lunedì 30 dicembre 2019

AUGURI PER IL NUOVO DECENNIO

I muggenti anni ‘20
(di Felice Celato)
T'amo, o pio bove; e mite un sentimento
Di vigore e di pace al cor m'infondi,
O che solenne come un monumento
Tu guardi i campi liberi e fecondi,
0 che al giogo inchinandoti contento
L'agil opra de l'uom grave secondi:
Ei t'esorta e ti punge, e tu co 'l lento
Giro de' pazienti occhi rispondi.
Da la larga narice umida e nera
Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto
Il mugghio nel sereno aer si perde;
E del grave occhio glauco entro l'austera
Dolcezza si rispecchia ampio e quieto
Il divino del pian silenzio verde
.


Molti si chiederanno perché, per formulare a tutti noi il mio migliore augurio per l’anno e per il decennio che arriva, abbia scelto questa vecchia poesia di Giosuè Carducci dedicata al bue (cioè al “pio bove”).
La ragione è semplice (e, del resto, è anche implicita in quanto dicevamo qualche giorno fa): mi auguro che finalmente ci spettino – per i troppi anni di accidia – un anno ed un decennio del bove, un decennio di anni da consegnare agli storici del futuro come i muggenti anni ’20!
Le virtù del bove (mitezza, forza, laboriosità instancabile, pazienza, tenacia, austera dolcezza, gravitas) ci mancano da troppo tempo; per troppi anni il divino del pian silenzio verde è stato riempito di ragli scomposti e di oziosi belati; per troppi anni l’aratro che rende fruttuoso il nostro scheletro contadino (Censis,2011) è rimasto inoperoso per mancanza di forza motrice; per troppo tempo il vomere si è coperto di ruggine. E, dunque, come un inno lieto, il muggito di milioni di bovi nel sereno aer si perda perché di vigore e di pace abbiamo un estremo bisogno! E anche, abbiamo bisogno, di uomini silenziosi che sappiano guidare l’aratro pei campi liberi e fecondi, di intelligenti promotori di pace, di vigore e di mitezza.
Ah! E, soprattutto, tutti ed io per primo, abbiamo bisogno, come sempre, che Dio ci aiuti! Perché senza di Lui non possiamo fare nulla (Gv, 15,5).

Roma, 30 dicembre 2019

venerdì 27 dicembre 2019

Ultima segnalazione dell'anno

Demopatia
(di Felice Celato)
Sono contento di aver dato la precedenza, fra i vari saggi in pipeline sul mio tavolo, alla lettura di un libro (di Luigi Di Gregorio, Demopatia, Rubbettino, 2019) che sarebbe risultato… poco adatto a cominciare l’anno ed il decennio; e di lasciare in eredità a quest’anno bellissimo (così almeno ci era stato promesso) anche la piccola fatica che ho fatto a leggerlo, o, meglio, a finire di leggerlo; non certo per l’oscurità del linguaggio (anzi il testo è molto chiaro ed anche ben scritto) o per l’uggiosità della trattazione (anzi, il libro si legge bene – non ostante qualche argomento riproposto più volte – ed è anche lucido, interessante, vivace e “lessicalmente” suggestivo). In verità la ragione della fatica (e della sazietà che in qualche pagina sopraggiunge) è legata al… deprimente sostrato della trattazione. La tesi di fondo del libro (riassunta dallo stesso autore nell’Introduzione) è – infatti –  che la democrazia è malata perché è malato il dèmos. Il dèmos si è ammalato “inevitabilmente” (una sorta di malattia autoimmune e degenerativa) perché la sua patologia è il derivato della lunga transizione alla post-modernità.
Lo svolgimento della trattazione segue uno schema “clinico” (sintomi, eziologia, diagnosi e terapia); ma di sicuro – lo stesso autore ne è cosciente – la parte “terapeutica” (poco più di una ventina di pagine delle complessive 300) non riesce a convincere quanto quella (veramente deprimente) della analisi dei sintomi e della formulazione della diagnosi. La malattia del dèmos è grave e diffusa; e giustifica una prognosi riservata, come forse ogni patologia autoimmune e degenerativa. Per carità, le molte pagine riservate alla descrizione dei sintomi ed alla loro eziologia non sorprendono nei loro singoli enunciati (quand'anche talora, forse, da meglio definire); anche solo le nostre piccole segnalazioni (dai Rapporti del Censis, ai testi di De Rita, di Bauman, di Valerii, di Mounck, di Brenner, di Levitsky e Ziblat, di Orsina, etc.) e qualche altra diretta riflessione che abbiamo fatto su questo blog, non giustificherebbero nessuna sorpresa sullo stato della nostra società e della  democrazia liberale (beninteso: non solo in Italia ma almeno in tutto il mondo occidentale!). Ciò che angustia è il dovere riconoscere la pesantezza del quadro che, tutti assieme, quei sintomi delineano, anche nella loro organicità, così come Di Gregorio la legge con chiarezza e con ricchezza di riferimenti: ci ritroviamo in democrazie dominate dall’emozione pubblica, dall'analfabetismo funzionale e di ritorno, da mass-media sensazionalistici, disinformati e talvolta manipolatori, dalla mediocrazia come selezione a rovescio della classe dirigente, dalla followship al posto della leadership. Ci siamo arrivati evolutivamente - o involutivamente - per la naturale reazione ad una serie di trasformazioni sociali ed innovazioni tecnologiche. Cercate e fortemente desiderate.
Di fronte a questo quadro “clinico”, immaginare – come fa l’autore – che la “cura” possa essere quella di contro-narrare i fondamenti della democrazia liberale, non più con gli argomenti logici che l'hanno vista nascere e crescere nell'era tipografica ma con “le storie che incantano” che contraddistinguono l'era elettronica e ancor più la sotto-fase digitale, può sembrare almeno illusorio. E, come dicevo all’inizio, Di Gregorio non manca di cogliere il limite di questa prospettiva, citando Carlo Galli (Il disagio della democrazia, Einaudi, 2011): se è vero “che il trono della democrazia è oggi vuoto – non vi siede né il popolo né lo Stato, né il soggetto, né i partiti – è vero anche che quel trono c'è ancora. Nel bene e nel male. Si tratta di capire se quel trono è solo un simulacro, e se siamo in realtà davanti alla crisi finale della democrazia moderna, cioè della politica moderna” oppure se siamo in grado di ricostruire un senso, facendo i conti con la storia e con i mutamenti antropologici.
Da questi pochi cenni, credo si possa capire perché, come dicevo all’inizio, ho fatto un po' di fatica a leggere serenamente (come il periodo natalizio richiederebbe) il libro di Di Gregorio; che tuttavia mi sento di raccomandare (specie agli ottimisti senza scrupoli, direbbe Scruton) per l’organicità della trattazione, soprattutto – lo ripeto – nella spietata ed ampia TAC psico-culturale delle società in cui viviamo.
Roma 27 dicembre 2019







lunedì 23 dicembre 2019

AUGURI DI NATALE


L'eterno oggi di Dio è disceso nell'oggi effimero del mondo e
                    trascina il nostro oggi passeggero nell'oggi perenne di Dio

(Benedetto XVI, Omelia del Natale 2005)

Cari amici e lettori,
eccoci qua a farci, per la nona volta su questo blog, gli auguri di Natale. Sono andato a rileggermeli, quegli auguri; e, certamente, il loro tono testimonia quanto andavamo dicendo qualche giorno fa sul tempo greve che abbiamo vissuto nel decennio che finisce; perché il Natale, per sua natura, è la festa del tempoinduce naturalmente a pensare al tempo in cui siamo immersi: il tempo della storia, “spaccato” dall’Evento (prima e dopo la notte di Betlemme); ma anche il tempo che viviamo, perché, per sempre, col Natale, l'eterno oggi di Dio è disceso nell'oggi effimero del mondo e trascina il nostro oggi passeggero nell'oggi perenne di Dio.
Eppure, ciò non ostante, non ostante che il nostro oggi passeggero sia stato “trascinato” per sempre nell'oggi perenne di Dio, ci troviamo a constatare che, come sempre e forse più che mai nella nostra breve esistenza, qui e ora, abbiamo bisogno di un Dio vicino, che riscalda il nostro cuore e risponde alle nostre attese più profonde (B.XVI, Natale 2007); perché forse, quest’anno, ci sentiamo più stanchi ed oppressi che mai; o forse perché, già nell’oggi perenne di Dio, non ancora siamo capaci di viverne appieno la luce.
Ma il già del Dio bambino di Betlemme, nel suo luminoso significato per la nostra umanità, dovrebbe esserci sovrabbondante per essere ogni giorno più ricchi di verità e di reciproca carità. 
Questo è il senso della notizia che il Natale rinnova ogni anno e che chiede solo di essere riconosciuta. 
Auguri  a tutti di riconoscere la verità in mezzo alla confusione dei giorni.
Roma 23 dicembre 2019






giovedì 19 dicembre 2019

Ri-leggendo

Dopo una notte irritata
(di Felice Celato)
Le deludenti scelte effettuate di recente in libreria, mi hanno spinto in questi giorni a praticare più intensamente qualcosa che, del resto, da sempre amo fare: rileggere libri, appunto, già letti; ovviamente romanzi ed autori che valga la pena rileggere, chessò, nel mio modesto orizzonte letterario, i Roth (Joseph, naturalmente), i Singer (entrambi, Isaac e Israel), i Camus, gli Schmitt, i Pomilio, i Buzzati, qualche Tabucchi, etc. (senza menzionare i sommi Dante e Manzoni, che in fondo ruminiamo in continuazione; per brani, ovviamente).
[N.B. Il rileggere non è solo un piccolo esercizio di archeologia del godimento letterario; è anche una interessante scoperta delle proprie evoluzioni: rileggere e poi ripensare al primo giudizio dato sul libro al tempo della prima lettura, mi dà la misura di come sono cambiato, nei miei gusti e nelle mie reazioni difronte  a quell’esercizio di esplorazione dell’esistenza che è costituito dai romanzi ben narrati; e dunque, nel bene o nel male,…. di come sto invecchiando o magari di come sto diventando più saggio!]
Qualche notte fa, disgustato – e innervosito… molto innervosito – dalla scrittura di un contemporaneo Premio Nobel (presto abbandonata senza rimpianti), ho attinto alla vasta (…ed economica) riserva del già letto, guidato dalle recenti, nuove e felici esperienze dell’autore (amato e qui tante volte segnalato); e ho ri-letto un libro straordinariamente bello: di Eric Emmanuel Schmitt, La notte di fuoco (e/o ed., 2016), che consiglio a tutti, laici, scettici, agnostici e credenti. Il libro infatti è il racconto autobiografico di come, durante un viaggio nel deserto del Sahara, a metà fra il turistico ed il professionale (l’autore, allora, esordiva nel mondo delle sceneggiature), il giovane Schmitt – allora ventottenne, filosofo di professione, esplicitamente ateo – abbia fatto l’esperienza di Dio; che lo ha reso – in qualche modo – credente: quella notte di fuoco continua a modellarmi il corpo, l’anima e la vita, come un alchimista sovrano che non abbandonerà la sua opera.
Al di là della vicenda narrata con grande arte, colpisce l’efficacia e l’essenzialità degli argomenti di un reiterato dialogo “pre-religioso” fra viaggiatori (in particolare fra l’autore ed una compagna di viaggio, una dentista parigina decisamente credente), prima e dopo la folgorante esperienza. Come pure colpisce l’epilogo, una specie di post-fazione scritta 25 anni dopo i fatti, dove, in fondo, si ritrova la chiave di lettura di tutte le opere di Schmitt, percorse da un senso del divino anche quando… proprio il divino sembra più lontano: vivo e scrivo a partire da un luogo, la mia anima, che ha visto la luce e la vede ancora, anche attraverso le tenebre più oscure…senza sentirmi un profeta e tantomeno un ispirato. Del resto, dice ancora di sé E.E. Schmitt, se mi chiedono “Dio esiste?” io rispondo “Non lo so” perché filosoficamente rimango agnostico…. però aggiungo “Credo di sì”.
Roma  19 dicembre 2019




martedì 17 dicembre 2019

Piccolo P.S.


Da maniaco delle rilevazioni quantitative, mi sia consentita una parentesi a mo' di post scriptum, attivata dalla magia dei numeri: con questo, saranno 777 i post pubblicati in questi 3168 giorni ( 8,7 anni) da quando (nel lontano 16 aprile del 2011) abbiamo aperto questa finestra per conversazioni asincrone con gli amici. E, guarda caso, gli “accessi” alle nostre pagine hanno appena superato i 77.700. Troppo facile calcolare, anche per chi non ha come me la mania di fare conteggi, che ogni post ha ricevuto poco più di 100 “visite”. Come credo di aver già detto, ho ragione di credere che molti accessi siano casuali e generati, forse, dalla “felicità” mediatica di qualche titolo (è il caso, per esempio, del post Confini/Frontiere del 19 aprile 2011 che ha registrato quasi 1.200 visite o di quello Divagazioni sulla speranza del 21 settembre 2011, che ne ha registrate oltre 300); e che altri accessi siano invece il frutto di automatiche “spazzolature” di rete effettuate per default da chi rileva – appunto automaticamente –  parole o altri indizi  indicativi dell’ambiente da cui perviene il post, per farne il target di qualche promozione, più o meno sgradita. Ma, al netto di tutto ciò, ho ragione di presumere (e non per fare il verso al Manzoni!) che gli amici frequentatori abituali di queste “pagine” siano per l’appunto quella venticinquina con cui proprio mi va di restare in contatto intellettuale; non foss’altro per contenderci la caduca convinzione di aver intuito qualcosa di vero in mezzo a tanta confusione; e il piacere di averne messo a parte chi, invece, l’ha intuito in qualcos’altro tutt’affatto diverso; e così passare qualche ora altrimenti magari angosciosa.
Bene. Grazie a quell’eroica (presunta) venticinquina, lo zoccolo duro che per ben 777 volte si è volontariamente sorbito le mie divagazioni ogni 4,08 giorni!
Felice Celato
Roma 17  dicembre 2019

Letture....d'altri tempi

Mutatis mutandis
(di Felice Celato)
Per una curiosa coincidenza, mi sono capitati in mano, in questi giorni, due piccoli libri non recenti e molto diversi fra loro (per l’epoca in cui sono stati scritti, per ambienti in cui sono nati, per radicale differenza fra i due autori), eppure entrambi centrati su un tema che – credo – gioverebbe assai avere presente come utile canone interpretativo di molte cose del nostro mondo.
Li descrivo brevemente. Il primo è un breve saggio di Arthur Miller (I presidenti americani e l’arte di recitare, Paravia Bruno Mondadori Editore, 2004, una settantina di pagine) riesumato da un amico molto colto e dotato anche di un pungente spirito critico. In esso, il grande drammaturgo americano, scomparso nel 2005, delinea, con grande acume ed ironia, un parallelismo avvincente fra l’arte del recitare – che, come drammaturgo, Arthur Miller conosceva assai bene – e quella del politico, e soprattutto quella dei politici americani che hanno fatto buon uso di quell'arte per la costruzione delle loro carriere. Il libro è pieno di piacevoli riferimenti sia al mondo del teatro e del cinema sia a quello della politica; perciò va letto. Ma mi preme qui citarne qualche passo per far capire il senso del saggio: È vero che viviamo nell'epoca dell'intrattenimento, ma è poi buona cosa che la nostra vita politica, per esempio, sia così profondamente governata da meccanismi dello spettacolo, dalla tragedia al vaudeville alla farsa? Mi ritrovo a chiedermi se questa dieta ininterrotta di emozioni costruite, recitate, e di idee precotte non costringa in maniera sottile il nostro cervello non solo a confondere la fantasia con il reale, ma anche ad assimilare questo processo nei nostri personali meccanismi sensoriali….. In una democrazia, dato il bisogno di compromessi in ogni  direzione, la distanza più breve possibile tra due punti è spesso una linea curva, e così è tristemente inevitabile che mantenere la leadership richieda gli artifici dell'illusione teatrale.… Così sembra non esserci via d'uscita rispetto alla necessità tragica della dissimulazione. Tranne, certo, dire alla gente la verità, cosa che non richiede capacità recitative, ma che potrebbe danneggiare il proprio partito e addirittura, in certe circostanze, l'umanità. 
Certo, conclude Miller pensando ai suoi Presidenti, possiamo goderci la politica come fuga dalla realtà proprio come facciamo a teatro, ma prima o poi dobbiamo di nuovo uscire in strada, avere a che fare con la realtà e con le morti non necessarie causate dalle nostre illusioni, con il danno subito dal nostro buon nome, con l'avallo fornito a quanti sostengono che l'America si è macchiata di colpe e nient'altro.
Il secondo è un libro, (Mussolini grande attore, Edizioni Spartaco, 2007, anch’esso di non molte pagine) scritto, settant’anni prima di quello di Miller, da Camillo Berneri, un filosofo anarchico italiano, fiero avversario del fascismo, ucciso dai comunisti catalani nel 1937 durante la Guerra Civile Spagnola. Anche Berneri coglie la convergenza quasi necessaria fra l’arte della recitazione e l’ascesa al (o l’esercizio del) potere e, naturalmente (siamo nel 1934…anno XII della cosiddetta Era Fascista), lo fa concentrandosi sulla detestata figura del Duce: Mussolini è un grande uomo politico perché è un grande attore. Si può essere un uomo politico senza essere attore? Penso di no. La politica non è un'attività pienamente compresa e descritta nella cinica definizione di Talleyrand (“un certo modo di agitare il popolo prima dell'uso”). La base della fortuna dell'uomo politico che arriva al potere, nel quadro di un partito o di un regime, fu, è e sarà sempre quella del tribuno, del giornalista, del tattico [NdR: l’accostamento fra tribuno e giornalista mi pare proprio gustoso e....nostrano!]. Ma lo fa, da filosofo, allargando lo sguardo sulla storia con giustificata amarezza: come i vermi che formicolano su un cadavere consentono di stabilirne il grado di decomposizione, così la specie di avventurieri che riescono ad imporsi in un dato momento storico illuminano lo stadio di decadimento di una nazione. E così, Mussolini non è stato e non è che un attore della tragedia italiana. Grande attore bisogna riconoscerlo. Ma un paese non è un teatro, e il marasma economico, le carceri piene di innocenti, le isole del confino, il tribunale speciale, l'inquisizione poliziesca, la milizia, l'esilio: tutto ciò dimostra che arrivare al potere e più facile che essere un uomo di Stato e che non si possono risolvere con la forza bruta i problemi vitali di una nazione.
Da questi punti vista tanto distanti e pure tanto concettualmente convergenti, abbiamo qualcosa da sovrapporre ai nostri tempi nel nostro paese?
Forse; mutatis mutandis, ovviamente; fatte le debite proporzioni e, s’intende, si parva licet componere magnis.
Roma 17 dicembre 2019

venerdì 13 dicembre 2019

Verso la fine del decennio

Voglia di vigorosi muggiti
(di Felice Celato)
Saranno gli storici di professione, fra qualche anno, a fare un bilancio serio di questo secondo decennio del XXI secolo, che finisce fra pochi giorni. 
Io, che (come tutti i miei lettori di età superiore ai 10 anni) ci ho vissuto dentro, posso solo tentare un dilettantesco pre-consuntivo (in fondo ci sono ancora tre settimane dalle quali… è lecito aspettarsi grandi e positive novità). 
Il mondo nei suoi grandi numeri (fonte ourworldindata.org) ha seguitato a crescere: eravamo poco meno di 7 miliardi e ora siamo circa il 10% in più; non ostante ciò, la povertà (qui i dati viaggiano con un po' di ritardo ma le tendenze sono chiarissime) è diminuita in tutti i suoi segmenti (cioè da quello sotto 1,9$ al giorno fino a quello sotto i 10$  al giorno di reddito); e tuttavia rimane altissimo il tasso di errata percezione della dimensione del triste problema, dappertutto e specie in Italia. La mortalità infantile e l’analfabetismo sono anch’essi diminuiti costantemente, mentre è costantemente aumentata l’aspettativa di vita.
Ma sono anche aumentate quelle che a me appaiono le follie del mondo, che genericamente ascrivo all’ahimè vasto complesso delle seduttive narrazioni sempliciste (e talora rodomontesche), basate (in democrazia) sull’assunzione ipostatica di un consenso popolare per sua natura saggio e illuminato. Inutile dilungarsi qui ulteriormente su un tema di cui ci siamo più volte occupati; basterà fare qualche nome di questo ventennio per capirci: da Trump a Bo-Jo, fino ai (più piccoli) casi nostri, è tutto un susseguirsi di rifiuti della complessità, all’insegna delle soluzioni semplici (e vigorose, naturalmente).
In questo quadro non certo rassicurante, eccoci al nostro povero paese, ancora miracolosamente appeso ad un’Europa affannata, preoccupata e indubbiamente indebolita (almeno nel breve) dalla questione Brexit (che ha, forse, trovato in questi giorni la sua sciagurata soluzione): in 10 anni 7 governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conti-uno e Conti- due), ognuno carico di molte promesse (escluso quello di Monti, che prometteva solo di tirarci fuori dai guai e ci è riuscito), talora anche dense di carezzevoli blandizie (il 2019 ci era addirittura promesso come un “bellissimo” anno di Nuovo Umanesimo); e più o meno tutti “rassegnati a non decidere”: non per aver scelto, ma per non averlo fatto, la politica ha fallito e ha smarrito sé stessa… In un gioco di rimandi allo specchio di sé stessa, ha trasformato il dibattito politico in una rappresentazione in cui vale tutto e il suo contrario: l'equilibrio di bilancio come dettato costituzionale, salvo poi reclamare il diritto ad accrescere il debito; la dignità come valore fondante il lavoro, trasformata rapidamente in minuto sussidio al reddito; la semplificazione degli apparati burocratici come premessa ineludibile, salvo poi distogliere lo sguardo dal collasso dell'azione amministrativa; la democrazia diretta affermata come sostituto di ogni processo di mediazione e di composizione di interessi, fermandosi poi alla mera affermazione della legittimità nell'uso spregiudicato delle tecnologie dell' informazione. E taccia chi non ha i voti a giustificare la parola (Censis, Considerazioni generali, Rapporto 2019).
Risultati: un Paese e una società deboli e orientati verso un lento esaurimento delle qualità strutturali del suo modello di sviluppo (sempre Censis, ibidem), il debito pubblico (il macigno, per dirla con Carlo Cottarelli), che al 31 12 2009 era pari al 112,5% del PIL, è aumentato nel decennio di oltre il 20% raggiungendo ormai il 135% del PIL previsto per fine anno; la disoccupazione che era del 7,7% nel 2009, è ora vicina al 10%, ma con retribuzioni interne per unità di lavoro in calo (fonte Censis, 2019); casi industriali in conclamata paralisi decisionale sul lato pubblico; investimenti in lieve ripresa ma tuttora lontani (di un paio di punti percentuali del PIL) dai livelli del 2009-10 e, di circa tre punti percentuali (sempre del PIL relativo), da quelli dell’Unione Europea (fonte: programmazioneeconomica.gov); l'Italia in coda in tutte le principali "classifiche" fra i paesi Europei.
Conclusione: è altamente improbabile che di questo decennio sentiremo in futuro nostalgia; anche se – insegnava un mio grande capo toscano – il peggio unn’è mai morto.  
Gli anni ‘20 del secolo scorso furono definiti ruggenti; e ci portarono il jazz, il surrealismo, alcuni grandi scrittori, la diffusione dell’automobile e della radio, la grande espansione dell’industria; ma anche il fascismo e la Grande Depressione. E dunque i prossimi anni ’20 del XXI secolo proprio ruggenti non me li auguro né me li attendo, quand’anche – come dice Rifkin (Un green new deal globale Mondadori, 2019) – la III rivoluzione industriale sia alle porte con tutto il suo carico di rischi ed opportunità, come è sempre stato di ogni interruzione di continuità. E dunque, se non ruggiti, mi basterebbe qualche vigoroso muggito di buoi che si mettono all’aratro, tanto vigoroso da soverchiare il raglio dei somari e il belato delle pecore.
Roma  13 dicembre 2019, Santa Lucia.

lunedì 9 dicembre 2019

Il primo venerdì di dicembre

Check-up
(di Felice Celato)
Come ogni anno, il primo venerdì di dicembre è dedicato al Censis ed al suo annuale check-up sullo stato di salute della nostra società, giunto ormai alla sua 53° edizione.
E come ogni anno, il corposo volume del Rapporto merita una lettura lenta e per capitoli, che non può essere fatta se non con molto tempo a diposizione e capacità di lettura meditata dell’enorme congerie di dati messi a disposizione di chi abbia voglia di capire in dettaglio. Come ogni anno, le relazioni che accompagnano la presentazione del Rapporto ne tracciano una sintesi di grande impatto e ricca di spunti (e di rimandi) della quale, forse, si può capire il senso anche restando, come farò nelle prossime righe, sull’impressione generale che ho ricavato ascoltandole, senza avventurarmi nella solita ricerca delle parole-chiave con le quali come sempre il Censis caratterizza ogni periodo in esame. Del resto domani i giornali saranno pieni di stralci (auspicabilmente non distorsivi e, forse, significativi) e di citazioni dei numeri (speriamo non sbagliate) sia del Rapporto che delle sua Considerazioni generali, sicché ognuno potrà farsene un’idea (speriamo ben fondata), magari nell’attesa di leggerlo nei dettagli. 
Dico subito che, stavolta, il Rapporto del Censis mi è parso particolarmente scorato (come forse lo siamo in molti), ancorché – come ogni anno da qualche tempo – si sforzi di annaffiare e concimare i deboli segni di una resilienza sociale che mostra tutta la sua ripiegata debolezza. E certamente non a caso, il Censis li chiama – questi deboli segni di resilienza – le piastre di sostegno (cui ancorare non una nuova fase di crescita, ma almeno un cambio di rotta rispetto alla direzione attuale, senza grandi intenzioni di una risalita decisa verso l’alto) e i muretti in pietra a secco (una multiforme messa in opera di strutture e infrastrutture di contenimento dei fenomeni erosivi generate dalla difesa solitaria di singoli, grazie a processi temporanei tempestivi di appoggio); ma non nega che arrivare ad immaginare che nella reazione alla regressione la dimensione strutturale – le piastre – o quella di provvisorio sostegno – i muretti – possano diventare le basi di un ritorno ad una dimensione sociale e collettiva è un errore di prospettiva.
L’Italia che esce fuori dal Rapporto, è senza dubbio un paese gravemente ammalato; e di questo, per la verità, ne eravamo tutti coscienti, anche senza dover ripercorrere col pensiero i tristi viali della sua decozione politica che è parte della malattia (e sulla quale, peraltro, le Considerazioni generali del Censis si soffermano brevemente ma con parole nette); forse per rendersene conto basta solo applicare, all’individuale esperienza del nostro contesto sociologico, un tradizionale insegnamento interpretativo del Censis (la società la capisci da quello che spera, individualmente e collettivamente) per misurare il grado di stanchezza regressiva della nostra società.
Ma, nonostante tutto ciò – è in fondo questo il messaggio di quest’anno del Censis – l’appiattimento e la cattiveria sociale, le diseguaglianze affrontate senza investimenti e senza progetti di crescita, la lotta anti-sistema come base di responsabilità politico-istituzionale non sono, né possono essere, direzioni di marcia di medio-lungo periodo… La consape­volezza che la sfiducia sembra prevalere sulla speranza, che lo spirito di adattamento inerziale non basta più, che il processo di sviluppo sociale si è interrotto, che la politica ha fallito, non è abbastanza per offuscare lo sguardo e il bisogno di reagire e guardare avanti che la società esprime. I segnali di contrapposizione a un gioco e a un rac­conto al ribasso sono ancora deboli. E non vale alcuna promessa per il domani, se non che nella reazione al vortice della crisi e nell’avvio di nuovi e diversi processi di consolidamento dello sviluppo il nostro popolo si sta aprendo alla speranza e, se così sarà, la storia gli lascerà strada.
Roma, 6 dicembre 2019

NB Per ragioni tecniche questo post del 6 12 è stato cancellato e reinserito in data 9 12









martedì 3 dicembre 2019

Defendit numerus / 28

Il Prosperity index
(di Felice Celato)

Our mission at the Legatum Institute is to create the pathways from poverty to prosperity, by focusing on understanding how prosperity is created and perpetuated. Prosperity entails much more than wealth: it reaches beyond the financial into the political, the judicial, and the wellbeing and character of a nation — it is about creating an environment where a person is able to reach their full potential. A nation is prosperous when it has effective institutions, an open economy, and empowered people who are healthy, educated, and safe.
Così scrive Philppa Stroud (il CEO del Legatum Institute, il think-tank basato a Londra che, dal 2007, svolge annualmente una vasta ricerca sul complessivo benessere dei popoli) nell’introdurre il 13° rapporto dell’Istituto, facilmente (e gratuitamente) scaricabile in rete.

I parametri attraverso i quali viene compilata la graduatoria (l’indagine copre 167 paesi del mondo, costitutivi del 99,4% della popolazione del globo) sono 12, sostanzialmente intesi come segue:
A.Sicurezza: esposizione a conflitti, terrorismo e crimine
B.Libertà personali: diritti, libertà e tolleranza sociale
C.Governance pubblica: controlli e limiti del potere, efficacia delle azioni di governo e diffusione di comportamenti corruttivi
D.Capitale sociale: affidabilità delle relazioni sociali, fiducia pubblica, normativa sociale e partecipazione civica
E.Investimenti: protezione degli investimenti ed accessibilità agli investimenti
F.Condizioni d’impresa: ambiente aperto alla creazione, alla crescita e alla competizione fra imprese
G.Infrastrutture: qualità delle infrastrutture e distorsione dei mercati di beni e servizi
H.Qualità dell’economia: attitudine a generare ricchezza sostenibile ed occupazione
I. Condizioni di vita: ragionevoli qualità della vita, dei servizi di base e delle risorse; connettività
J.Salute: stato medio della salute dei cittadini, sistemi sanitari, tassi di mortalità, fattori di rischio
K.Educazione: preparazione scolastica ai vari livelli ed abilità della popolazione adulta
L.Ambiente: ambiente fisico e suoi effetti diretti sulla qualità della vita e sulla prosperità delle generazioni future

In questo contesto, genericamente e complessivamente indicato come grado di prosperità dei singoli stati, l’Italia risulta al 30° posto nel mondo (più o meno fin dalle prime rilevazioni in discorso) considerando l’aggregazione degli indici (ponderati paritariamente; l’edizione elettronica del documento consente anche di “giocare” cambiando i criteri di ponderazione); certamente, credo, ben al di sotto il grado di nostra auto-stima (per intenderci: dopo Danimarca, Norvegia, Svizzera, Svezia, Olanda, Germania, UK, Irlanda, Austria, Canada, USA, Giappone, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Slovenia,  Repubblica Ceca, ed altri 11)  
Ma, se si scende ad un minimo di dettaglio, si notano cose interessanti: siamo ben sotto il nostro indice aggregato (30° dei 167 paesi) per Capitale sociale (punto D, dove siamo al 56° posto), per Qualità dell’economia (punto H, dove siamo al 52° posto) e per Ambiente (punto L, dove siamo al 48° posto). Invece siamo assai meglio messi negli indici relativi a Salute (punto J, dove siamo nientemeno che al 17° posto), Condizioni d’impresa (punto F, dove siamo al 25° posto), Condizioni di vita e Sicurezza (punti I e A, dove siamo, in entrambi i casi, al 24° posto, sempre su 167 paesi).Sugli altri 5 indici, infine, siamo di poco sotto il nostro indice aggregato (cioè sotto al 30° posto, con una punta del 40° posto per il punto E, Investimenti).
Un commento… anti-percettivo: leggendo delle sensibilità degli Italiani avevo capito che il problema n. 1 in Italia sia la sicurezza, dove, per la verità siamo assai meglio combinati che in altri campi; la stessa impressione l’ho maturata da tempo “sfogliando” (per la verità con un po' di disgusto) gli indici dei telegiornali (e i titoli dei giornali) nonché le narrazioni politiche prevalenti. 
Nessuno – mi pare – si preoccupa, invece, di come siamo messi come Capitale sociale e per Qualità dell’economia, parametri entrambi decisivi per il nostro futuro.
Ah! beh, il futuro può attendere, adesso dobbiamo pensare alle elezioni in Emilia e Romagna: come si schiereranno gli elettori del Movimento 5 stelle? That is the question!, diceva Amleto:Whether ’tis nobler in the mind to suffer, etc. etc. etc.
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 Roma 3 dicembre 2019





sabato 30 novembre 2019

Una favola per adulti

Il figlio di Noè
(di Felice Celato)
Che stiamo vivendo tempi cupi, almeno a me, non pare dubbio: scemenze e fandonie si contendono l’ampio spazio vuoto nei nostri cervelli, la nostra civitas, ripiegata su sé stessa, come la giovane schizofrenica dell’ultimo post, si costringe a vivere quella falsa verità che, forse, è l’espressione dei suoi desideri, incontrollati e confusi ma rancorosi e pugnaci, nel coro assente della sua ex classe dirigente.
Bene; si fa per dire, naturalmente.
In questi tempi cupi, dicevo, anche gli adulti possono aver bisogno, per rifiatare, di favole nuove od antiche (quelle che circolano sono stupide e spesso noiose!); se non proprio quelle con fate, maghi e mele stregate, almeno – questo sì! – quelle che raccontano di vite buone che attraversano il tempo, anche nelle sue fasi più buie, seminando, come il Pollicino di Perrault, briciole di umanità, per ritrovare la strada di una terrena speranza che sopravviva fra le macerie di quanto gli uomini credono di “costruire” quando – in mille modi – depongono la ragione e si abbandonano al dramma del suo sonno.   
Questo, credo, è lo spirito giusto per leggere l’ultimo romanzo di Eric Emmanuel Schmitt, il grande autore e drammaturgo francese (da me molto amato e qui tante volte citato e segnalato ai lettori in cerca di buone letture, come Il Vangelo secondo Pilato, La vendetta del perdono, Il Visitatore, La giostra del piacere, La parte dell’altro, La notte di fuoco, etc). 
Il figlio di Noè (editore e/o, 2018) è il suo ultimo piccolo romanzo (appena 150 pagine), ambientato durante l’occupazione nazista del Belgio, e (credo liberamente) ispirato alla storia di padre Joseph André di Namur (alla sua memoria è infatti dedicato), proclamato Giusto fra le Nazioni per aver salvato, a rischio della propria vita, molti bambini ebrei durante, appunto, quel tragico periodo. 
L’avventurosa storia del piccolo Joseph Bernstein e del suo straordinario salvatore e maestro di vita (padre Pons, nella narrazione) non la accenno nemmeno per grandi linee, per non sciupare il piacere della lettura a coloro che vorranno leggere il romanzo; per aiutare ad arrivare alla fine, dirò solo che è molto commovente e – per certi versi – sa di favola per adulti, col suo regolare happy end ma anche col suo carico di temi che travalicano la storia stessa e restano nella memoria. Del resto, la narrazione di Schmitt è – come sempre – limpida e tesa (come quella di ogni vero narratore) ma animata – come sempre – da una passione per i grandi temi della nostra umanità (e della religione, in particolare), che attraversano la nostra vita rendendoci degni di essa e della nostra intelligenza.
Come si sarà capito, raccomando vivamente la lettura di questo piccolo libro, lettura che io ho fatto, con grande soddisfazione, nell’ultimo giorno di pioggia di questo piovoso novembre; oggi, infatti, c’è il sole.
Roma 30 novembre 2019.

Errata corrige: Il figlio di Noè non è, come sopra ho scritto, "l'ultimo romanzo" di E.E.S.; infatti - come ho scoperto oggi - nel 2019 l'autore ha scritto Felix e la fonte dell'invisibile (che ho appena comprato). Anche questo, come quello, fa parte del "Ciclo dell'invisibile", una serie di racconti.... che affrontano la ricerca del significato ultimo delle cose. Ogni volta il protagonista deve confrontarsi con i momenti cruciali dell'esistenza - lutto, abbandono, malattia, guerra - e trova la forza di andare avanti nell'incontro con una persona che è anche un incontro con una spiritualità (così,  per restare ai due romanzi in discorso, l'animismo in Felix e la fonte dell'invisibile e l'ebraismo in Il figlio di Noè)
Roma, 1° dicembre 2019

giovedì 21 novembre 2019

Stupi-diario socio-psichiatrico / 2

Quos Deus perdere vult...
( di Felice Celato)
Questa cupa sentenza di epoca moderna, tanto poco fondata teologicamente (Dio toglie prima il senno a chi Egli vuol mandare in rovina), mi veniva in mente sfogliando con disgusto i giornali di oggi: come non bastassero le vicende ILVA ed Alitalia (nelle quali si riassume tutta la devastante incapacità di governo del nostro pencolante paese), si è aggiunta la recentissima crisi psicodinamica innescata dalla questione della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), con la conseguente pletora di dichiarazioni più o meno avventate, quanto peraltro formalmente “autorevoli” e pericolose.
Del resto, diceva l’Amleto di Shakespeare, a voler definire la pazzia, che cos’è  se non l’essere né più né meno che pazzi? E così mi sono avventurato (complice la pioggia) in una ricerca, fra le principali sindromi psichiatriche, di quella che più mi pare si attagli ad una lettura del presente, applicando in chiave socio-politica le descrizioni cliniche di patologie, in origine, naturalmente individuali.
Ancora una volta, mi è stato di guida il piccolo manuale di Psichiatria e Psicopatologia del professor Gaspare Vella che già avevo usato, più di quattro anni fa (cfr. Stupi-diario socio-psichiatrico, un post del 20 marzo 2015), per esplorare quelli che - allora - mi parevano sintomi psichiatrici perfettamente “adattabili” ai percorsi “mentali” della nostra società (l’ecolalia, la fatuità, la palilalia, la verbigerazione, etc.).
Oggi invece sono andato a rileggermi il racconto (citato dal prof. Vella) dell’esperienza autistica di una giovane schizofrenica: “A volte il mio pensiero vaga qua e là senza soffermarsi su un argomento preciso e costante. Pur avvertendo il suono di una voce che mi interpella, non riesco a “riflessionare” il pensiero ed a rispondere adeguatamente; ciò avviene dopo, come in ritardo. Io vorrei “riflettere” sempre subito, su quello che mi dicono e su quello che faccio, ma ciò non mi riesce…. A forza di isolarmi dal mondo e di rinchiudermi in me stessa, mi allontano tanto dalla realtà che forse i desideri di certi momenti della mia vita assumono per me il valore di essa; mi sento completamente immersa in questa nuova realtà, pur avvertendovi un senso indefinibile di sogno…Ho dei pensieri interni, passivi, a cui a volte faccio seguire l’azione, a volte invece sono astratti, senza azione; è come se fermassi la logica del pensiero stesso. Poi ci sono i pensieri esterni che sono aggressivi, perché vengono dalla volontà altrui, cui devo associarmi o che devo rifiutare… Più tardi ancora, alcuni miei pensieri affluiscono dal subcosciente e mi impongono una falsa verità, come ad esempio di essere diventata madre; sono così costretta a vivere quella verità che, forse, è l’espressione dei miei desideri”.
Di fronte alla drammaticità di queste confessioni, c’è poco da scherzare; l’umanità ferita in quello che ha di più prezioso (la propria psiche) non può che suscitare profonda compassione.
Se mi sono permesso di estrapolarne una lettura socio-politica (provate a leggerle in chiave politica anziché in chiave psichiatrica, immaginando che sia l’Italia a parlare) è solo perché anche il mio paese mi suscita un po' di compassione, di diversa natura, s’intende; ma non per questo meno triste.
Roma 21 novembre 2019





lunedì 18 novembre 2019

Rimorsi di un vecchio liceale

Antonio Rosmini
(di Felice Celato)
Nei miei (non molti) rimorsi di lontano liceale c’è quello di non aver letto un testo monografico di Antonio Rosmini che, in terza liceo classico, affiancava il manuale di storia della filosofia. In realtà, in quell’anno, la nostra amata docente aveva dovuto cedere il posto (per non ricordo quale motivo) ad una anziana, pigra supplente, forse impreparata per una terza liceo, con la quale era pure difficile dedicarsi all’attento studio del manuale sul quale, si sapeva, si sarebbe stati interrogati all’esame di maturità. E dunque, in qualche modo, ci preparammo all’esame concentrandoci sul manuale (e non andò poi male!).
Dunque, oggi, nella ricorrenza della beatificazione di Antonio Rosmini, dichiarata da Benedetto XVI il 18 novembre 2007, mi sono procurato un paio di testi del filosofo trentino, fondatore della Congregazione Religiosa dell’Istituto della Carità (detta appunto dei Padri Rosminiani), icona del liberalismo cattolico, grande amico del Manzoni (che lo definì una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità), pensatore amatissimo da Giovanni XXIII, da Paolo VI e da Giovanni Paolo II. Come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 2001 Joseph Ratzinger si adoperò per rimuovere gli effetti di un infelice Decreto dottrinale del Sant’Uffizio che, nel 1887, aveva condannato certi aspetti del pensiero del Rosmini (la vicenda è nota ai cultori della materia come Questione Rosminiana).
Così oggi mi sono immerso nella lettura di uno dei due testi, un breve Saggio sul comunismo e sul socialismo (poco più di una cinquantina di pagine) esposto direttamente dall’autore presso l’Accademia dei Risorgenti di Osimo nel 1847. La prosa è certamente ottocentesca e l’oratoria travolgente; ma la durissima polemica di Rosmini si concentra su utopisti sociali quali Robert Owen e Charles Fourier, forse oggi un po' dimenticati (certamente da me); e, più brevemente, su Thomas Hobbes.
Non ne avrei fatto dunque oggetto di uno dei miei consigli per la lettura, se non fosse che, nelle brevi Opinioni sull’Autore che precedono il saggio nell’edizione IBL (e-book), ho trovato una citazione di un dotto vescovo che ebbi a conoscere molti anni fa (Mons. Clemente Riva); citazione che – ne capiranno subito la ragione i miei lettori – mi ha entusiasmato ed aumentato il rimorso per l’omessa lettura al liceo. Scriveva infatti Mons. Riva: La concezione rosminiana dello Stato è la più radicale critica della statolatria!
Con questo (insuperabile) stimolo, la celebrazione della ricorrenza e la soddisfazione del rimorso mi impongono almeno una citazione dal volumetto di cui dicevo: tutti i beni si riducono alla libertà; private l’uomo della libertà: egli è privo di tutti i beni suoi propri: fate che gli uomini non possano in una data società far più nulla di quel che vogliono, e quella società è una prigione: ella è inutile, dannosa: non è più società; perocché ogni società si raccoglie unicamente affine di accrescere la libertà de’ soci, affine che le loro facoltà abbiano un campo maggiore, dove liberamente ed utilmente esercitarsi….Nè può recare alcuna meraviglia che l’individuo non sia più nulla, quando il governo è tutto…..Ma nei nuovi sistemi, dove non è più nulla lo individuo, il governo è tutto, dove l’individuo non ha più a pensare a sé né alla famiglia, ma unicamente ad eseguire materialmente gli ordini di un governo, che vuole solo pensar per tutti, dove manca ogni proprietà individuale, dove è tolta ogni libera disposizione dei beni di fortuna, dove le stirpi non hanno più successione né unità, i figliuoli non son più legati coi padri né i padri coi figliuoli e la catena dei tempi disciolta lascia sparpagliati e isolati tutti i suoi anelli; che ragione, che fomite, possono avere d’accendersi affetti e passioni? Ogni naturale loro pascolo è del tutto sottratto e l’attività umana priva di stimoli deve necessariamente spegnersi in un mortale letargo.
Riconosco che la statolatria qui presa di mira è una forma…lievemente più grave di quella che vedo tanto diffusa da noi; ma la malattia è della stessa specie.
Roma, 18 novembre 2019




giovedì 14 novembre 2019

I sicomori

….alberi indispensabili
(di Felice Celato)
Da una suggestiva memoria del p. De Bertolis (a Roma, Chiesa del Gesù, tutte le domeniche alle 10, estate ed inverno, con qualsiasi tempo), ha preso le mosse, qualche settimana fa, una riflessione sul sicomoro come una specie di archetipo del luogo da dove si intravvede il vero che passa.
Il sicomoro è un albero della famiglia delle Moracee (diffusa in Africa e Medio Oriente) che cresce fino all’altezza di 20 metri, e raggiunge i 6 metri di larghezza, con una chioma ampia e tondeggiante (fonte: Wikipedia); esso è citato (fonte Eulogos Intra-text) sette volte nell’Antico Testamento e una volta nel Nuovo Testamento (in Luca, 19, 1-10); e deve la sua “notorietà” archetipale proprio al commovente episodio narrato nel Vangelo di Luca a proposito della “conversione del pubblicano Zaccheo” che, a Gerico, cercava di vedere Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché doveva passare di là.
[ Forse, come diceva il p. De Bertolis, ognuno nella propria vita spirituale ha un suo sicomoro, un punto più alto della propria esistenza, magari raggiunto con dolore, da dove può intravedere il Cristo che passa in mezzo a noi, per esserne a sua volta misteriosamente riconosciuto e chiamato (“Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”); e di questo, qui, tacciamo, perché, appunto, ognuno ha il suo sicomoro e forse l’ha già scalato o lo sta scalando.]
Ma, per venire a qualcosa di meno intimo, del sicomoro (anzi di interi filari di sicomori), secondo me, abbiamo bisogno anche nella nostra vita di cittadini, in questi tempi di fòlle – reali o mediatiche – che ci impediscono la visione del vero che passa: abbiamo bisogno di vedere come fossimo in disparte rispetto alla confusione che attorno a noi ci rende difficile il farlo. E dal sicomoro, a prescindere dalla nostra statura fisica, si vede meglio che in mezzo alla fòlla, quand’anche materialmente si stia sul divano sfogliando un giornale o guardando la televisione che – della fòlla di Gerico (o di quella di Gerusalemme!) – sono i moderni replicanti; si tratta di capire quali possono essere i nostri sicomori, a loro volta i moderni replicanti dell’albero di Zaccheo.
Qui la scelta si fa ardua, perché persino la scelta del punto da cui guardare  risente di personali paradigmi, che funzionano come le lenti dell’ottico Dippold (ricordate l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master? Che cosa vedete adesso? Globi di rosso, giallo e porpora. E adesso?... Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili….Provate questa. Un campo di grano – una città. E adesso?...etc. etc.). Estremizzando: non mancano fra i miei amici quelli che sicuramente direbbero che l’autentico “balcone” sulla realtà sta proprio in mezzo alla gente, lì sta – paradossalmente – il vero sicomoro! Io stesso, d’altra parte, non manco del mio astratto (ed opposto) paradigma: dal sicomoro voglio scorgere le effettive misure della realtà, a prescindere da ogni transitoria distorsione percettiva; e dunque il sicomoro che vado cercando è un luogo rialzato e saldo dal quale scavalcare con gli occhi il muro della fòlla. Solo da lì, mi sento sicuro che il bicchiere d’acqua che disseta continui ad apparirmi – nell’identità della sostanza – profondamente diverso dall’ondata d’acqua che travolge.
Del resto, se quel poco di filosofia che ho studiato non mi inganna, la questione è antica e già Platone contrapponeva l’episteme (la conoscenza) alla doxa (l’opinione) [ e, dunque, certo questo non è il luogo (né chi scrive l’uomo giusto) per sciogliere “definitivamente” il nodo]. Ma di nuovo c’è che, oggi, l’opinione è oggetto di una continua e profonda manipolazione (mediatica, politica e politico-mediatica) che altera, ingigantisce o rimpicciolisce le percezioni e le trasforma in argumentum politico, rendendo indistinguibile quello che è autentico da quello che è indotto; e la scelta del sicomoro si fa sempre più decisiva.
Quale che sia la scelta del vostro sicomoro, è bene, secondo me, che ciascuno ne abbia uno, ma con coscienza e passione del guardare in disparte, quand’anche scegliesse di trovarlo in mezzo alla gente. La questione civile del nostro paese (in questi tempi così rumorosi) mi pare stia tutta nel numero dei sicomori lungo la via (qualunque ne sia la natura) e nel numero delle persone disposte alla piccola fatica del salirvi ogni giorno per vedere.
Roma 14 novembre 2019

sabato 9 novembre 2019

Letture e ri-letture

“Restringere lo stato”
(di Felice Celato) 
La presentazione (all’Istituto don Sturzo, in Roma) di un libro molto interessante (Noi e lo stato – Siamo ancora sudditi?, a cura di Serena Sileoni, IBL libri, 2019, con contributi, fra gli altri, di Carlo Cottarelli, Nicola Rossi, Giovanni Fiandaca, Giuliano Cazzola, Giampaolo Galli) mi ha indotto a ritornare su un tema che mi appassiona, complici un breve tratto di strada fatto con un giovane studente all’uscita dalla presentazione e il breve scambio di idee col curioso giovanotto. Dico subito che “l’evento” ha, in fondo, tradito lo spirito del libro, perché gran parte del tempo ad esso dedicato è stato “monopolizzato” dalla straordinaria eloquenza – o loquacità? – di un giovane politico, interessato, però, più alla “propaganda” di quanto da lui operato che alla discussione sul testo; che, comunque – bisogna dargliene atto perché la cosa è rara per un politico nostrano – ha dimostrato di aver letto. 
Ma non è della presentazione che mi va di parlare oggi, quanto, piuttosto, di una rilettura che il pomeriggio all’Istituto Don Sturzo e una fugace domanda del giovane studente mi hanno suggerito. Si tratta (anticipo la soluzione  del …giallo) di un piccolo volumetto scritto da Pellegrino Capaldo qualche tempo fa (Pensieri sull’Italia – L’importanza della politica, Salerno editore, 2016, già segnalato su questo blog oltre tre anni fa, cfr. post del 12 maggio 2016) e che mi pare ancora attualissimo, anzi, urgente in questi tempi confusi e del tutto privi di progetti politici; e, per certi versi, un’utile integrazione al libro (questo, corposo) presentato appunto l’altro giorno.
La connessione fra i due libri sta tutta nel filone che amo definire anti-statolatrico, che mi pare tanto lontano dall’andazzo presente, caratterizzato – fra l’altro – da pervasive tentazioni statalizzatrici e ….parmigianiste (il termine – questo tutto mio, e ne chiedo scusa ai produttori dell’amato formaggio – indica la tendenza ad arroccare il paese nell’ingenuo vanto di tradizioni e saperi e sapori nazional-popolari, come canone ultimo del nostro idolatrato specialismo, apparentemente patriottico, in realtà vagamente …fesso).
Certo Serena Sileoni la mette giù dura: per ridurre le ipotesi di questo abuso [di sovranità statale nei confronti del cittadino] non ci resta che limitare non il sovrano, ma le sue funzioni… e necessariamente chiedere allo stato di occuparsi di meno cose, per consentirgli di fare bene il poco che deve fare. Ma – ed è questo il punto di connessione cui accennavo – anche Capaldo, che sviluppa un discorso più direttamente focalizzato sulla invocata trasformazione della politica (trasformazione, non depotenziamento, dunque!), non manca di chiarezza: s’impone, a mio parere, una vera e propria destatalizzazione della nostra società, limitatamente – s’intende – alla sola attività di produzione e distribuzione dei servizi, lasciando che siano i cittadini a organizzarsi nell’ambito di linee generali tracciate dallo stato. [Riordiniamo il nostro welfare, è – per intenderci – il titolo del capitolo!]
Insomma, integrale o limitato, un restringimento dello stato sembra essere l’istanza su cui facilmente convergo.
Già, ma qual è il poco che lo stato deve fare e come la destatalizzazione va limitata alla sola attività di produzione e distribuzione dei servizi?
Se dovessi trovare da solo una risposta a questi due interrogativi, direi: difesa, ordine pubblico, giustizia, politica estera, educazione come servizio universale, protezione dei più deboli, disciplina dei mercati, promozione della capacità auto-organizzativa dei cittadini e tassazione correlata a queste finalità, sono le non poche cose che lo stato deve fare e bene; e forse qualcos’altro, poco e con misura; per esempio non deve statalizzare imprese, non deve farsi produttore di beni industriali, non deve inventarsi fasulle strategicità settoriali, etc. Potrebbe però, per esempio, anche farsi promotore e garante del corretto finanziamento dell’ingente sforzo infrastrutturale al quale la terza rivoluzione industriale ci chiama con urgenza (alludo, per esempio, all’ internet of things). Tutte cose da pensare e valutare con rigore di confini (e con serietà di intenti).
Tornando all’”evento” e al suo successivo, occasionale commento, il giovane studente lungo Via delle Coppelle mi diceva con curiosità perplessa: “leggerò il libro ma è certo che mi lascia perplesso l’ampiezza del progetto di restringere lo stato. C’è, nella nostra società, sufficiente cultura politica per impostare una rivoluzione così radicale?” Guardi – è stata la mia istintiva risposta – che restringere lo stato è pura manutenzione della democrazia; se non la si manutiene promuovendo la responsabilità dei cittadini, la democrazia deperisce, si ammalora, e il Leviatano diventa una bestia pericolosa. E poi – visto che c’ero – a memoria ho elargito il mio consiglio per la lettura: si vada a leggere un piccolo libro di qualche anno fa e si convincerà che è possibile farlo con serietà e determinazione, anche se – come Capaldo - non si è sfrenati liberisti.
Roma, 9 novembre 2019