martedì 30 aprile 2013

Segnalazioni


Una lettura impegnativa
(di Felice Celato)
Non è facile, credo, anche per uno sperimento narratore, scrivere una dettagliata biografia nientemeno che di un teologo, scandita com’è, la vita di un teologo, più che da azioni da pensieri, riflessioni, scritti e sermoni. Eppure Eric Metaxas, un colto giornalista americano, autore del libro che segnalo ai lettori tenaci (Bonhoeffer, la vita del teologo che sfidò Hitler, Fazi Editore, 2012), riesce, per quasi settecento pagine molto fitte, ad avvincere il lettore, senza stancarlo mai, grazie – certo – alla sua abilità narrativa ma soprattutto grazie allo straordinario spessore umano del “narrato” e alla ricchezza della sua vicenda terrena che si dipana nel corso della prima metà del secolo scorso, intrecciandosi drammaticamente con la tragica storia dell’Europa, progressivamente sconvolta dalla furia nazista.
Bonhoeffer, nato nel 1906 da una eminente famiglia tedesca e impiccato a Flossenburg nell’aprile del 1945, è, senza dubbio, uno degli spiriti più forti del ‘900, uno dei pochi eroi che hanno riscattato la storia del cristianesimo della Germania, anch’esso precipitato nell’abisso del nazismo: la sua fede, la sua capacità di abbandonarsi a Dio nelle decisioni più difficili e nelle tribolazioni più dure, la sua profonda preparazione teologica (intesa come esplorazione di Dio all’interno della Rivelazione), il suo costante riferimento alle Scritture e la sua mentalità naturalmente ecumenica ne fanno un eroe cristiano di grande rilievo, forse un modello esemplare di virtù sante.
Il libro di Metaxas, denso di lunghe citazioni, ha il pregio di condurre il lettore lungo queste manifestazioni e prove di fede che la sfida mortale al nazismo esalta fino all’epilogo del patibolo, due settimane prima che gli alleati entrassero a Flossenburg e tre settimane prima che Hitler si suicidasse.
Roma, 30 aprile 2013

lunedì 29 aprile 2013

Ecologia della convivenza /5


Heri  dicebamus
(di Felice Celato)
Dopo 6 mesi di inutili retoriche faziose ed inconcludenti, si torna (pare lecito sperare) ad occuparsi delle cose da fare che, nel frattempo, non sono affatto diminuite né diventate di minor urgenza.
Il nuovo governo – che, secondo me, parte col vantaggio di essere una soluzione politica tardiva ma realistica e, grazie ad alcune degnissime concessioni alle mode, anche mediaticamente suggestiva – dovrà pur fare qualcosa. Certamente non lo guideranno le grossolanità sparate, da tutte le parti, in campagna elettorale (buone solo per questa, ormai gli Italiani dovrebbero averlo capito) ma spero che lo guidino le sapienti miscele di competenze ed esperienze politiche che Enrico Letta ha saputo mettere insieme, con abilità notevole.
Altre volte abbiamo detto fra noi le cose che ci sembravano da fare, subito!, sul piano politico (liberalizzazioni spinte, finanziamento privato dei partiti secondo il modello della proposta Capaldo, cessione di beni dello Stato, detassazione delle imprese, abbattimento della pervasività burocratica, riforma della giustizia, etc), tenendo presenti i vincoli di finanza che ci incombono [ a proposito: la stucchevole contrapposizione fra cosiddetti cultori del rigore e cosiddetti cultori dello sviluppo ha troppi profili ridicoli per parlarne a lungo: è del tutto ovvio che spendere fa, all’economia, meglio del non spendere; il problema è avere – o trovare e a prezzi decenti – il danaro da spendere!]. Quindi non ci torniamo sopra, per ora.
Ci preme invece occuparci – ormai brevemente, perché i post, ho imparato, non possono superare la pagina dattiloscritta! – di qualcosa di più profondo e tutto sommato più complicato di quanto non lo sia il concreto fare della politica (in fondo, l’abbiamo già detto, le cose da fare sono chiare, basta solo cominciare a farle!): come ripristinare un accettabile grado di ecologia della convivenza civile, secondo me gravemente compromessa in Italia, come in fondo dimostrano alcune strane cose di questi giorni.
In questa materia, non saprei come somministrare le “cure”, peraltro urgentissime, specie se il malato non è conscio della sua malattia, anzi, magari si sente anche pimpante; credo però di sapere – come del resto lo sanno i lettori di queste note – quali siano le medicine: per l’ecologia della convivenza occorrono: (1) l’igiene del linguaggio; (2) la “sanità” delle sue fonti (la fonte del linguaggio dovrebbe essere nel pensiero! Previo, s’intende!); (3) e la misura nelle dosi di polemica quotidiana.
Il vero problema però, come dicevo, è come somministrare queste medicine: io comincerei dai media; in fondo, nel nostro piccolo, abbiamo l’arma del telecomando per sfuggire ai rumori: i partiti seguiranno, ne sono convinto.
Per affrontare il problema ancora più profondo (quello della cultura e della sapientia cordis, che stanno ancora dietro al linguaggio, al pensiero e allo spirito polemico) credo bisognerà attendere (e forse pregare).
Roma 29 aprile 2013







martedì 23 aprile 2013

Segnalazioni


Una lettura urgente
(di Felice Celato)
Il 16 ottobre 2010, nel quadro delle celebrazioni per il bicentenario della nazione Argentina, il cardinale Jorge Mario Bertoglio ha presentato alla “XIII giornata di pastorale sociale”, organizzata dall’Arcidiocesi di Buenos Aires, un testo molto denso che Jaka Book ha appena pubblicato sotto il titolo “Noi come cittadini noi come popolo”.
La sua straordinaria attualità nel confuso e pericoloso contesto che viviamo, in Italia, in quest’altra parte del mondo, mi suggerisce di raccomandare a tutti la lettura del breve ma – l’ho già detto – denso testo.
Proprio questa densità mi sconsiglia di accennare ad un sintesi del testo. Mi limiterò a due spunti, uno di metodo (i quattro principi fondamentali) e uno di fede (la preghiera per la patria).
I quattro principi fondamentali che il cardinale Bertoglio propone, come chiave per vivere le tre “tensioni bipolari” (tra pienezza e limite, tra idea e realtà, tra globale e locale) che consentono di costruire un progetto di società: (1) il tempo è superiore allo spazio (cioè il processo è superiore all’occupazione degli spazi del potere); (2) l’unità è superiore al conflitto;(3) la realtà è superiore all’idea; (4) il tutto è superiore alla parte.
Leggeteli attentamente e vi troverete una chiave alta per recuperare alla politica la funzione che siamo venuti distruggendo.
La preghiera per la patria, invece, la riporto integralmente: è riferita all’Argentina ma credo che vada più che bene anche per noi:
Gesù Cristo, Signore della storia, abbiamo bisogno di te.
Ci sentiamo feriti e oppressi.
Abbiamo bisogno del tuo conforto e della tua forza.
Vogliamo essere nazione,
una nazione la cui identità
sia la passione per la verità
e l'impegno per il bene comune.
Dacci il coraggio della libertà
dei figli di Dio
per amare tutti senza escludere nessuno,
privilegiando i poveri
e perdonando quelli che ci offendono,
rifiutando l'odio e costruendo la pace.
Concedici la saggezza del dialogo
e la gioia della speranza che non delude.
Tu ci convochi. Siamo qui, Signore,
vicini a Maria, che da Lujàn ci dice:
Argentina! Canta e cammina!
Gesù Cristo, Signore della storia, abbiamo bisogno di te.
Amen.

Roma, 23 aprile 2013



domenica 21 aprile 2013

Fuori campo


Parlando di cose ignote
(di Felice Celato)
Come ci siamo detti qualche volta, non è questo “il luogo” per dibattiti politici così come li intendiamo in questa Italia impazzita: non abbiamo le competenze né la voglia di crearcene in materia di contese partitiche. Se ci siamo qui occupati più di qualche volta di politica, l’abbiamo fatto nella logica dell’ecologia della convivenza civile che in molte occasioni ci è parsa (e tuttora ci pare) in pericolo nel nostro Paese, in larga parte, credo, come conseguenza del micidiale corto circuito che si è venuto determinando, nella scarsa consistenza culturale, fra il linguaggio dei media e la politica intesa come contesa.
E purtuttavia, dopo questi giorni drammatici nei quali ci era anche passata la voglia di scriverci le nostre riflessioni, dovremmo tornare a parlarne, di politica, cercando di capire come quanto è venuto incredibilmente accadendo possa attentare proprio a quella ecologia della convivenza che più assai delle beghe partitiche ci sta a cuore.
Dunque partiamo dallo smottamento che si è prodotto nell’ultimo biennio nella vita di quegli insostituibili strumenti della democrazia che sono i partiti, corpi intermedi essenziali per la composizione e organizzazione degli interessi che si fronteggiano in ogni contesto economico e civile: da almeno due anni (ma la radice del male è più antica) i partiti politici hanno cominciato a scivolare irrefrenabilmente lungo la china dell’irrilevanza fattuale; prima, non riuscendo ad esprimere un governo che fronteggiasse il rischio del collasso finanziario: il Governo Monti è stato il prodotto di questo primo smottamento. Poi, non riuscendo ad esprimere un governo politico all’indomani di sorprendenti elezioni; poi, ancora, non riuscendo ad individuare un nuovo Presidente della Repubblica senza dover ricorrere alla “proroga” nelle sue funzioni di quel vecchio gentiluomo stanco e riluttante che è Giorgio Napolitano, unico baluardo pensante nel furore cieco delle contrapposizioni faziose e irresponsabili.
In questo smottamento travolgente, non ostante il loro comune rotolare nell’irrilevanza, hanno comunque tenuto una loro linea (non esprimo qui valutazioni qualitative, ma solo constatazioni che mi paiono evidenti) il PdL, il Movimento 5 Stelle e il neo-nato ed anomalo Scelta Civica: il primo abbarbicato attorno all’immagine consunta del suo “padrone”; il secondo drogato dall’oratoria torrentizia del suo “guru”; il terzo votato ad un ruolo marginale, civile e responsabile quanto si vuole ma pur sempre marginale. Dove la frana è stata più impressionante e drammatica, è però nel PD la cui classe dirigente ha collezionato una serie impressionante di errori strategici e tattici di dimensione madornale e dalle conseguenze giustamente letali per la stessa classe dirigente: troppe anime confusamente giustapposte, troppe comprensioni insufficienti, troppo disprezzo reciproco, troppa ideologia latente ma pervicace, troppo poca selezione dei quadri politici, troppi sguardi allo specchietto retrovisore.
Nelle prossime settimane capiremo quanto sopravvivrà di questo partito sconfitto e depresso e come si distribuiranno le sue contraddizioni nel quadro delle emergenze future: l’Italia ha probabilmente ancora bisogno di una forza che sappia esprimere (civilmente, pragmaticamente e senza rancori)  una linea alternativa sia al PdL – che aggrega la rilevante avversità degli Italiani alla storia e alla cultura della sinistra – sia al Movimento 5 Stelle che, piaccia o non piaccia, comunque coagula –  sia pure confusamente e spesso in forme di inaccettabile pressappochismo – un forte disagio civile che scorre potente nelle vene dell’Italia. Se, come credo, il Movimento di Grillo finirà per ereditare, in forme nuove, pulsioni e radicamenti tipicamente appartenuti alle sensibilità che una volta si definivano di sinistra, il PD (o quello che di esso resterà) dovrà cercare un suo spazio al centro degli schieramenti politici, accettando con realismo “il sacrificio” del suo storico posizionamento.
Al Tempo, poi, occorre lasciare la tornitura dei ruoli e la dispersione degli scarti. Sempreché il Futuro lasci spazio al Tempo per fare il suo mestiere. Vedremo presto che aria tira.
Roma, 21 aprile 2013, giorno dopo la rielezione del Presidente Napolitano

domenica 14 aprile 2013

Il passaggio della primavera


Brutta settimana
(di Felice Celato)
Il passaggio della primavera, come ogni anno, mi deprime, per almeno una settimana: l’età, credo, qui non conti; questo mi è sempre accaduto, anche quando ero più giovane e, magari, avevo meno ragioni di contorno per sentirmi depresso.
Ma quest’anno, le convulsioni del nostro ambiente nazionale, più che deprimermi mi abbattono: non basta la situazione politica, ormai bloccata sulla stupida ripetizione di slogan consunti e orientata sempre più verso una insopportabile frivolezza; non basta la sempre più radicata convinzione che ormai si siano prodotte nel nostro Paese pressoché tutte le trasformazioni che rendono il nostro problema non più politico, e nemmeno più culturale e sociologico (di cui vado parlando da tempo), ma addirittura antropologico, come, sempre da tempo, ho preso a sospettare.
Ora mi è sopraggiunta anche una disarmante evidenza, che è stata messa in chiaro, in questi giorni, da un corposo studio del Centro Studi della Confindustria segnalato ieri su Il Sole 24 ore (sto cercando di procurarmi lo studio nella versione integrale…per farmi del male, direi): non sono sufficientemente abile per riportare qui un grafico che, in qualche modo, fotografa la storia recente e le sue proiezioni sul futuro. Proverò allora a raccontarvi questo grafico, come si può con le parole; dunque, immaginate, messe sugli assi cartesiani, in verticale le percentuali di differenza del nostro PIL pro-capite (un indice economico di benessere individuale) e quello dell’Europa e di quello con gli USA (cioè, in sostanza, quanta ricchezza produce ogni anno ciascun cittadino italiano e di questi aggregati); e, in orizzontale, gli anni dal 1950 ad oggi e, più oltre, fino al 2050-2060. Ebbene: vedrete che nel 1950 il nostro PIL pro-capite era pari all’80% di quello Europeo e al 35% di quello Americano. Eravamo, nel 1950, un Paese povero (in relazione ai contesti considerati nel grafico): la guerra ci aveva distrutto  (aveva distrutto mezza Europa, per la verità) e i nostri padri si arrabattavano per ricostruire il Paese, alcuni di essi emigrando per mantenere le famiglie, altri, i più, per fortuna, dandosi da fare in mezzo alle macerie del nostro dopo-guerra. Negli anni 70-90 la trionfale rincorsa incominciata in quegli anni era finita e, ormai, eravamo fra i più ricchi dell’Europa (ben più ricchi della media) e vicini al 70% del PIL pro-capite Americano.
Alla fine di questi anni in corso (mi fermo al quasi oggi, per non guardare al peggiore domani delle proiezioni!) saremo più o meno dove eravamo nel 1950 rispetto all’Europa e poco sopra dove eravamo, sempre nel 1950, rispetto agli USA! Bruciati i frutti del “miracolo economico”, titola il grafico Il Sole 24 ore (con qualche forzatura, per la verità, perché i dati sono relativi agli altri Europei e agli USA, e non assoluti). Se non siamo di nuovo un Paese povero, siamo comunque un Paese che non solo ha perso lo slancio ma sta, anzi, precipitando velocemente all’indietro, e per di più senza più gli stamina che fluivano nel sangue dei nostri padri!
Mentre guardavo questo grafico, seduto su un divano, sullo schermo televisivo comparivano i volti ormai diventati maschere dei nostri politici vecchi e nuovi e, in sottofondo, correvano le loro parole vuote di significato, dense di formule retoriche faziose ed irresponsabili, le loro parole sulle parole degli altri, in un vano “parlare del parlare” lontano da ogni responsabile senso dell’urgenza vera, nuovi schieramenti elettorali per elezioni che nessuno veramente dice di volere ma per le quali ci si prepara con pulsione meccanica, come in un’eterna rincorsa per una supremazia ormai inutile: il nuovo governo, questo è il senso delle preoccupazioni dei nostri politici, vecchi e nuovi, sarà un inciucio o una larga intesa? Un governicchio o un governissimo o, con chiaro approccio programmatico, un governo di cambiamento? Come lo vogliamo chiamare? Un’idea! Facciamo un sondaggio per trovargli un nome, prima ancora che (forse) nasca!
Mah! Per fortuna che il Vangelo di oggi ci ricorda le reti gettate di nuovo, sulla Sua parola, a destra della barca.
Roma, 14 aprile 2013