mercoledì 29 giugno 2016

Cerchi concentrici


Prove di pensiero largo
(di Felice Celato)
Proviamo a mettere giù un pensiero largo (almeno nelle intenzioni). In questa porzione del mondo di cui siamo parte (diciamo l’Occidente sviluppato, grosso modo Europa + USA), in questo periodo tanto confuso, si agitano tre macro-problemi in qualche modo concentrici (rispetto all’Italia).
Primo problema: la pressione dell’immigrazione è una componente comune (Europa + USA) altamente sentita e in grado, da sola, di attivare vaste ansie politiche, che partono dall’accoglienza e vanno fino all’integrazione delle ingenti masse di profughi in movimento. Le pulsioni cd populiste negli Usa e in Europa ne sono la manifestazione politica evidente, che non può essere ignorata.  L’UNHCR ha calcolato in 65 milioni il numero totale dei profughi, in buona parte accolti (fino a quando?) nei paesi più vicini alle zone di guerra (lato sensu), cioè a Siria, Afghanistan, Somalia, ma anche Sudan, Sud Sudan, Congo Birmania, etc.. L’Italia è diventata un crocevia drammatico dei flussi che attraversano il Mediterraneo ma il problema è più o meno sentito in tutta l’area che stiamo considerando.
Secondo problema: Lo sviluppo economico langue; e questo è un problema soprattutto in Europa (con varie gradazioni e noi, manco a dirlo, agli ultimi posti) e forse meno negli USA, dove lo shock post Lehman Brothers è ormai stato ampiamente assorbito. Per di più siamo, forse, alle soglie di una cosiddetta quarta rivoluzione industriale dalla quale – secondo alcuni – è da attendersi, in pochi anni, una massiccia job disruption, particolarmente concentrata in Italia, per la struttura della sua occupazione. In Italia – come al solito in altre faccende affaccendati – se ne parla poco, ma così è.
Terzo problema: Tutto il mondo è caratterizzato da un ingente debito pubblico, ma l’Italia è gravata dal secondo (dopo la Grecia) al mondo per entità (rispetto al PIL e considerando l’aggregato Europa + Usa di cui stiamo parlando) e, attualmente, il più alto della nostra storia, non ostanti i nostri solenni impegni di riduzione, più volte assunti e quasi sempre disattesi (ogni volta per un motivo che ci è parso buono). Per circa un quarto esso è detenuto da stranieri; inoltre è, pressoché integralmente, denominato in una valuta “condivisa” (l’Euro), cioè sulla quale abbiamo una sovranità assai limitata ma dei cui benefici abbiamo a lungo goduto (non foss’altro per il minor costo del nostro debito). Esso è frutto di un prolungato statalismo, ormai diventato una vera e propria statolatria di gran parte della politica e anche del sentire comune. L’attuale scenario, per certi versi surreale, di tassi negativi in ambiente deflattivo, se anche può aprire la strada a soluzioni straordinarie (non è il caso qui di considerarle), non cambia – per ora – lo stato di fatto.
Bene, anzi male. La concentrazione sull’Italia di questi macro-problemi è, oltre che una delle ragioni del mio pessimismo (che è assolutamente irrilevante), soprattutto alla radice della debolezza del nostro posizionamento (e della percezione che il mondo ha di noi), una debolezza assai più marcata del peso intrinseco della nostra storia e della nostra economia nell’ambito di quelle dei paesi più progrediti. Anche perché è connessa ad una tangibile arretratezza culturale che tende ad emarginarci dalle realtà più dinamiche.
In questo contesto, nel quale i problemi assumono una dimensione sovranazionale in concentrazione nazionale, ascolto con raccapriccio i consueti brandelli di slogan consunti, vittimisti e velleitari allo stesso tempo, di politici stanchi e onfalocentrici, attenti all’acchiappo di consensi a buon mercato menando fendenti retorici al vento (tipo: vogliamo un'Europa dei cittadini e non dei banchieri!); e del tutto dimentichi del ruolo di guida del paese che dovrebbe incombere su ogni rappresentante del popolo. I commenti sulla vicenda Brexit (e su quanto ci aspetta) ne offrono un’antologia quotidiana della quale sarebbe lungo citare gli esempi. 
Ripartiamo dalla politica, dice Capaldo nel piccolo ma grande libretto che ho segnalato qui il 12 maggio scorso (post Letture, Pensieri sull’Italia): abbiamo bisogno di meno superficialità, di meno qualunquismo, e di più capacità di ideare e di costruire. Può darsi, come scrive oggi Gaspard Koenig su Les Echos pensando all’Europa, che il conflitto che ci spacca non sia sociale ma morale e che i mondi che si fronteggiano non siano il popolo e le élites (come in fondo vuole la vulgata populista) ma il mondo di ieri e quello del domani. Bisogna reagire, forse pensando che il domani è il luogo in cui vivranno i nostri figli e i nostri nipoti.
Roma, 29 giugno 2016, festa dei Santi Pietro e Paolo
P.S.: auguri a tutti quelli che portano i nomi di questi due grandi santi; entrambi hanno investito la loro vita sulla promessa del futuro, col coraggio dell’impopolarità.



sabato 25 giugno 2016

Stupi-diario del C.U.R.

Uomini e galline
(di Felice Celato)
Chi fa o ha fatto i mestieri che ho fatto e faccio io, è, senza dubbio, avvezzo ad abusare delle sigle. EBIT, EBITDA, PFN, FCF, NOPLAT, IRS, NPV, CAPEX e cento altri sono gli acronimi che condiscono le conversazioni quotidiane di lavoro, conferendo talora ai discorsi fra colleghi un vago sentore surreale. Anche qui, mi sono divertito, talora, a formarne alcuni (di acronimi). Ricordate il MIFTI  (Minimum  Futile Thinking Index) o il P.U.A. (il Pensiero Unico Aggregato) o, da ultimo, il C.U.R. (Camminatore Urbano Rimuginante)?
Bene, oggi vi propongo l’ultima trovata del C.U.R.
Camminavo, l'altro ieri, nel caldo (che forse giustifica quanto segue); e pensando alla Brexit mi sono interrogato sul peso che il problema dell’immigrazione ha assunto nel mondo e alla difficoltà che gran parte di noi ha a fare i conti con la c.d. Globalizzazione, che molti immaginano una scelta politica piuttosto che un dato di fatto della storia.
E così, sulle orme, guarda caso, dell’inglesissimo Orwell (La fattoria degli animali), mi è venuto in mente questo apologo. Immaginate due pollai divisi da una rete: da una parte duecento galline ben pasciute e dalle piume ben curate, abituate a mangiare senza posa attingendo da mangiatoie sempre piene (diciamo l’Occidente lato sensu). A fianco, un altro pollaio con quattrocento fra galli e galline, magre, spelacchiate e affamate, con le mangiatoie sempre vuote (diciamo il resto del mondo).
Ora immaginate che la rete che separa i due pollai cominci a cedere sotto la pressione delle quattrocento e che, alla fine, un giorno, proprio crolli.
Ripassate dopo qualche giorno e troverete seicento pennuti, tutti insieme e tutti in condizioni medie discrete, forse con qualche problema di rapporti (si sa, le galline sono galline!) ma in fondo non messi male; certo, le duecento già pasciute saranno un pochino più magre e le loro mangiatoie saranno un po’ meno piene; ma in compenso le quattrocento già malridotte si saranno un po’ riprese e molte di loro saranno addirittura diventate più pasciute delle duecento, perché avendo più fame, avranno aggredito le mangiatoie con maggior vigore di chi, a vederle piene, era abituato e perciò mangiava con minore avidità.
Spero che nessuno si offenda, ma io penso che il destino del mondo vada verso una media ponderata (WA, direi in ufficio) delle condizioni di vita, con buona pace, ahiloro!, delle galline pasciute.
A quel punto della ruminazione Orwelliana sono arrivato in ufficio, dove ho trovato un giovane collega alle prese con l’NPV dell’EBITDA atteso, che non giustificava la CAPEX. Era preoccupatissimo.

Roma, 25 giugno 2016

venerdì 24 giugno 2016

The day after

 24 giugno 2016
(di Felice Celato)
Mentre lo scemario mediatico allinea i consueti polifonemi  (la sterlina in caduta libera, panico nelle borse, crollo globale, mercati nervosi, vola lo spread, la speculazione impazza, oro ai massimi, corsa ai beni rifugio, fuga dagli asset a rischio, scenari inquietanti. etc. di banale in banale), mi sono tornati in mente due libri che ho molto amato, entrambi di Joseph Roth: La marcia di Radetzky e La cripta dei cappuccini, due meste elegie sulla storia che passa lasciandoci rimpianti anche teneri: Così era allora! Tutto ciò che cresceva aveva bisogno di tanto tempo per crescere; e tutto ciò che finiva aveva bisogno di lungo tempo per essere dimenticato. Ma tutto ciò che un giorno era esistito aveva lasciato le sue tracce, e in quell’epoca si viveva di ricordi come oggigiorno si vive della capacità di dimenticare alla svelta e senza esitazione.
Per Joseph Roth il tramonto dell’Impero Absburgico era la fine di un mondo di storie (il fratello di mio nonno era quel semplice sottotenente di fanteria che nella battaglia di Solferino salvò la vita all’imperatore Francesco Giuseppe), di sentimenti (mio padre sognava un regno slavo sotto il dominio degli Asburgo. Sognava una monarchia degli austriaci, degli ungheresi e degli slavi), di valori (nel testamento mi aveva nominato erede delle sue idee. Non per nulla mi aveva fatto battezzare col nome di Francesco Ferdinando), di punti di riferimento (vecchio e solitario, lontano e per così dire pietrificato, pure vicino a tutti noi e onnipresente nel grande e variopinto impero, viveva e regnava il vecchio imperatore Francesco Giuseppe ). La caduta dell’Impero e la morte dell’Imperatore lasciarono Joseph Roth sconvolto come il suo personaggio (Dove devo andare, ora, io, un Trotta?...) e qualche anno dopo, prima di morire, in esilio, disperato ed alcolizzato, visti gli esiti di quel tramonto ( Hitler era già diventato cancelliere del Reich), scriveva al suo amico Stefan Zweig: si è riusciti a far governare la barbarie. Non si illuda. L’inferno comanda.
Oggi certamente, molti milioni di morti dopo, nessuno rimpiangerebbe quell’Impero Absburgico che Roth tanto amava; salvo, forse, qualche vecchio Triestino e qualche austriaco, naturalmente. La storia passa e gli uomini se la sentono scorrere come sabbia nelle mani, anche quando, stringendo il pugno, vorrebbero trattenerla.
Così va il mondo. E, presumo, continuerà ad andare.
Roma 24 giugno 2016


PS. Con riferimento al post di ieri: la frittata è grande! Pensate solo al dover precisare, quando si parla di extracomunitari, che non ci si riferisce agli inglesi.

giovedì 23 giugno 2016

Frittate

To Brex or not to Brex
(di Felice Celato)
I Padri Costituenti (lo scrivo con la maiuscola avendo conosciuto i figli e i nipoti) esclusero (ed eravamo nel 1946-48, la rete e le sue lusinghe populiste non esistevano, la società non era così liquida come la si vede oggi) i trattati internazionali dall’ambito referendario. Si ritenne– già allora (art. 75 della Costituzione) – che per la loro natura i trattati internazionali (come le leggi tributarie e di bilancio nonché i provvedimenti di amnistia ed indulto) dovessero essere sottratti alla certa incompetenza ed alla probabile emotività del “popolo sovrano”.
Se la Costituzione Italiana (che non è la più bella del mondo come vuole la stucchevole vulgata anche istituzionale di basso livello ma certamente è uno dei documenti giuridici più saggi e lungimiranti che siano stati prodotti in Italia nell’ultimo secolo), se la Costituzione Italiana, dunque, fosse stata in vigore nel Regno Unito, Cameron non avrebbe potuto – per deteriori interessi politici – regalare al suo popolo l’occasione di azzoppare gravemente l’Europa (cosa che ora lui dichiara dannosa per l’UK, per l’Europa e, forse, per il mondo).
Ma ormai il danno è fatto; qualsiasi sia l’esito del referendum di questa importante settimana (ci sono anche le “seconde” elezioni in Spagna, a rischio di produrre l’esigenza di una terza tornata magari entro l’anno), secondo me, ormai la frittata è fatta; anzi, come giustamente dice Monti su il Sole 24 ore di ieri, le uova sono state rotte già nel febbraio scorso concedendo al Regno Unito una revisione della sua (peraltro già “personalizzata”) adesione all’UE. E come tutti sanno se è facile ricavare da due uova una frittata non altrettanto facile è ricavare due uova da una frittata.
Non voglio dire che siamo alla vigilia di una nuova guerra dei trent’anni (1618-1648); e forse ha ragione Prodi (che di Europa si intende più di me) nel dire – sulla scia del resto di Monet –che l’Europa sa riscuotersi quando arriva sul bordo dell’abisso. Ma indubbiamente siamo ad una svolta – Brexit o non Brexit – degli assetti europei dalla quale io personalmente (noto campione delle aspettative rosee) non mi aspetto nulla di buono, soprattutto per la connaturata contagiosità di ogni frazionismo e, anche, per la contestuale debolezza di una politica “alta” fiaccata dai populismi (di destra, di sinistra e di governo) in molte parti d’Europa.
Vedremo, stanotte quante uova sono state rotte e quanto grande è la frittata.
Roma 23 giugno 2016








lunedì 20 giugno 2016

Roma e Torino

Fenomeni
(di Felice Celato)
Le elezioni amministrative ci consegnano, a Roma e a Torino, risultati da considerare seriamente, pur nella loro diversità (Roma esce da un prolungato scempio amministrativo, Torino credo possa additarsi come uno dei grandi comuni Italiani meglio amministrati). Quello che abbiamo, un po’ tutti, ritenuto un fenomeno politico (il cd populismo) magari destinato a svanire nel tempo, come è avvenuto nel passato per movimenti analoghi, si è invece consolidato e, ci piaccia o no, occorre farci i conti, se vogliamo continuare ad occuparci di ciò che ci gira attorno e, bene o male, lascerà un segno; un segno, forse solo un segno nella storia delle modalità della politica, ma  a questo punto non credo tanto irrilevante, anche perché contemporaneo ad analoghi fenomeni non Italiani.
Cerchiamo di capirci, come in fondo vogliamo fare con queste nostre chiacchiere in libertà, da quando le abbiamo avviate.
Che cosa intendo io per populismo (chiedo scusa della personalizzazione estrema ma la confusione è tanta)? Secondo me [ chi vuole trovare un repertorio ragionato della vasta letteratura internazionale sul tema, certamente non solo Italiano né nuovo nella storia, può leggersi il libro di Franco Crispini Del populismo. Indicazioni di lettura (Reti Ed.)] il cosiddetto populismo nasce con la stessa democrazia, della quale costituisce, in fondo, un’esasperazione evidente. Esso muove, infatti, da una rappresentazione idealizzata del popolo, esaltato come portatore di istanze e valori positivi, in contrasto con i difetti e la corruzione delle élites…. spesso secondo una tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa, previlegiando modalità di tipo plebiscitario e la contrapposizione di nuovi leader carismatici a partiti ed esponenti del ceto politico tradizionale (definizione tratta dalla voce populismo dall’Enciclopedia Treccani). E dunque, da veri democratici, non ci sarebbe da troppo scandalizzarsi di quella che potrebbe apparire, appunto, una mera esasperazione, sia pure demolatrica e moralistica, di principi politici ai quali siamo pur sempre (io con scettica moderazione) affezionati. Se non fosse che, il portato conseguente di ogni propaganda populista (è questo il lato del fenomeno che più mi preoccupa, anzi forse l’unico) è proprio quello di lasciare intendere, per fini di consenso popolare, che esistano soluzioni semplici a problemi complessi. E, come scriveva Machiavelli (citato nel libro sopra menzionato) la natura de’ popoli è varia; ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile [poi]  fermarli in quella persuasione. Invece, l’enorme complessità del mondo contemporaneo, così aperto e interconnesso, così libero nella circolazione di idee, merci, capitali, persone, così reattivo su scala mondiale (pensate, solo per fare due esempi tra i tanti possibili, alle reazioni che suscita, su scala appunto globale, un’oscillazione significativa nel prezzo del greggio o anche l’ipotesi di uscita del Regno Unito dalla compagine europea) rende la governance politica un’arte ormai estremamente complicata, che richiede conoscenze e competenze del tutto esogene rispetto alla percezione delle stesse che può ragionevolmente albergare nella coscienza popolare (da qui la mia estrema diffidenza per ogni manifestazione di democrazia diretta), introducendo tecniche di valutazione e di azione che, spesso, sono perfino difficili da semplificare. Conoscenze e competenze spesso, ahimè, anche sottovalutate dalle sedicenti élites sulle quali si appunta –da questo punto di vista a ragione – l’ostilità dei cosiddetti populisti. [ Faccio anche qui un esempio: abbiamo parlato pochi giorni fa del prezioso lavoro di Cottarelli sul Macigno del debito pubblico (cfr. Letture del 26 maggio 2016); bene: vorrei sapere quanti politici di mestiere conoscono con eguale chiarezza il tema, che pure è il più rilevante per il nostro Paese e del quale parlano tanto spesso con disarmante…ingenuità].
Ora, qui giunti, per voler esser a tutti i costi ottimisti (come non mi viene naturale), i casi sembrano essere due: o la propaganda populista, in realtà, è ben cosciente di queste complessità e semplifica (o banalizza) al solo intento di raccogliere consenso; e allora, sotto questo profilo, non sarebbe differente, se non per efficacia propagandistica, dalle élites politiche cui si contrappone. In questo caso, tuttavia, il fenomeno sarebbe da riguardare anche positivamente, almeno come un mero strumento di rinnovamento della classe politica (che veramente ne ha bisogno!) non diversamente da come ha presentato se stesso il movimento interno al PD e che fa capo all’attuale Primo Ministro, in fondo non meno populista dei populisti quanto a narrativa politica. O, invece, - e questo è l’altro caso - proprio non si rende conto di quanto le cose siano complicate; e allora sarebbe veramente pericolosa, proprio per quello che ben diceva Machiavelli.
Dunque, sotto questo profilo, l’ascesa del Movimento 5 Stelle al governo di realtà complicate come quelle di Roma e, in misura minore, di Torino, fornirà una interessante occasione di giudizio (sia pure maturata sulla pelle dei cittadini).
Roma, 20 giugno 2016