili crisi del nostro tempo. Se – come me – non si è detentori di una superiore saggezza, lo svolgimento dei fatti e la necessaria reazione che essi impongono dovrebbero sgomentare ogni tentativo di semplificazione; e scoraggiare la formulazione di certezze che vadano al di là della pura e severissima deprecazione per il nefasto innesco di questa pericolosissima crisi.

Eppure il da me amatissimo popolo Israeliano ha vissuto in questi giorni la necessità ineludibile di decidere qualcosa; e deve (e in parte ha già dovuto) farlo in un periodo di profonda crisi del suo contesto politico; e deve (e in parte ha già dovuto) farlo subito, perché è il suo annientamento lo scopo primo dei terroristi che l’hanno assalito ed insanguinato; e deve farlo – anche per noi – perché lo scopo ultimo dei terroristi (e di chi li finanzia e sostiene) è il mondo di cui noi siamo parte insieme ad Israele.

Decidere, hic et nunc ma anche sempre in ogni azione dell’uomo, impone una necessaria semplificazione del reale, cioè una scomposizione e una classificazione, in ordine di importanza, delle ragioni che inclinano ad una decisione, in un senso o nell’altro, sul da farsi e anche sul da non farsi, persino valutando i rischi di una non-azione (nel caso specifico, credo io, improponibile). Il decidere comporta, inevitabilmente, assumere il rischio dell’errore, tanto più quanto la decisione presenta i caratteri dell’estrema urgenza e anche della necessaria deterrenza di ogni ulteriore aggressione.

Non è alla portata della mia insufficiente saggezza nemmeno affacciare un’ipotesi di valutazione di ciò che già vediamo sul campo e che, ancor meglio, vedremo, purtroppo, nei prossimi giorni. La guerra, storica tabe della umana convivenza, tira spesso fuori il peggio di quanto alberga nell’animo umano. 

Quello che però sicuramente mi irrita, in un contesto così difficile (per chi deve decidere qualcosa) e gravido di conseguenze (per il popolo d’Israele e per il mondo) è il corrente e corrivo polifonema con cui ciascun enunciatore di verità in favore di telecamera qualifica la propria proclamazione di giudizio: senza se e senza ma, a riprova di immarcescibili determinazioni.

Non esistono decisioni di azione o di inazione (ma nemmeno di lontano e retorico supporto o condanna), valutate ed assunte senza se e senza ma, se non decisioni incoscienti; si può semmai tollerare il polifonema (senza se e senza ma) se riferito a princìpi, quando essi sono fondati su saldi valori non negoziabili per chi ha una certa concezione del vivere civile e dell’uomo. Non a caso, difatti, molto opportunamente la Chiesa di qualche tempo fa così qualificava i princìpi connaturali alla sua antropologia fondata sulla Rivelazione, ovviamente prescindendo dall’esito democratico di tale sua posizione, in un contesto nel quale l’antropologia cattolica pacificamente convive con tutt’altre – e oggi prevalenti – concezioni dell’uomo e della vita.

Vedremo comunque, ahimè nel tempo che scorre, la solidità delle suddette immarcescibili determinazioni.

Roma, 16 Ottobre 2023, 80° anniversario della razzia Nazista nel quartiere ebraico di Roma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

domenica 24 settembre 2023

Il framing dell’Europa

Blue mood

(di Felice Celato)

L’avranno capito, i miei ventiquattro lettori, dalla rallentata frequenza di queste esche per conversazioni amicali: mi è passata la voglia di scrivere, per non risultare lamentoso ed uggioso (o forse per non esserlo anche con me stesso). Il fatto è che mi pare di vivere in un angoscioso periodo di “scientifica” manipolazione culturale ed emotiva, mirato alla costruzione di un’opinione pubblica pronta a digerire qualsiasi cosa, anche la più dissennata, per accompagnare desideri di una nuova egemonia culturale senza comprenderne veramente le implicazioni.

In queste macerazioni mentali mi ha accompagnato la lettura di un agile pamphlet messo su carta da un autore francese a me prima sconosciuto: si tratta di una breve rassegna quasi didascalica (non un saggio critico, quanto piuttosto un ragionato censimento) che Victor Pichard dedica (l’ho trovata in ebook fra le proposte di Amazon libri) alla Fabbrica del consenso per Decifrare le tecniche di manipolazione di massa delle quali si avvalgono i protagonisti delle moderne società della informazione diffusa e della disinformazione strumentale.

In questa specie di panoramica delle (molte e diffuse!) tecniche della manipolazione di massa, mi ha curiosamente colpito la tecnica del cosiddetto framing, cioè dell’incorniciatura – anche attraverso semplici scelte di vocabolario – di fatti ed intendimenti che, senza che appaiano direttamente affrontati, si vogliano raccomandare o demonizzare, per modo che essi vengano pregiudizialmente desiderati o temuti. Faccio un semplice (fors’anche banale) esempio tratto dal tema che più mi angoscia in questo periodo: la nostra percezione dell’Europa che, come sanno i miei lettori, considero l’unico ed irrinunciabile pilastro della nostra speranza per il presente e per il futuro: se io descrivo, chessò, una proposta di linee d’azione europea formulata da un qualsivoglia politico come una sveglia (o uno schiaffo) all’Europa, sto connotando, appunto, l’Europa come un’istituzione che abbia bisogno di essere svegliata o strapazzata per la sua inerzia. Che poi l’’Europa siamo noi (insieme agli altri paesi con i quali dobbiamo armonizzarci), con le nostre azioni o inazioni, capacità ed incapacità, non interessa a nessuno; e che proprio noi (fra l’altro, orgogliosi violatori di solenni impegni presi in materia di finanza pubblica) non avremmo titolo per svegliare o schiaffeggiare nessuno e men che meno l’Europa presso la quale abbiamo organi di governo e forze parlamentari democraticamente elette, non rileva. L’importante è connotare l’Europa di alterità o addirittura di ostilità, di farla sommariamente percepire come il vero ostacolo alla (notoria!) efficienza della nostra gestione di noi stessi. Se poi, quotidianamente, per titillare un malinteso orgoglio nazionale, parlo dei miei compagni di viaggio nella continua costruzione di un’Europa sempre migliore (chessò, della Francia o della Germania) come di ostili e prepotenti predoni, sto connotando la naturale condivisione di interessi diversi come una ingenua chimera; naturalmente minando alla radice ogni nostra capacità di tessere quei costruttivi compromessi che, soli, costituiscono una comunità; e, di fatto, erodendo quella che, per me, è la nostra irrinunciabile speranza.

Ecco, questa subdola azione di framing è destinata, come ogni messaggio semplificato, a radicarsi facilmente nelle menti più superficiali quali sono quelle di molti cittadini votanti; alla quale si prestano – credo più per pigrizia culturale o per avidità di marketing che per ragionata convinzione – molti media anche molto diffusi e talvolta molto schierati. Non certo, dunque, un attivo complotto, ma uno strumento laterale, volto ad assecondare più che a far ragionare e a comprendere, anche al prezzo di una certa sciatteria lessicale.

Intendiamoci: all’opera contro l’Europa non c’è solo il framing: c’è anche – e soprattutto – l’azione diretta di alcune parti politiche che l’Europa veramente non l’hanno capita ma l’hanno, in cuor loro, sempre avversata (e che mostrano, così, una straordinaria incapacità di tutelare i nostri veri interessi). Il framing semplicemente assicura un sicuro atterraggio di sciagurate intenzioni su un’opinione pubblica già predisposta all’opinione negativa e, per ciò, pronta a supportare anche quelle sciagurate intenzioni al riguardo.

Capirete come, con questo blue mood (e quanto appena detto è solo una delle sue cause), abbia perso la voglia di scrivere, anche a costo di rinunciare ai feed-back ai quali, nel tempo, mi ero abituato per aiutarmi a capire e – se del caso – anche ad accettare ciò che, così come lo vedo, mi pare inaccettabile.

Roma, 24 settembre 2023

 

[P.S. , per sorridere – ma non troppo – sul framing: provate ad immaginare se – per assurdo – il museo del Louvre lasciasse aggiungere sulla cornice (il frame) della Gioconda uno scritto del tipo “per la serie: sorrisi ebeti”. Sono convinto che, fra le file per ammirare l’immortale capolavoro di Leonardo, serpeggerebbero ben presto commenti del tipo: “beh, un po' ebete questo sorriso pare anche a me!”]

 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 31 agosto 2023

Verso l'autunno

La speranza non è ottimismo

(di Felice Celato)

Eccomi qua, di nuovo alla tastiera dopo la lunga pausa agostana. Scorrendo a ritroso i toni delle mie passate righe d’agosto, devo dire che ho fatto bene, quest’ anno, a non dar corso al lancio di esche per le nostre conversazioni asincrone, se non altro per non aggiungere un’altra voce alle Cassandre dell’inquietudine, quest’anno particolarmente tenaci.

L’agosto, di per sé, non giova alla qualità di ciò che si sente dire o che si legge sui giornali (sarà il caldo che affatica le “menti”? qualche prosecco di troppo nelle lunghe serate della tipica mondanità vacanziera? la rilassatezza che travolge rovinosamente ogni ragionamento filato? l’amore per toni di voce che vincano il rumore della risacca?); e, per riflesso, l’agosto non fa bene all’umore di chi ne vorrebbe trarre commento o spunti per guardare avanti, insieme agli amici coi quali vale la pena di confrontarsi. 

Meglio allora non scrivere; e difatti dal 25 luglio non ho “vergato” righe di sconforto, pur nella grande ricchezza degli spunti in tal senso. Le nostre convulsioni confuse e rumorose; le ventate di disprezzo vicendevole che frammentano il volto e la mente della nostra società; le propalazioni di grossolane retoriche a presa rapida; la sorte di questa guerra impantanata e gli scenari geopolitici in movimento; le elezioni europee e le scadenze ineludibili del nostro essere, ad un tempo, cittadini Europei lamentosi e rivendicativi, ma beneficiati, forse più di ogni altro, dell’Europa. Ce n’è quanto basta per essere, tutti, profondamente inquieti. 

Senonché; senonché eccoti un piccolo evento (ancora) misterioso (starei per dire: provvidenziale): un ignoto ma raffinato amico mi fa avere, l’altro ieri, in forma anonima (tramite Amazon), un agile libretto di cento pagine (stampato anche con caratteri “umani”!) di un giovane Domenicano francese (Adrien Candiard, nato nel 1982) intitolato La speranza non è ottimismo – Note di fiducia per cristiani disorientati (Emi editore, 2021).

Diciamo subito che il libro non rivolge la sua attenzione alla speranza come virtù dell’individuo ma alla speranza come… virtù collettiva di una comunità (quella cristiana) che vive con angoscia la presente scristianizzazione del mondo: è vero – qui l’autore fa, fra i tanti altri, un esempio minore, amaro ma a suo modo significativo –  che il cristianesimo è certamente in Europa la sola religione che nell'universo mediatico possa essere presa in giro praticamente senza rischi, e questo perché rimane, nel senso comune, l'espressione maggioritaria: ridicolizzarla è anche un po’ prendere in giro se stessi, non disprezzare gli altri; e i piccoli Voltaire dei nostri giorni, liberati dalla minaccia della Bastiglia, possono tra l'altro concedersi il dolce brivido della trasgressione senza rischi. 

Di fronte a questo sradicamento della presunta promessa (del resto altre volte sconfessata dalla storia) del trionfo del cristianesimo nel mondo, Candiard si rifà al libro di Geremia che vive e racconta il travolgimento del piccolo regno di Giuda (siamo nel sesto secolo a.C.) ad opera di Babilonia (cito ancora: Ma è proprio nei giorni d'angoscia dell'assedio di Gerusalemme che, probabilmente attanagliato dalla fame, certo dell'avvicinarsi della catastrofe, incarcerato da un'aristocrazia che lo giudica pericoloso per il morale della popolazione, e minacciato di morte, Geremia si mette a scrivere cose folli. Lui che era così realista su quel vicolo cieco che era la rivolta, annuncia che Dio ricreerà tutto a partire da niente).

Ma il cristiano deve sapere che, per i destini del mondo, la Chiesa non ha nulla da offrire. In magazzino ha un unico prodotto: la salvezza, la vita eterna. Se lascio intendere che abbiamo altre cose, allora rischio di ingannare chi mi ascolta….( ecco il perché del titolo: la speranza non è ottimismo). Ma quando parlo di salvezza, quando parlo di vita eterna, non parlo della vita dopo la morte. Non solo, in ogni caso. Perché, se è eterna, per l'appunto non si trova nello svolgimento del tempo: essa è fuori del tempo o, più esattamente, è tutto il tempo…. La vita eterna comincia adesso e prosegue eternamente…. E dunque, sperare, per il cristiano (anzi: per la cristianità) è qualcosa di molto concreto: è credere che Dio ci rende capaci di porre degli atti eterni. Che, quando ci amiamo, questo amore non è semplicemente un bel sentimento in un oceano di assurdità votato alla morte, ma una finestra che apriamo sull'eternità. Perché gli atti eterni, gli atti che noi possiamo fare, i cui frutti sono eterni, sono naturalmente gli atti d'amore, i soli che contino. Sono questi che costruiscono già nel nostro mondo l'eternità, il regno di Dio… Sperare non è mentire a sé stessi o nascondere la testa sotto la sabbia. E’ credere che l'amore è più solido di tutto il resto, perché a differenza delle nostre ambizioni, delle nostre ricchezze, dei nostri conflitti, di tutto ciò che troppo spesso ci distrae dall'essenziale, l'amore ha promesse di eternità…Trasformare gli avvenimenti in opportunità di amare vuol dire riprodurre nel quotidiano il miracolo di Cana. Cambiare l'acqua della vita ordinaria in vino di vita eterna.

Conclusione: il così denso libro, di cui, con troppe parole, ho cercato di far intuire almeno il senso, va letto (e magari anche riletto), sia che si sia credenti sia che si voglia solo capire cosa propongono questi superati creduloni. E… il misterioso e colto donatore va rintracciato, almeno per ringraziarlo di avermene fatto destinatario: le indagini sono in corso.

Roma, 31 agosto 2023.

 

 

 

 

 

martedì 25 luglio 2023

Risveglio

….con letture

(di Felice Celato)

La ricorrenza del 25 luglio (per chi non lo ricordasse: il 25 luglio 1943, 80 anni fa, il fascismo, dopo aver distrutto il paese – pardon: la nazione - distrusse, speriamo definitivamente, anche sé stesso) mi ha accompagnato nel risveglio dallo stato catatonico (da Treccani, con sottolineatura mia: quadro psicopatico a base dissociativa, nel quale l'azione si svincola quasi interamente dalle motivazioni razionali e affettive e resta inceppata in contrasti automatici che li irrigidiscono o la rendono saltuaria e stolida) nel quale ….il caldo l’aveva precipitato a partire dall’inizio del mese di luglio.

E allora eccomi qua, dopo un mese di silenzio, almeno a dar conto di qualche lettura di questo periodo, strano ma in fondo – per misteriosi motivi, che non sto qui ad investigare – rigenerante.

Cominciamo con un romanzo, anzi, per dirla alla latina, una satura lanx (piatto misto) di narrazioni molto strutturate. Strutturate, perché Trust, il corposo libro di Hernan Diaz, edito da Feltrinelli (2023) e premio Pulitzer 2023, è in realtà una geniale composizione di narrazioni diverse (tutte molto gradevoli alla lettura ed unitariamente molto interessanti, per la pluralità delle voci che sviluppa). Penso che sia utile – senza nuocere al piacere della lettura – “svelare” in anticipo questa struttura (per renderla meno faticosa); il libro si compone di quattro macro-capitoli: Fortune (il primo di essi) è un romanzo vero e proprio: la vita di un magnate della finanza (USA) e di sua moglie Helen; il secondo, La mia vita, è un abbozzo di un’autobiografia – con molti rinvii a indefiniti completamenti – scritta da chi (Andrew Bevel) crede di riconoscersi nel testo del romanzo, insieme a sua moglie Mildred Bevel (la Helen di Fortune), e intende difendersi (e difendere la memoria della moglie Mildred) dal ritratto indiretto implicito in Fortune. Il terzo, la chiave di tutto il libro, Memorie nel ricordo, è la storia di una giovane scrittrice italiana incaricata da Andrew Bevel di fare ricerche per completare l’abbozzo de La mia vita e per difendere l’immagine della moglie, sempre dal ritratto indiretto che ne fa Fortune. Il quarto macro capitolo, Fondazione, contiene i diari di Mildred riesumati dalla giovane scrittrice italiana.

Complessità strutturali a parte, il libro è veramente gradevole ed interessante (segnalo, in particolare, per il loro significato anche… pedagogico, le pagine dedicate dalla giovane scrittrice italiana alla condizione degli italiani emigrati negli USA nei primi decenni del ‘900). Ne raccomando senz’altro la lettura.

Poi una rilettura, a distanza di anni: di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere (Adelphi, 1989): la leggerezza è fugacitàlibertà priva di significatoun abbozzo senza quadrouno schizzo di nulla. Queste sono le parole che sintetizzano le strane vite dei principali protagonisti di questo romanzone, pensoso e ribelle (al comunismo); le loro vicende lasciano in bocca il sapore di quella insostenibile leggerezza pur in mezzo alle tante (e drammatiche) avventure che vivono, sempre senza autentica comprensione del senso del loro vagare, fino al finale, percorso da un fugace brivido di eternità. 

 Ancora, una scoperta: di Emanuela Fontana, La correttrice (Mondadori, 2023): una fiction storica, basata sulla storia vera del rapporto di collaborazione (per sciacquare i panni in Arno) fra una giovane fiorentina, Emilia Luti, ed Alessandro Manzoni per l’edizione finale de I Promessi Sposi (1842).  Per chi come me, ama molto Manzoni e I Promessi sposi, una piacevole scoperta (Emilia Luti è veramente esistita e ha effettivamente collaborato col Manzoni, nei termini narrati nel libro) che ha fatto dimenticare qualche ridondanza narrativa. 

Infine un saggio veramente interessante: di Sergio Di Filippo, Nudge – una spinta poco gentile? IBL Libri , 2023. Si tratta di una ampia disamina dei pericoli insiti nel c.d. libertarian paternalism, un atteggiamento di finto liberalismo basato sulla assunzione che possa spettare ai pubblici poteri di indirizzare i cittadini alla pratica di questa o di quella (presunta) virtù, non attraverso la coercizione ma attraverso il nudge, la spinta gentile, la persuasione che si insinua nell’ambito delle sfere individuali con la proposizione di presunti modelli virtuosi, dei quali il nudger (una specie di pubblico influencer) si sente detentore; come se chi, col suo voto, porta al potere l’aspirante nudger, gli conferisca una sorta di paternalistica vigilanza su di sé. Il libro è denso di ragionamenti sul tema, partendo da concetti di behavioral economics (economia comportamentale); e non è certo il caso di tentare di aggiungerne altri. Mi permetto solo di allineare ad essi una provocatoria domanda di ordine sociologico: ma voi, vi sentireste tranquilli di affidare ai nostri rappresentanti politici (non importa quali) il compito di vigilare con cura paterna (quand’anche perciò benevola) anche sulle vostre libere e legittime scelte private? Io no.

Roma 25 luglio 2023

 

domenica 25 giugno 2023

Uva e fichi

….richiedono tempo.

(di Felice Celato)

E’ passato più di un mese da quando, per mantenere vive le nostre conversazioni asincrone (sempre senza pretese di verità), ho scritto qui l’ultimo post (del 19 maggio).

In questo insolito periodo di pausa (periodo di temporali, di funerali, di “coccodrilli” più o meno decorosi, di nuovi angoscianti annegamenti, di primi caldi veri, di profezie pettegole e brevi-miranti, di cronache nere diventate invasive, di cronache politiche desolanti, di ribellioni e pentimenti) semplicemente non ho avuto voglia di scrivere; e nessuno ne avrà sentita la nostalgia. 

Io, però, sì, ho avuto nostalgia delle riflessioni davanti alla tastiera; nostalgia che ha finito per prevalere sulla stanchezza (che forse non ha solo ragioni stagionali); ma anche per prevalere sulla sensazione di non riuscire più a padroneggiare il fastidio per questo nostro chiassoso ed indecifrabile presente.

Così, per non commentare i fatti dei tempi, ricorro al Libro che non ha tempo, perché tutto il tempo racchiude; e dal Vangelo (secondo Luca, stavolta) ho tratto il passo che mi ha accompagnato nelle riflessioni di questi giorni: Non c'è… albero buono che faccia frutto guasto, né ancora albero guasto che faccia frutto buono. Infatti ogni albero si conosce dal suo frutto; perché non da spine si raccolgono i fichi, né da rovo si vendemmia uva (Lc 6, 43-44; ma più o meno con le stesse parole anche Mt 7, 18 e 12, 35). 

Ecco: ogni albero si conosce dal suo frutto; ma nel tempo giusto del raccolto. 

Se applicassimo questo concetto alle cronache, probabilmente gran parte di esse perderebbero molte parole (e non sarebbe un male, anche per i nostri noiosi giornali!), nell’attesa della stagione dei raccolti, quando ognuno sarà (forse) in grado di riconoscere l’uva e i fichi. 

Attendendo questa stagione (e, si sa, fichi e uva sono frutti dell’estate matura o addirittura del primo autunno), “godiamoci” le nostre follie sul MES; che però un beneficio (tra i tanti mali che cagionano alla nostra cittadinanza Europea) ce l’hanno: dimostrano per tabulas che non esiste una “volontà dell’Europa” senza la volontà dei Paesi che la compongono; ripetendomi, starei per dire: l’Europa siamo noi… purtroppo.

Vedremo, ma nella stagione dei raccolti, perché ogni albero si conosce dal suo frutto. E il frutto chiede il tempo. E il tempo pesa; per esorcizzarne l’ansiogeno decorso, mi sono rifugiato nella lettura di un saggio di Dario Antiseri su Blaise Pascal (Pascal – Miseria e grandezza dell’uomo, Editore: Mimesis, 2022)  di cui quest’anno ricorre il quattrocentesimo anniversario della nascita: se non ci fosse nessuna oscurità, l'uomo non sentirebbe la propria corruttela; se non ci fosse nessuna luce, non spererebbe nessun rimedio.

Roma 25 giugno 2023

  

venerdì 19 maggio 2023

Identità economica

Ancora un libro

(di Felice Celato)

I lettori di queste colonnine non avranno difficoltà a riconoscere che uno dei temi ricorrenti di esse (anche in tempi non sospettabili di… preoccupazioni politiche) è stato quello della cosiddetta identità italiana (o etnia italica, come forse si sarebbe tentati di dire oggi). E diverse e relativamente numerose sono state, qui, le citazioni di testi che, con diverse ottiche, hanno affrontato questo tema da un punto di vista più generale ed anche concettuale: da Amartya Sen (Identità e violenza), a Francis Fukuyama (Identità), a Ernesto Galli Della Loggia (L’identità italiana), a Giuseppe De Rita (antologicamente in Dappertutto e rasoterra), a Maurizio Bettini (Hai sbagliato foresta – Il furore dell’identità), fino a Massimo Montanari (Il mito delle origini). Proprio per questo mi ha colpito ritrovare, in un testo di tutt’altra materia (di Salvatore Rossi, Breve racconto dell’Italia nel mondo attraverso i fatti dell’economia, Il Mulino, 2023), un concetto che allaccia l’esplorazione ragionata della foresta dei dati (il sostrato tecnico del libro) a quello di identità italiana, intesa – stavolta – come identità economica: l'identità di un popolo è un concetto relativo, sfuggente, multiforme. Tuttavia… buona parte di essa è formata dalle capacità economiche del popolo stesso, da ciò che sa fabbricare (in senso lato, anche servizi intangibili si fabbricano) a beneficio proprio e degli altri popoli a cui vende o dona ciò che sa fare. Certo, contano la lingua, le arti, la scienza, la cultura in generale. Ma è difficile che queste belle doti prosperino, dove albergano rudimentalità e miseria.

In questa prospettiva, Salvatore Rossi, come dicevo prima, disbosca la foresta dei dati, talora difficili da leggere per chi non abbia familiarità col tema, per trarre da essa le notizie che riguardano la nostra identità economica nel mondo.

Che siano prevalenti le cattive notizie è cosa ormai nota anche ai lettori non tecnici dei giornali: le particolarità negative dell’economia italiana nel confronto con altri paesi avanzati sono molte (la speciale difficoltà che l'Italia incontra da anni a far lavorare tutti i suoi cittadini; l’efficienza media della macchina produttiva non alta.. e comunque inferiore a quella di molti altri paesi avanzati; la scarsità relativa del risparmio interno; la fiducia parziale e venata di sospetto dei mercati finanziari nei confronti dello Stato italiano, quando emette titoli del debitola composizione delle nostre esportazioni, sia quelle di servizi sia quelle di merci; il rachitismo del sistema produttivo italiano). Ma non mancano le buone notizie che, nella foresta dei dati, è più difficile leggere ma che, ciononostante, rimangono pur sempre buone notizie, non decisive ma buone notizie: nel tempo l’Italia ha saputo vendere all’estero più di quanto ha comprato (dall’estero) e perciò è diventata (sia pure in misura modesta e declinante nel tempo) creditrice netta verso l’estero, nelle varie forme (titoli, azioni, partecipazioni, crediti commerciali, prestiti e così via); inoltre il valore aggiunto dal lavoro e dall'intelligenza umana alle materie di base e a tutti i componenti comprati dall'estero è molto superiore a quanto sarebbe coerente con la sua popolazione (in altri termini: l’Italia è il 25° paese per popolazione ma raggiunge il 10° posto nella speciale classifica basata su tale valore).

Come si può intuire dal profilo tecnico di queste notizie (specie di quelle buone e meno note) anche l’identità economica del nostro Paese è problematica, non meno di quella presuntamente etnica, frutto di felici ibridazioni della storia del nostro Paese (pare che anche Leonardo avesse una madre circassa, come dicevamo nel post Letture del 25 marzo scorso!). Solo che di queste ibridazioni storiche (dai tempi dell’impero Romano fino a tutt’oggi) non siamo più responsabili, ancorché tuttora ne beneficiamo se in esse riconosciamo il filo conduttore del nostro essere fieri di come siamo; di quelle insufficienze del nostro presente (anche se solo misurate dalla nostra identità economica), invece, siamo contemporanei responsabili.

Insomma: il volumetto di Salvatore Rossi è da leggere per la chiarezza e la vastità dell’argomentare e per l’originalità dell’approccio non meno che per la vena….narrativa dell’autore che conclude il suo lavoro anche con una gradevole favola diacronica.

Roma, 19 maggio 2023  

martedì 9 maggio 2023

Due segnalazioni

Libertà e capitalismo

(di Felice Celato)

Complice una certa spossatezza – se da cambio di stagione o proprio solo da stagione (della vita, intendo) non saprei dire – ho cercato un po' di sollievo da letture che supponevo confortanti. Ed infatti, in buona parte, l’ho trovato, un solitario conforto; perciò ben volentieri mi appresto a segnalarle, soprattutto a coloro che, ratione aetatis ratione temporum et morum, di conforti non ne trovano troppi nei moods del presente.

 

Il primo volumetto è Dante e la libertà, di Luciano Canfora (Solferino editore 2023), una specie di piccola antologia di testi dalla Divina Commedia ove il Sommo Poeta affronta, appunto, più o meno direttamente, il tema della libertà. 

Dico subito che – piuttosto ovviamente – l’antologista non eguaglia l’autore; ma vale la pena di seguirne il ragionamento per cogliere, nella prospettiva dantesca, l’architettura della concezione di Dante, in cui l’amato “strumento politico” dell’Impero (da Cesare a Carlo Magno fino ad Arrigo VII) coesiste con gli empiti di libertà politica di Catone l’Uticense e con l’anelito di libertà della conoscenza di Ulisse, fino alla soglia del libero arbitrio (libero, dritto e sano) alla quale  Virgilio “riconsegna” il Poeta al momento del congedo, alle soglie del Paradiso (XXVII Purgatorio).

Ovviamente pagine indimenticabili (quelle Dantesche), anche se – con molto imbarazzo – ho dovuto constatare che avevo invece dimenticato il bellissimo canto VI del Paradiso

dove l’imperatore Giustiniano tratteggia la storia dell’Impero partendo da Enea fino a Cesare e a Carlo Magno. Ed è stato un piacere riscoprirlo.

 

Veniamo ora al secondo volumetto di queste giornate, sicuramente più agevolmente leggibile e più palpitante di attualità (e quindi necessariamente… meno estraniante del primo ma anche più… stimolante). Si tratta del libro di Alberto Mingardi Capitalismo, edito da Il Mulino, 2023, nella bella collana Parole controtempo: poco più di cento cinquanta leggibilissime pagine, appassionate (che non vuol certo dire non ragionate!) ed appassionanti, di storia dell’idea e del fascino che esercita in coloro (dei quali io faccio parte) che non amano un mondo nel quale qualcun altro, per quanto animato dalle migliori intenzioni, pretenda di scegliere per noi.

Il capitalismo – scrive Mingardi –  forse è proprio questo: non una mano (come vogliono certi immaginifici retori dello stato che guida), ma un “setaccio invisibile” che consente che alcuni progetti sopravvivano e altri no, non in ragione di un'indicazione predeterminata, ma sulla base delle preferenze e del mutevole gradimento dei consumatori.

L’immagine dello “stato che guida” (l’economia, e quindi la crescita e quindi il benessere economico dei cittadini e anche le finanze dello stato) si presta anche ad una altra metafora che Mingardi usa, adombrando certi stilemi con cui la politica guidatrice dell’economia giustifica i suoi propri fallimenti; la riporto integralmente: si pensa di poter “guidare” l'economia come fosse un'automobile, ma si sceglie, per esempio, di non curarsi più di quanto carburante consuma (di quante risorse pubbliche assorbe), di non guardare la spia dell'olio (il sistema dei prezzi), di non cambiare le gomme se sono usurate (niente disciplina di mercato). Basta che l'autista abbia chiara la direzione, non serve altro. Solo che poi ci si ferma lungo la strada. Anche allora, però, l'autista non si chiede se ha finito il carburante, se è il motore ad avere bisogno di un controllo, se le gomme vanno cambiate. Semplicemente ribattezza la piazzola in cui ha dovuto fermarsi col nome del paese dove era diretto.

 

Ai lettori di queste colonnette non sono necessarie altre citazioni per comprendere perché queste svelte pagine di Mingardi (di cui raccomando la lettura) mi sono risultate estremamente gradevoli: alleviano la solitudine di chi si sente superato dai tempi (o almeno dai convincimenti dei più; ecco, forse, perché le considerazioni di Mingardi sono inserite nella collana Parole controtempo).

Roma, 9 maggio 2023 (festa dell’Europa)