mercoledì 29 agosto 2012

Dibattiti


Leggi “biologiche”
(di Felice Celato)

Ha ripreso vigore (complice una sentenza della Corte Europea) l’eterno tormentone delle leggi ad argomento biologico (fecondazione assistita, testamento biologico, etc), con il solito seguito di fidelismi e laicismi (bene, tanto non abbiamo nient’altro di cui occuparci!)
Non ho competenze di sorta per formulare giudizi al riguardo; solo mi permetto di suggerire due cose:
Ai “laici”: quando dite che la Chiesa (il Vaticano, la CEI, i cattolici, i democristiani, etc; di solito fate una gran confusione nei termini) non deve “imporre le sue opinioni (talora dite: ideologie) a chi non le condivide”, dite, secondo me, una cosa giusta (in principio) ma non pertinente: nessuno (Chiesa, Vaticano, CEI, etc) pensa di voler rendere santo (o semplicemente virtuoso) alcuno per legge. Semplicemente, invece, la Chiesa (Vaticano, CEI, etc) quando difende con forza (talora esagerata, secondo me, vedi oltre) un principio (apparentemente) etico, lo fa – in campo politico –  perché ritiene che sia un male per la società e per l’uomo non conformarsi a quel principio ed assume (fondatamente) che sia suo diritto (e dovere) il farlo. Così come fa (a pieno diritto) qualsiasi altra persona o entità o fazione quando esprime una sua idea del futuro e del bene della società e dell’uomo (cioè, come dicono quelli che usano un linguaggio "di sinistra", quando “si batte per qualcosa”).
A noi cattolici: facciamo assai bene a dire (e testimoniare) con chiarezza e fermezza quel che pensiamo sia bene per l’uomo e per la società; facciamo male (secondo me) quando trasformiamo queste sacrosante enunciazioni in manifesto politico (o, peggio ancora, in principio di esclusione politica). E ciò per due motivi: (1) se il beneficio per l’uomo e per la società non è valutato tale dalla maggioranza degli altri, non serve a nulla tentare di imporlo; (2) nessuno fa (saggiamente) battaglie per le quali ragionevolmente stima in anticipo la sconfitta (Lc., 14, 31-32: Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima ad esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano gli manda un’ambasceria per la pace.)

Roma, 30 agosto 2012

domenica 26 agosto 2012

Parole-guida


Tre parole desuete
(di Felice Celato)
Il distacco che il riposo porta naturalmente con sé, l’impegno di qualche lettura “tosta” sul piano intellettuale e la lontananza dalle beghe quotidiane del nostro paese e dalle ansie che esse creano a chi cerca di immaginare il futuro dei nostri figli, mi rendono, alla ripresa delle attività, forse un po’ troppo “filosofo”.
Ma, provando a rimettere ordine fra le tante cose che mi pare ci servano, a questa svolta del nostro presente che ci immette verso un impegnativo futuro, ho tentato di individuare, dal mio punto di vista, le “matrici” culturali e spirituali che possono schiuderci una fondata speranza nel futuro, dopo tanti mesi  di affanni quasi disperati. E mi pare di averle trovate in tre parole-guida, forse un po’ desuete, che, insieme, racchiudono, ad un tempo, il senso di ciò che ci è mancato per tanti anni ed un progetto di “rigenerazione” culturale che, da sola, ove veramente si determinasse, darebbe la chiave per definire tutte le tante cose che dobbiamo fare per “arrestare il declino” e “ritrovare la strada che abbiamo smarrito”.
Le tre parole-guida sono: verità, perdono e fatica. Provo a declinarle meglio, per non guadagnarmi – lasciatemelo dire: immeritatamente – l’accusa di scarsa concretezza.
La verità (qui, ovviamente, con la lettera minuscola): l’ho scritto tante volte su questo blog e su altri appunti che ci siamo scambiati, gli italiani hanno bisogno di una dura operazione di verità (che ancora non c’è stata) sulle condizioni del Paese, sulle ragioni del suo innegabile declino, sulle origini del suo indebitamento e della sua incongrua, apparente agiatezza (dove c’è ancora), sulle conseguenze di ogni ulteriore ritardo nel porre mano a ciò che serve, sulla intensità e durata dello sforzo che è necessario. Edulcorare le analisi, indorare le pillole, negare l’evidenza, imbastire vuote retoriche, raccontare ciarlatanerie, non solo non serve, ma sarebbe esiziale per l'Italia (quand’anche regalasse una tragica vittoria elettorale).
Ma questa operazione di autocoscienza non sarebbe fortunata se non si congiungesse ad un radicale, reciproco perdono (politico): basta scorrere con senso della realtà gli ultimi 30 anni di storia politica italiana per rendersi conto dell’alternata vicenda delle responsabilità e dell’intrecciata trama delle corresponsabilità nella gestione del Paese, nella coltivazione e diffusione di un’autorappresentazione ingannatrice, nell’alimentazione di una sub-cultura mediatizzata fatta di false immagini di noi stessi e dei nostri problemi, nella dissennata fornitura di vuote retoriche. Se non poniamo una pietra sopra sul cumulo dei reciproci errori, non credo che ne usciremo sani; come i capponi di Renzo di manzoniana memoria ci affanneremmo a beccarci reciprocamente mentre già bolle la pentola per il brodo, sia esso destinato al ristoro dei creditori o al breve banchetto di qualche arrabbiato populista.
Infine, la fatica, antica compagna del nostro “scheletro contadino” di cui parla De Rita: solo sottomettendoci a fatica e sudore possiamo aspirare ad un non lontano ristoro. Che poi la fatica debba essere proporzionata alle forze (in tutti i sensi!) è fin troppo ovvio: nessuno deve morire tirando il carro per gli altri, nessuno deve essere esentato dal suo turno di giogo, magari più lungo per chi ha più riserve di energia da consumare. Questa della fatica è la cosa più difficile da richiedere, soprattutto a chi si sente già stanco; essa, però, insieme al perdono, è la chiave che distingue ogni autentica proposta politica dal clamore dei populismi, che, di solito, si alimentano di confuse verità ma, soprattutto, di rancori e di promesse di facili soluzioni (che non esistono, nella situazione data).
Alla vigilia del ritorno in campo della politica, tanto sospirato (da tutti i politici) e (a ragione) temuto da molti, non so proprio chi potrebbe farsi carico di un “programma” (qualsiasi cosa questo voglia dire, oggi) ispirato alle tre desuete parole su cui abbiamo ragionato. Ma, delle volte (Gen. 18, 20-32), bastano pochi “giusti” per salvare una città (e non ha nessuna importanza la loro età).
Roma, 26 agosto 2012

venerdì 24 agosto 2012

Ecologia della convivenza /3


Ri-letture
(di Felice Celato)
Questa nota sarebbe troppo lunga per il "linguaggio" dei post. Così ho deciso di dividerla in due parti: la prima (in blu) è una segnalazione di lettura, come spesso ne faccio; la seconda (in rosso) è nient'altro che il seguito di discussioni fra amici sul tema sollevato dal post del 5 aprile 2012 Ecologia della convivenza/2, su questo blog.

Alla luce di una lettura recente che per me è stata molto importante (L’arazzo rovesciato, di G. Cucci e A.Monda) ho riletto con grande interesse il libro di Hannah Arendt,  La banalità del male (in edizione Feltrinelli, pessima per dimensione e qualità dei caratteri), una lunga e dettagliata relazione-riflessione che la filosofa ebrea tedesca scrisse nel 1963-64, dopo aver assistito, per conto della rivista americana  The New Yorker, al processo ad Adolf Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel 1961, dopo il rapimento e la cattura del criminale nazista, pensati, disposti ed attuati da Ben Gurion.
Il libro affronta criticamente le molte questioni giuridiche (natura del processo, normativa di riferimento, legittimazione dei giudici, qualità e mezzi della difesa, etc.) che ben si potevano porre, come anche si posero per il processo di Norimberga; ma, confesso, che questo tipo di argomenti non ha attratto più di tanto la mia attenzione, forse a causa di una pre-esistente convinzione circa la “ineludibilità” storica del processo dei vincitori contro i vinti (soprattutto quando gli eventi siano stati della natura e della dimensione di quelli della seconda guerra mondiale) anche a rischio di gravi forzature giuridiche, forse inevitabili quando ci si spinge a giuridicizzare la storia (se avesse vinto il cosiddetto asse Roma-Berlino-Tokio, che cosa si sarebbe detto di Hiroshima e Nagasaki?).
Ben più centrale ed interessante  per me (nel contesto delle riflessioni che ho avviato da qualche tempo) è invece l’analisi storica e psicologica che la  Arendt  svolge, con dovizia di notazioni, sulla figura e le azioni di Eichmann, traendone il ritratto umano che il titolo del libro ben lascia intendere: di fronte all’enormità del male compiuto (e, in parte, riconosciuto) la scialba figura, la semplice e anche fragile psicologia, la relativa amoralità e l’elementare cultura dell’uomo Eichmann, macinate nella morsa della ubriacante potenza del condizionamento ideologico, ci restituiscono l’impressione sconvolgente della banalità del male, cioè non solo della sua intrinseca alterità rispetto ad ogni concetto  di umana grandezza (anche nella perversità), ma anche di futilità, di avvilente piattezza del suoi meccanismi funzionali e dei suoi fondamenti psicologici. Una banalità, appunto, che, nel caso specifico, può talora creare l’impressione di una enorme sproporzione fra il male commesso (o, meglio, consentito, appoggiato) e la materialità delle azioni poste concretamente in essere, nel contesto dato.
Che il concetto di banalità possa associarsi, come voleva uno degli amici che hanno con me discusso del tema, al concetto di umana mediocrità del protagonista del male, non mi scandalizza affatto, anzi, direi che in fondo mi trova d’accordo (e l’ Eichmann della Arendt ce lo conferma).
Ma il tema si fa scivoloso  quando, sempre sul piano etico, si riflette più a fondo sull’intrinseco valore comparativo ovvero dispregiativo del concetto di mediocrità: senza tema di apparire cinico (quale sicuramente non mi sento), direi che l’esperienza del mondo mi ha portato a ritenere fondato un aforisma che ho spesso in mente (mi pare fosse di Bonhoeffer): basta essere un uomo per essere un pover’uomo. Mi è capitato troppo spesso di imbattermi in azioni “mediocri” di uomini ritenuti “grandi” e in azioni ”grandi” di uomini ritenuti “mediocri” per non avere presente che la “povertà”  dell’uomo è connaturata al suo essere fatto di un impasto di fango, talora (fortunatamente, potrebbe dire un laico) rischiarata da una coscienza critica viva e vigilante, ovvero (provvidenzialmente, direbbe un credente) dal soffio dello Spirito.
Se ne potrebbero trovare molti di esempi (storici e letterari, da san Pietro all’Innominato di manzoniana memoria) in cui il confine fra il male e il bene (o, inversamente, fra il bene e il male) viene varcato dalla stessa persona (“grande” o “mediocre” che sia stata) per effetto di un sussulto improvviso (o, al contrario, di un temporaneo obnubilamento) della vigilanza critica (la desta consapevolezza, l’autentico, faticoso “strumento” del discernimento, soprattutto in ambienti fortemente ideologizzati o anche solo sottoposti a forti pressioni ambientali o mediatiche), ovvero per effetto di circostanze o di sopravvenienze, siano queste di natura casuale o “provvidenziale”, come potrei dire da credente, o come fu, appunto nella vicenda dell’Innominato, la famosa frase di Lucia “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”, che risuonò a lungo nella notte dell’Innominato.
Due considerazioni ancora, tratte dal senso delle discussioni in materia:
La prima: è del tutto chiaro che le considerazioni che precedono non hanno nulla a che fare col profilo giuridico degli atti dell’uomo, muovendosi, esse, sul piano meramente etico; sicchè non ha nessun senso eccepire che la loro evangelica e logica conseguenza (“Non giudicare”) sarebbe, per così dire, eversiva, quasi negazionista delle esigenze di giustizia legale. Ed infatti, personalmente, come accaduto a moltissimi del resto, non mi sorprende affatto (e men che meno mi scandalizza) che Eichmann sia stato condannato dal Tribunale di Gerusalemme, qualsiasi possano essere state le pecche della procedura giuridica adottata.
La seconda: l’apparente “riduzionismo etico” del ragionamento implicato dalle considerazioni svolte è un vero non-senso: ciò che è evidentemente “riduzionista” e arbitrariamente semplificatorio è proprio il ritenere che esistano, in natura, uomini (sempre) buoni e uomini (sempre) cattivi (ovvero sempre “grandi” e sempre “mediocri”), per modo che non avrebbe senso investigare nelle profondità dell’animo umano intenzioni, coscienze, fraintendimenti, riserve mentali, condizionamenti ambientali o ideologici, debolezze intellettuali, etc., prima di trarre (se proprio ci pare di non poterne fare a meno, come invece sarebbe saggio) giudizi morali.
In conclusione (torno a citare L’arazzo rovesciato) non è ovviamente in questione (sempre sul piano etico) la differenza fra bene e male ma la presunta dicotomia fra l’uomo peccatore e l’uomo (che si crede) giusto.

Orbetello, 20 agosto 2012




Ferragosto 2012

Divagazioni d’estate 
(di Felice Celato)

Le Olimpiadi sono terminate. Il bellissimo spettacolo di tante eccellenze fisiche e psico-fisiche ci ha (fortunatamente) distratto per una lunga quindicina di giorni dagli affanni e dalle beghe tristi del nostro Paese, offrendoci il senso consolante di una ricca umanità fatta, sì, di eccezionali prestazioni fisiche, ma anche di sentimenti forti e dolci: penso all’”anziano” velocista dominicano che, al termine di una vittoriosa galoppata, ha estratto da sotto la  canottiera la foto della sua famiglia sulla quale ha pianto commosso, di un pianto irrefrenabile che è durato per tutta la premiazione; penso al giovane ingegnere tiratore scelto di carabina che commenta la sua medaglia d’oro dicendo che più che il metallo ha apprezzato l’occasione e la fortuna di vivere una grande emozione collettiva; penso al super-uomo giamaicano della velocità podistica che, conscio di aver fissato i (per ora) insuperabili limiti umani, guarda intensamente al cielo prima di scattare, segnandosi, con lo sguardo rivolto verso Chi non ha limiti; penso all’entusiasmo delle fiorettiste marchigiane, alle medaglie del Kazakistan, al pianto dirotto di chi ha perso, magari per un soffio, alle tante storie umane di chi, nato in Paesi meno fortunati del nostro, come il maratoneta ugandese, ha lavorato a testa bassa nella lunga preparazione, in condizioni ambientali difficilissime. E penso anche al pianto del marciatore “dopato”, oppresso dal peso del ruolo di protagonista a tutti i costi.
Quando saranno definitivamente finite anche negli echi delle vacanze, le Olimpiadi ci restituiranno ai problemi ed alle mene nostrane, alle promesse pre-elettorali di nuove promesse elettorali, alle retoriche vuote di chi  vuole al centro della sua politica il problema dello sviluppo o di chi invece ci vuole il lavoro, per illuderci ancora che il declino può essere arrestato dai sogni e dalle chiacchiere.

Scarso di letture appassionanti (quest’anno la scelta delle letture d’estate non è stata, finora,   particolarmente felice, se si eccettuano un libro di Krugman sulla crisi economica – bello ma non nuovo per chi segue il dibattito economico e il pensiero del premio Nobel per l’economia – e un complesso romanzo di E.E. Schmitt, La donna allo specchio, del quale ho apprezzato la tecnica narrative ma non l’argomento), mi sono trovato a riflettere su una citazione sul problema del peccato del filosofo Tullio Gregory (“laico” come dice il giornalista che riporta l’etichetta, come dicesse italiano, o marchigiano o chissà quale altro certificato di origine controllata)  citazione  che riporto a memoria e, quindi, forse solo sommariamente: “ se c’è provvidenza non c’è libertà e quindi non c’è peccato; se non c’è provvidenza, e quindi non c’è Dio, allora ci sono libertà e peccato.

Essendo scarso anche di argomentari filosofici e del tutto privo, senza vergogna, di un certificato d’origine così nobile, ho frugato nella memoria, forse un po’ stantia (un vero filosofo ne riderebbe, tanto più se “laico”), di chi ha cercato (e ancora cerca) di capire a fondo il messaggio cristiano, alla ricerca di un qualcosa che valga a dissipare la stringente e lapidaria logica della citazione.

E mi è venuta in mente “solo” una parabola evangelica, molto bella, anzi, secondo me, fra le più belle, anche se spesso “sconciata” da predicatori banali: la parabola cosiddetta “del figliol prodigo” (Lc., 15, 11-32), che io chiamerei meglio “la parabola del padre buono”: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre…….” (inutile citarla per intero, utilissimo rileggerla spesso). Mi pare che lì ci siano provvidenza e libertà e peccato, senza esclusioni reciproche, anzi, fra loro legate in un mirabile chiasmo logico: provvidenza, libertà, peccato, provvidenza.

Tanti anni fa, un prete che non ho dimenticato ci parlò della solitudine del Padre  (e del padre) di fronte alla libertà dei figli. A distanza di anni e di esperienze ho realizzato che la solitudine del padre non esclude la libertà del figlio né il peccato né l’amore. Ma non sono un filosofo….

Orbetello, 14 agosto 2012