sabato 29 dicembre 2012

2013, sul bivio


Passaggio dell’anno
(di Felice Celato)
Si chiude l’anno 2012, certo non un bell’anno (“anno bisesto….”) e comincia il 2013 che speriamo – è d’obbligo – sia migliore per tutti, e, in astratto, non dovrebbe essere difficile!
Siamo tuttavia, come “comunità nazionale”, alla disperata ricerca di una chiave per uscire, come direbbe Borges, “dai tardi labirinti della mente”, forse senza aver “appreso la veglia” nei tanti anni di sonno delle nostre coscienze civiche durante i quali non abbiamo capito o voluto capire le fragilità del sistema economico, politico e valoriale che andavamo tessendo e gli inganni delle autorappresentazioni che hanno progressivamente sfarinato la nostra società e messo a nudo la natura sociologica della nostra crisi, giunta fino al confine dell’ (irreparabile)  “danno antropologico”.
Forse, come dice De Rita, ci resta, acuita dall’istinto di sopravvivenza, una sorgente percezione di “quanto sia essenziale nei pericoli difendere, riprendere, valorizzare ciò che resta di funzionante dei precedenti processi di sviluppo” e di “ciò che non abbiamo fatto e resta da fare”.
Ma questa duplice “restanza” (vedasi post del 9 12 12, Speranza e restanza) potrebbe non bastare, da sola, per farci uscire, rinnovati e saldi, da questo passaggio “civile” che ci aspetta nel giro ormai di poche settimane, quando il “bivio”, che avvertivamo sopraggiungere già nella primavera scorsa (post del 13 3 12, Lo spirito del bivio), sarà divenuto ineludibile e vedremo finalmente cosa pensa di sé e per sé cosa vuole questo Paese: populismi ed ideologie e altre favole e nuove illusioni per un breve tratto; o vera coscienza dei problemi e volontà di  affrontarli con determinazione serena e vigoroso senso della realtà, “stamina” che certamente sono alla nostra portata; ma che esigono, l’ho detto altre volte (post del 26 8 12, Parole-guida), il riuso cosciente di parole obsolete (verità, perdono e fatica) delle quali vedo solo sillabe incomplete.
Purtroppo però “il bivio” lacera dall’interno anche le nostre “forze” politiche migliori, almeno per come ora si stanno schierando, facendole oscillare fra esigenze elettoralistiche e animose memorie del passato, da un lato, e conclusiva e coraggiosa ansia di vero rinnovamento nella continuità delle opzioni fondamentali, dall’altro.
E, ancora purtroppo, “il bivio” passa anche all’interno della nostra “città” e della sua usurata classe dirigente, forse anche fra noi: e questo, se possibile, è ancora più preoccupante, perché rischia di impedire la maturazione di un affidabile pensiero collettivo che, pur nelle naturali differenziazioni politiche, dovrebbe costituire un perimetro comune entro cui delimitare una dialettica democratica moderna: dopo aver tanto disperso (nelle idee, nelle decisioni e nel linguaggio) non è facile ridare consistenza, appunto, ad un pensiero collettivo.
E’ invece facile prevedere, in questo contesto, che i prossimi mesi saranno politicamente drammatici, come sempre lo sono i tempi che mettono a duro confronto antitetiche diagnosi e e cure ancora più antitetiche: non sarà, temo, solo tempo di linguaggi incontrollati e di disperate violenze verbali, che già abbiamo visto dipanarsi con opprimente larghezza. Sarà anche tempo di lunghi sconforti e di blande speranze “mondane”: ma (cito ancora De Rita) il nostro robusto “scheletro contadino”, avvezzo a lunghe fatiche e ad attese tenaci fatte di capacità di semina, di fiducia nel tempo, di cura caparbia dei germogli, di orgoglio per i frutti quanto più ne è stata difficile la coltivazione, non ci abbandonerà; è ancora giusto sperarlo, perché gli esiti migliori che è lecito attendersi da questo processo che è in corso non sono già morti (e ci sono in corso anche buone semine).In fondo, tante volte c’è nebbia quando il contadino esce per arare.
E poi, nel nostro comune patrimonio di umane saldezze, sono scritte promesse che ci rimandano a tempi lunghi ma anche ad esiti sicuri: portae inferi non praevalebunt (Mt 16,18).

L’augurio che formulo a tutti gli amici lo traggo da una frase di sant’Agostino: Deus non deserit, si non deseratur (Dio non abbandona se non è abbandonato). Proviamo a portarci dietro per tutto l’anno questa certezza.

Roma, 29 dicembre 2012

domenica 23 dicembre 2012

Auguri!


Natale 2012
(di Felice Celato)
Che cosa c’è nel Natale che sempre rinnova gioia e speranza? Perché – pur in una società largamente secolarizzata – la nascita di un bambino, sia pure “speciale”, apre le menti, forse le anime, ad un nuovo rigenerarsi? Forse il fatto che del nuovo e della speranza e della speranza del nuovo ogni bambino è appunto la naturale incarnazione?
Forse.
Dal punto di vista umano è, forse, sempre così. Non a caso questa festa si pone così vicino alla fine di un anno e al principio di un altro nuovo e di un nuovo ciclo della luce, come fosse una pagina che si gira in attesa di leggere quella che segue e che si aspetta più bella.
Ma questo bambino “speciale” non è un semplice bambino; è anche, per chi lo crede, il Dio che si incarna. E anche chi non lo crede, lo desidererebbe un Dio che viene, perché – ne sono convinto – c’è in tutti una nostalgia del divino, come sarebbe quella del “posto” da cui siamo venuti, anche sepolta nei recessi dell’anima, sotto strati di indifferenza e di cinismo.
Al Dio che viene, dunque, creduto o solo sentito raccontare, ciascuno affida il proprio carico di attese buone, perché si avverino a cominciare da dentro di noi.
Durerà poco, questo Natale, come ogni Natale e ci vedremo ben presto “al lavoro” con le durezze di sempre; ma quel poco che dura vale la pena di essere goduto, perché anche un breve tratto di speranza fa bene! Soprattutto quando il presente è così stanco, quasi estenuato.
Auguro a tutti, invece, che il Natale duri a lungo, soprattutto dentro di noi!
Roma 23 dicembre 2012

domenica 16 dicembre 2012

Verso la campagna elettorale/2

Il diavolo sta nei “dettagli”
(di Felice Celato)
Ancora troppo presto per capire quali saranno gli schieramenti in campo (figuriamoci dunque per domandarsi che fare quando si voterà): per ora siamo solo (relativamente) certi dell’accoppiata Bersani-Vendola e delle “primariette” del PD (congiunte con quelle di SEL) fra Natale e Capodanno, apparentemente studiate per garantire, dietro l’usbergo inattaccabile del ricorso “al popolo”, che la cachistocrazia si perpetui attraverso la consultazione delle strutture di partito nelle sezioni del PD.
Vedremo il resto.
Nel frattempo, leggendo Scalfari su Repubblica di oggi, ho capito che cosa voleva dire D’Alema definendo “moralmente discutibile” la candidatura di Monti: voleva dire, spiega il fondatore di Repubblica, che, candidandosi, Monti “metterebbe in difficoltà il PD, il partito che più degli altri lo ha lealmente appoggiato fin dall’inizio, quando Berlusconi si dimise ed il PD avrebbe potuto chiedere che si andasse subito alle elezioni che probabilmente avrebbe vinto”.
A parte il curioso ricorso ad appelli morali da parte di chi ha sempre orgogliosamente difeso l’autonomia della politica, mi pare però di capire che il riguardo sarebbe non per il Paese (che indubbiamente Monti ha sottratto al baratro del default e del totale discredito internazionale) ma per il PD che, forte dell’appoggio della Camusso, nel frattempo si è però alleato con chi chiede l’annullamento di quanto Monti ha fatto.
Onestamente fatico a districarmi in questo groviglio di argomentari; per ora ci resta la certezza che il “problema Italia” viene, anche sgradevolmente, percepito come un problema Europeo; e questo non mi sorprende, visto, fra l’altro, che circa un terzo del nostro debito monstre è collocato all’estero; e che l’Italia, per rilevanza della sua economia e dei suoi consumi, non è, come dicevamo qualche giorno fa, la Grecia e nemmeno la Spagna.
Mi aspetto che in campagna elettorale i nostri retori sfodereranno tutte le armi delle più pericolose suggestioni, fatte – as usual – di enunciazioni di grandi principi e di grandi idealità (sulle quali spesso è difficile essere in disaccordo) dimenticando come sempre che, come si dice, “il diavolo sta nei dettagli” e saranno proprio i dettagli (che, poi, tanto dettagli non sono) che faranno della nostra agenda politica una scelta di adesione al contesto europeo - che, pur non esente da problemi e anche gravi, comunque ci è proprio - o un ritorno al passato delle ideologie vuote e paralizzanti.
Mi viene in mente una curiosa strofetta che i dispregiatori dei dettagli farebbero bene a rileggere:
In mancanza di un chiodo si perse il ferro di cavallo.
In mancanza del ferro di cavallo si perse il cavallo.
In mancanza di un cavallo si perse il cavaliere.
In mancanza di un cavaliere si perse la battaglia.
In mancanza di una battaglia si perse il regno.
Roma, 16 dicembre 2012

PS: per tutelare l’attenzione ai “dettagli” basterà sempre domandare: “e  i soldi dove li troviamo?” oppure: “se finanziamo questo, che cosa de-finanziamo?”; oppure ancora: “se tagliamo le tasse, da dove recupereremo le risorse per pagare debiti ed interessi?”, ovvero “se tagliamo una spesa (cui di solito corrisponde un reddito per qualcuno), come sosteniamo il reddito di chi è stato tagliato?”

mercoledì 12 dicembre 2012

Verso la campagna elettorale.


Avvinghiati all’intelligenza
(di Felice Celato)
Prima dell’approvazione della legge di stabilità e delle conseguenti dimissioni del Governo non sarà possibile capire appieno come sarà questa campagna elettorale che già si presenta così male. La svolta decisiva si avrà  quando Monti   deciderà (o, meglio, esternerà la propria decisone) se candidarsi e con quale supporto politico/elettorale. Allora magari ne riparleremo per ragionare insieme sul da farsi (intendo: con coloro che non sanno già cosa fare; e io sono fra quelli).
Tuttavia sui prodromi dell’ordalia, vale già la pena di riflettere, se non altro per predisporre la nostra mente e la nostra pazienza al duro periodo che sicuramente ci attende.
La palese idiozia (“che ci importa a noi dello spread?”) esternata da chi certamente idiota non è (potrà essere stanco, forse politicamente disperato, ma certamente non idiota) ci dà la misura di una rincorsa al vorticoso ribasso della qualità delle proposte che saranno sottoposte al famoso “popolo sovrano”; e gli “inviti” alla saggezza che ci vengono da fuori (per quanto sgraditi o sgradevoli siano; e certamente per me sono stati  ad un tempo centrati e sgradevoli) ci danno la misura della oggettiva  preoccupazione che destiamo (l’Italia non è la Grecia e nemmeno la Spagna!). E anche di come ormai le decisioni che la politica nazionale può prendere siano estremamente limitate, soprattutto quando si è pieni debiti e ancor più di problemi. E, infine, di quanto poco affidante sia lo scenario sociologico, culturale e politico che si va mettendo insieme in questa lunga vigila elettorale (ci piaccia o no, certi personaggi pittoreschi o grotteschi che incarnano….o re-incarnano, a destra o a sinistra,  buona parte dell’attuale offerta politica che viene proposta agli Italiani non sono fatti per piacere a chi si preoccupa dell’Italia come pezzo essenziale dell’Europa).
Come ho sempre pensato, i popoli prima o poi pagano il prezzo  di non aver saputo scegliere i propri capi (o di non essersi liberati per tempo di quelli che si siano rivelati inidonei): dall’Italia di Mussolini alla Germania di Hitler, dalla Palestina di Arafat all’Iraq di Saddam o alla Libia di Gheddafi, gli esempi anche contemporanei non mancano.
Noi, per nostra fortuna, abbiamo davanti un evento – le prossime elezioni – che rimetterà in mano al “popolo sovrano” l’arma democratica per “re-settare”  fisiologicamente le scelte del passato (per me sbagliate, ma non importa più); e possiamo farlo – grazie a Dio! – in piena libertà e pace. Dobbiamo cercare di farlo però solo con intelligenza, che non ci manca come popolo ma che spesso lasciamo traviare dalle pulsioni emotive della natura più disparata.
Prepariamoci ad affrontare questi due durissimi mesi che abbiamo davanti avvinghiandoci (sì, avvinghiandoci!) solo all’”intelligenza delle cose”, cioè alla comprensione della realtà così com’è, anche prescindendo dalle responsabilità  che l’hanno fatta, appunto, com’è;  e all’”intelligenza dei messaggi”, cioè alla cura attenta di quello che si dice e alla critica razionale a ciò che ci viene detto. Non lasciamo pertugi di sorta, per quel che possiamo, a narratori di fiabe, ad eccitatori di pance, ad emozionisti sconclusionati ed incoscienti.
Sarà un esercizio difficile, perché le cose sono terribilmente complicate e non sopportano semplificazioni becere; e perché il “pabulum” che la situazione offre alla rabbia e all’irrazionalità è abbondante e può ispirare messaggi  seducenti. Ma è un esercizio necessario per non sbagliare ancora e per non accumulare un conto negativo  troppo lungo, da far regolare, prima o poi,  alla storia, con maggior dolore.
Roma, 12.12.12

domenica 9 dicembre 2012

Speranza e restanza


Ai margini della palude
(di Felice Celato)
Prima di re-immergerci nella palude che ci aspetta (e, come  davanti ad ogni palude, dalla riva si può essere certi del fango ma non della tenuta del fondo) eccoci a riflettere ancora un attimo sul Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese (Censis, 2012), anzi sulle Considerazioni generali che, come sempre, lo accompagnano e, per certi aspetti, ne suggeriscono l'interpretazione di fondo.
La ricca messe di dati che - di anno in anno - costituisce il corpo del Rapporto delinea un quadro abbastanza drammatico dello "smottamento" vissuto dal nostro corpo sociale nel corso di questo anno "bisesto".
Non ci sarebbero da coltivare troppi ottimismi se si riflette che la curvatura adattiva (l'imporsi del problema della sopravvivenza) cui si è sottoposta con grande sofferenza la nostra società nel 2012 sembra lungi dall’essere definitivamente approdata a nuovi, stabili equilibri. La crisi - riconosciamolo, l'ha fatto mi pare anche De Rita - è stata da molti largamente sottovalutata, nella sua enorme portata (certamente al di là della nostra - e non solo nostra - possibilità di governarla o di  scivolarci sopra come su una tavola da surf) e nella estremità dei sui rischi: molti non hanno capito che  stavolta non è come spesso sono state le crisi che pure abbiamo affrontato dal dopoguerra in poi; che stavolta rischiamo di romperci le ossa e di dover restare ingessati per almeno una generazione. E direi, leggendo da lontano le cronache politiche di queste ore, mi pare che alcuni seguitino (o tornino) a non capire. 
Eppure, con vece infaticabile e con lucido culto della speranza, Giuseppe De Rita prova a tracciare una prospettiva, ad individuare un percorso, muovendo  dall'identificazione di due dinamiche (entrambe positive) che, forse, si sono parallelamente determinate nella nostra società senza peraltro incrociarsi: da un lato (è la scelta, se vogliamo un po' elitaria ed oligarchica, del rigore, la scelta “degli dèi della città”) una forte capacità di “concentrazione mentale e operativa” nell’arginamento dello “sfascio inerte, quasi un dissolvimento” della nostra immagine nazionale (“dentro e fuori i confini”), nel ricalibrare i nostri “pregiudicati rapporti” coi partner europei e coi mercati, nel riordino dei settori più “trasandati” della nostra società; dall' altro ( è, dice De Rita, " la voglia popolare di sopravvivenza") un moto di profondo adattamento dei comportamenti, puntato sulla "restanza"  (l' attaccamento a ciò  che resta del passato dei nostri valori e, ad un tempo, pure, per nostra inerzia, resta ancora da fare, una specie di "già e non ancora" della nostra storia recente), sulla differenziazione (il voler “essere altrimenti”)  e sul riposizionamento degli atteggiamenti e degli orientamenti.
Queste due dinamiche che sembrano leggersi in profondità nella radiografia  Censis della nostra società, aspettano - è questa la speranza di De Rita - di trovarsi reciprocamente, "per fondare un significativo passo della nostra unità nazionale", sull'orlo di una ulteriore divaricazione e dopo aver vissuto " un reciproco senso di alterità e talvolta di conflittualità",.
Bene; ora, al bordo della palude, possiamo indossare gli stivali: come dicevo all'inizio, del fango che dovremo attraversare possiamo essere ragionevolmente certi; il fondo lo saggeremo nelle settimane a venire, con cautela e paura.
Roma, 9 dicembre 2012