lunedì 18 novembre 2019

Rimorsi di un vecchio liceale

Antonio Rosmini
(di Felice Celato)
Nei miei (non molti) rimorsi di lontano liceale c’è quello di non aver letto un testo monografico di Antonio Rosmini che, in terza liceo classico, affiancava il manuale di storia della filosofia. In realtà, in quell’anno, la nostra amata docente aveva dovuto cedere il posto (per non ricordo quale motivo) ad una anziana, pigra supplente, forse impreparata per una terza liceo, con la quale era pure difficile dedicarsi all’attento studio del manuale sul quale, si sapeva, si sarebbe stati interrogati all’esame di maturità. E dunque, in qualche modo, ci preparammo all’esame concentrandoci sul manuale (e non andò poi male!).
Dunque, oggi, nella ricorrenza della beatificazione di Antonio Rosmini, dichiarata da Benedetto XVI il 18 novembre 2007, mi sono procurato un paio di testi del filosofo trentino, fondatore della Congregazione Religiosa dell’Istituto della Carità (detta appunto dei Padri Rosminiani), icona del liberalismo cattolico, grande amico del Manzoni (che lo definì una delle sei o sette intelligenze che più onorano l’umanità), pensatore amatissimo da Giovanni XXIII, da Paolo VI e da Giovanni Paolo II. Come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 2001 Joseph Ratzinger si adoperò per rimuovere gli effetti di un infelice Decreto dottrinale del Sant’Uffizio che, nel 1887, aveva condannato certi aspetti del pensiero del Rosmini (la vicenda è nota ai cultori della materia come Questione Rosminiana).
Così oggi mi sono immerso nella lettura di uno dei due testi, un breve Saggio sul comunismo e sul socialismo (poco più di una cinquantina di pagine) esposto direttamente dall’autore presso l’Accademia dei Risorgenti di Osimo nel 1847. La prosa è certamente ottocentesca e l’oratoria travolgente; ma la durissima polemica di Rosmini si concentra su utopisti sociali quali Robert Owen e Charles Fourier, forse oggi un po' dimenticati (certamente da me); e, più brevemente, su Thomas Hobbes.
Non ne avrei fatto dunque oggetto di uno dei miei consigli per la lettura, se non fosse che, nelle brevi Opinioni sull’Autore che precedono il saggio nell’edizione IBL (e-book), ho trovato una citazione di un dotto vescovo che ebbi a conoscere molti anni fa (Mons. Clemente Riva); citazione che – ne capiranno subito la ragione i miei lettori – mi ha entusiasmato ed aumentato il rimorso per l’omessa lettura al liceo. Scriveva infatti Mons. Riva: La concezione rosminiana dello Stato è la più radicale critica della statolatria!
Con questo (insuperabile) stimolo, la celebrazione della ricorrenza e la soddisfazione del rimorso mi impongono almeno una citazione dal volumetto di cui dicevo: tutti i beni si riducono alla libertà; private l’uomo della libertà: egli è privo di tutti i beni suoi propri: fate che gli uomini non possano in una data società far più nulla di quel che vogliono, e quella società è una prigione: ella è inutile, dannosa: non è più società; perocché ogni società si raccoglie unicamente affine di accrescere la libertà de’ soci, affine che le loro facoltà abbiano un campo maggiore, dove liberamente ed utilmente esercitarsi….Nè può recare alcuna meraviglia che l’individuo non sia più nulla, quando il governo è tutto…..Ma nei nuovi sistemi, dove non è più nulla lo individuo, il governo è tutto, dove l’individuo non ha più a pensare a sé né alla famiglia, ma unicamente ad eseguire materialmente gli ordini di un governo, che vuole solo pensar per tutti, dove manca ogni proprietà individuale, dove è tolta ogni libera disposizione dei beni di fortuna, dove le stirpi non hanno più successione né unità, i figliuoli non son più legati coi padri né i padri coi figliuoli e la catena dei tempi disciolta lascia sparpagliati e isolati tutti i suoi anelli; che ragione, che fomite, possono avere d’accendersi affetti e passioni? Ogni naturale loro pascolo è del tutto sottratto e l’attività umana priva di stimoli deve necessariamente spegnersi in un mortale letargo.
Riconosco che la statolatria qui presa di mira è una forma…lievemente più grave di quella che vedo tanto diffusa da noi; ma la malattia è della stessa specie.
Roma, 18 novembre 2019




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