Europa o morte!
(di Felice Celato)
(di Felice Celato)
Quant’è difficile tenersi estraneo dagli starnazzamenti pre-elettorali!
Eppure, per adattare Vittorio Alfieri, vorrei,
vorrei, fortissimamente vorrei. Ma non ci riesco! Un po’ – se vogliamo
essere generosi con noi stessi – è la passione civile (indomita, nonostante
tutto); un po’ è una certa propensione al sarcasmo che si pone sempre alla
ricerca di spunti di pro-vocazione e che talora – lo riconosco – mi rende anche
insopportabile; un po’ è un più garbato senso dell’umorismo, ancorché talora
amaro, che sa di trovare sicuro pabulum
nella lettura delle “opinioni” dei nostri politicanti: fatto sta che non riesco
ad evitare nemmeno il semplice sfoglio dei giornali nostrani; e quindi vengo
quotidianamente rifornito di spunti per quella miscela di sdegno, disperazione,
amaro divertimento, fastidio e autentica preoccupazione che ogni giorno
caratterizza la mia riluttante immersione nelle questioni italiche.
Oggi, però, non avrei di che lamentarmi: la maggior parte dei
“nostri” fa mostra di aver finalmente compreso (mi si perdoni la banalità degna
del peggiore di essi) “la centralità” del problema europeo per il nostro
piccolo, stanco e malmesso paese. E dunque, io che nell’Europa credo come
nostra dimensione naturale, inevitabile e desiderata, veramente dovrei
compiacermi del recupero del nostro centro
di gravità permanente (dopo Alfieri
citiamo anche Battiato, così nessuno potrà darci dello stantìo!).
Ma il fatto è che questa “centralità” politica viene
propalata in due modi radicalmente
contrapposti ed entrambi (come ti sbagli?) poco rassicuranti: in partibus fidelium (cioè nell’ambito
di quelli che si dovrebbero supporre autenticamente europeisti) con professioni
di fede che sarebbero confortanti se non uscissero dalle bocche di coloro che
fino a poche settimane fa, senza rendersi conto del male che facevano, non
parlavano dell’Europa se non in termini antagonistici: noi, loro, vediamo che lettera ci fanno i burocrati di Bruxelles,
batteremo i pugni sul tavolo, ci faremo sentire, ci hanno abbandonato, le
regole europee sono stupide (evidentemente: anche quelle che abbiamo
costituzionalizzato) etc.; in partibus
infidelium (cioè nell’ambito di quelli che non hanno fatto mai mistero
della loro euro-ostilità sovranista e rivendicativa) con insinceri proclami di
dialogo cautamente fiducioso (se
l’Europa non ci avrà ascoltato, allora – e solo allora – faremo, come extrema ratio il referendum sull’euro, l’idea è far
valere il nostro peso contrattuale, l’Europa può salvarci dalla crisi sociale,
etc) ma in realtà focalizzati sul consueto (almeno vocale) indipendentismo
della spesa e monetarismo valligiano (perché non una moneta per ogni valle? O
magari per ogni comune?).
Dunque, purtroppo, nihil
sub sole novi, non ostante la ri-proclamata “centralità”. Dell’Europa
abbiamo una visione strumentale (ci fa comodo riconoscerne a parole la storica
necessità e persino la connotazione ideale), un’insofferenza sostanziale (ci fa
scomodo immaginare una qualsiasi disciplina applicabile a noi stessi) e,
infine, una percezione estranea (noi siamo noi e loro sono loro). Di qui, le
scandalizzate reazioni ad un’osservazione del Commissario Moscovici (giustamente
preoccupato dalla piega che possono prendere le cose in un paese non
irrilevante per la patria comune e per di più altamente indebitato proprio
nella moneta comune) ma anche – il che è ben più importante – l’inaffidabilità
di quasi tutti gli ambigui proclami del presente.
Eppure non dovrebbe essere difficile agli Italiani
comprendere che, nel mondo di oggi, con le masse economiche che sostengono
produzione e consumi, con la pressione di dinamiche demografiche ormai
chiarissime, l’alternativa è la stessa che Garibaldi poneva per Roma ai tempi
della costruzione dell’Italia: o l’Europa o la morte. Ma non la morte eroica
che Garibaldi prospettava alle Camicie Rosse; no, la nostra sarebbe morte per
consunzione, per soffocamento, per isolamento, per inedia culturale. L’Europa è
la nostra unica dimensione. Piaccia o non piaccia: a chi pensa che il piccolo
mondo antico delle repubbliche marinare e degli antichi borghi turriti possa
tornare ad avere senso; e a chi, a pensare, ha proprio rinunciato.
Roma 20 gennaio 2018
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