venerdì 26 gennaio 2018

Il giorno della memoria

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case…. (Primo Levi)
(di Felice Celato)

Perché il Giorno della Memoria (le truppe della 60° Armata Russa “liberano” il campo di concentramento di Auschwitz, 27 gennaio 1945) non resti solo un giorno di memorie, ripropongo al pensiero dei miei lettori le frasi finali del libro di Albert Camus, La peste:
Ascoltando..... le grida di esultanza che si levavano dalla città [per la “fine” della peste], Rieux [Bernard Rieux, il medico protagonista del libro] si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice.
Da Roma, una delle nostre “città felici”, 26 gennaio 2018


giovedì 25 gennaio 2018

Studi-diario ipocondriaco

Morire oicofobico
(di Felice Celato)
L’oicofobia (dal greco oìkos: casa; e phòbos: paura; in qualche modo in senso  opposto a xenofobia, paura dello straniero) è un termine che non conoscevo e del quale mi sono prontamente innamorato (del resto le parole nuove e magari strane mi hanno sempre incuriosito, anche perché la ricchezza del lessico è ricchezza della cultura). L’ho trovato citato in un libro che sto leggendo e del quale forse parleremo in seguito (Edward Luce: Il tramonto del liberalismo occidentale, Einaudi,2017) dove viene attribuito al filosofo inglese Roger Scruton del quale abbiamo, invece, parlato in più occasioni (vedasi, per tutte, il post Letture del 21 3 12). In realtà, da una breve ricerca lessicale, è emerso che forse Scruton l’ha solo riscoperto, questo termine, attribuendogli un senso specifico che è, apparentemente, anche diverso da quello – forse etimologicamente disordinato – in uso in ambito psichiatrico, dove oicofobia starebbe per paura di veder invasa la propria sfera privata (paura del furto di identità, per esempio).
Scruton invece (in Manifesto dei conservatori, Raffaello Cortina Ed, 2007) lo usa nel senso di avversione per la propria casa ed il proprio retaggio; avversione che – qui il “conservatore” Scruton “morde” – sfocia nel ripudio “delle lealtà nazionali”, nella difesa di un presunto “universalismo illuminato…..in antitesi ad uno sciovinismo locale”.
Intendiamoci: altre volte, qui, ci siamo lamentati del rifiuto europeo di riconoscersi nelle proprie radici giudaico-cristiane; anzi, per lamentarci a voce più alta, abbiamo fatto ricorso (Spigolature / 6 del 3 7 2016), come ci viene estremamente gradito, anche ad un venerabile contributo di pensiero alto (L’Europa nella crisi delle culture, conferenza del 1° 4 2005 di J. Ratzinger a Subiaco). E da questo punto di vista, quindi, non avendo cambiato idea, non posso certo attribuirmi almeno uno dei descritti sintomi della malattia (l’oicofobia, appunto intesa come avversione al proprio retaggio). Ma, da perfetto ipocondriaco, le manifestazioni dell’altro sintomo me le sento tutte addosso: ho una profonda avversione per quello che la nostra casa (qui l’Italia) sembra covare nel suo seno in questi nostri tempi (rancori, illusioni mal gestite, propensione alle fole, autopercezioni sbagliate, irragionevolezze, isolazionismi fuori del tempo, ingestibili complessi di Peter Pan, illusori sovranismi, xenofobie più o meno esotiche, emotività pendolare, futilità scambiate per valori, etc. etc.); e temo fortemente che quello che la nostra casa sembra covare nel suo seno abbia anche a manifestarsi, nel corso dell’anno appena cominciato, in indirizzi che è anche difficile prevedere, tanto frastagliato, diviso e confuso è lo scenario politico pre-elettorale.
Insomma: ho paura di noi! Una paura – si badi bene – disconnessa, per ora, da ogni opzione elettorale: siamo noi come elettori a farmi paura, prima e più ancora dei potenziali eletti alle prossime votazioni.
Si dirà: e cùrati, allora, perché così non puoi andare avanti! Fallo almeno per i tuoi (ammorbati) lettori!
Lo farei, lo farei volentieri, vi assicuro; se non fosse che sono in uno stato talmente avanzato della malattia che mi sono convinto di avere ragione, che la malattia non esiste e che la sanità consiste proprio nel vederla come la vedo io! Una specie di eterogenesi dell’ipocondria!
Che si fa? Chi ha consigli, per favore, si faccia avanti presto, mi spiacerebbe morire oicofobico!

Roma 25 gennaio 2018

domenica 21 gennaio 2018

Defendit numerus / 17

Povertà
(di Felice Celato)
Il Corriere della sera di ieri recava un articolo di fondo di Ferruccio de Bortoli (L’Italia dei poveri invisibili) su un tema che mi appassiona e mi commuove allo stesso tempo: quanto è vasta l’area della povertà in Italia e quanto è “profonda”?
Poiché per una antica deformazione (non solo professionale) non mi è facile percepire un problema senza considerarne la dimensione, ho faticato un po’ a rimettere, in una sintesi unitaria, i numerosi dati analitici che l’Istat produce ogni anno sul tema (Rapporto: La povertà in Italia, ultimo disponibile quello del 13 luglio 2017, riferito ai dati al 31 12 2016).
Ecco la tabella che ho elaborato, spero esattamente [NB: segnalo che i concetti statistici adottati dall’Istat si focalizzano su due distinte misure della povertà, quella assoluta e quella relativa, delle quali ho tentato una unificazione che magari contiene qualche grado di arbitrarietà ma che spero aiuti ad avere una chiara percezione del problema e della sua – impressionante – dimensione. Mi auguro che la chiarezza faccia premio sulla assoluta precisione della ricostruzione]


TOTALE FAMIGLIE ITALIANE
25,8 milioni
100 %
di cui : Non povere
21,3 milioni
82,5%
           Quasi povere 
  1,8 milioni
 6,9%
           Molto povere
  1,1 milioni
4,3%
           In povertà assoluta
  1,6 milioni
6,3%

I dati dell’Istat fissano, per il 2016, al reddito di € 1060 mensili (per una famiglia di 2 persone) la soglia di povertà (che delimita verso l'alto l'area in rosso nella tabella). Il concetto di povertà assoluta, invece, fa riferimento ad uno standard di vita “minimamente accettabile”. I dati, complessivamente stabili nell’ultimo quadriennio, sono ovviamente assai diversificati fra Sud, Centro e Nord Italia.
Il problema mi pare assai serio, per dimensione e profondità (il 10,6 % delle famiglie vive in condizioni di povertà e, in particolare, il 6,3% in condizioni povertà assoluta); quindi merita serie considerazioni per le quali - rassegniamoci - questo pre-elettorale non è, da noi, il tempo adatto.
Roma 21 gennaio 2018




sabato 20 gennaio 2018

Italica

Europa o morte!
(di Felice Celato)
Quant’è difficile tenersi estraneo dagli starnazzamenti pre-elettorali! Eppure, per adattare Vittorio Alfieri, vorrei, vorrei, fortissimamente vorrei. Ma non ci riesco! Un po’ – se vogliamo essere generosi con noi stessi – è la passione civile (indomita, nonostante tutto); un po’ è una certa propensione al sarcasmo che si pone sempre alla ricerca di spunti di pro-vocazione e che talora – lo riconosco – mi rende anche insopportabile; un po’ è un più garbato senso dell’umorismo, ancorché talora amaro, che sa di trovare sicuro pabulum nella lettura delle “opinioni” dei nostri politicanti: fatto sta che non riesco ad evitare nemmeno il semplice sfoglio dei giornali nostrani; e quindi vengo quotidianamente rifornito di spunti per quella miscela di sdegno, disperazione, amaro divertimento, fastidio e autentica preoccupazione che ogni giorno caratterizza la mia riluttante immersione nelle questioni italiche.
Oggi, però, non avrei di che lamentarmi: la maggior parte dei “nostri” fa mostra di aver finalmente compreso (mi si perdoni la banalità degna del peggiore di essi) “la centralità” del problema europeo per il nostro piccolo, stanco e malmesso paese. E dunque, io che nell’Europa credo come nostra dimensione naturale, inevitabile e desiderata, veramente dovrei compiacermi del recupero del nostro centro di gravità permanente  (dopo Alfieri citiamo anche Battiato, così nessuno potrà darci dello stantìo!).
Ma il fatto è che questa “centralità” politica viene propalata in due modi  radicalmente contrapposti ed entrambi (come ti sbagli?) poco rassicuranti: in partibus fidelium (cioè nell’ambito di quelli che si dovrebbero supporre autenticamente europeisti) con professioni di fede che sarebbero confortanti se non uscissero dalle bocche di coloro che fino a poche settimane fa, senza rendersi conto del male che facevano, non parlavano dell’Europa se non in termini antagonistici: noi, loro, vediamo che lettera ci fanno i burocrati di Bruxelles, batteremo i pugni sul tavolo, ci faremo sentire, ci hanno abbandonato, le regole europee sono stupide (evidentemente: anche quelle che abbiamo costituzionalizzato) etc.; in partibus infidelium (cioè nell’ambito di quelli che non hanno fatto mai mistero della loro euro-ostilità sovranista e rivendicativa) con insinceri proclami di dialogo cautamente fiducioso (se l’Europa non ci avrà ascoltato, allora – e solo allora – faremo, come extrema ratio il referendum sull’euro, l’idea è far valere il nostro peso contrattuale, l’Europa può salvarci dalla crisi sociale, etc) ma in realtà focalizzati sul consueto (almeno vocale) indipendentismo della spesa e monetarismo valligiano (perché non una moneta per ogni valle? O magari per ogni comune?).
Dunque, purtroppo, nihil sub sole novi, non ostante la ri-proclamata “centralità”. Dell’Europa abbiamo una visione strumentale (ci fa comodo riconoscerne a parole la storica necessità e persino la connotazione ideale), un’insofferenza sostanziale (ci fa scomodo immaginare una qualsiasi disciplina applicabile a noi stessi) e, infine, una percezione estranea (noi siamo noi e loro sono loro). Di qui, le scandalizzate reazioni ad un’osservazione del Commissario Moscovici (giustamente preoccupato dalla piega che possono prendere le cose in un paese non irrilevante per la patria comune e per di più altamente indebitato proprio nella moneta comune) ma anche – il che è ben più importante – l’inaffidabilità di quasi tutti gli ambigui proclami del presente.
Eppure non dovrebbe essere difficile agli Italiani comprendere che, nel mondo di oggi, con le masse economiche che sostengono produzione e consumi, con la pressione di dinamiche demografiche ormai chiarissime, l’alternativa è la stessa che Garibaldi poneva per Roma ai tempi della costruzione dell’Italia: o l’Europa o la morte. Ma non la morte eroica che Garibaldi prospettava alle Camicie Rosse; no, la nostra sarebbe morte per consunzione, per soffocamento, per isolamento, per inedia culturale. L’Europa è la nostra unica dimensione. Piaccia o non piaccia: a chi pensa che il piccolo mondo antico delle repubbliche marinare e degli antichi borghi turriti possa tornare ad avere senso; e a chi, a pensare, ha proprio rinunciato.
Roma 20 gennaio 2018