sabato 20 gennaio 2018

Italica

Europa o morte!
(di Felice Celato)
Quant’è difficile tenersi estraneo dagli starnazzamenti pre-elettorali! Eppure, per adattare Vittorio Alfieri, vorrei, vorrei, fortissimamente vorrei. Ma non ci riesco! Un po’ – se vogliamo essere generosi con noi stessi – è la passione civile (indomita, nonostante tutto); un po’ è una certa propensione al sarcasmo che si pone sempre alla ricerca di spunti di pro-vocazione e che talora – lo riconosco – mi rende anche insopportabile; un po’ è un più garbato senso dell’umorismo, ancorché talora amaro, che sa di trovare sicuro pabulum nella lettura delle “opinioni” dei nostri politicanti: fatto sta che non riesco ad evitare nemmeno il semplice sfoglio dei giornali nostrani; e quindi vengo quotidianamente rifornito di spunti per quella miscela di sdegno, disperazione, amaro divertimento, fastidio e autentica preoccupazione che ogni giorno caratterizza la mia riluttante immersione nelle questioni italiche.
Oggi, però, non avrei di che lamentarmi: la maggior parte dei “nostri” fa mostra di aver finalmente compreso (mi si perdoni la banalità degna del peggiore di essi) “la centralità” del problema europeo per il nostro piccolo, stanco e malmesso paese. E dunque, io che nell’Europa credo come nostra dimensione naturale, inevitabile e desiderata, veramente dovrei compiacermi del recupero del nostro centro di gravità permanente  (dopo Alfieri citiamo anche Battiato, così nessuno potrà darci dello stantìo!).
Ma il fatto è che questa “centralità” politica viene propalata in due modi  radicalmente contrapposti ed entrambi (come ti sbagli?) poco rassicuranti: in partibus fidelium (cioè nell’ambito di quelli che si dovrebbero supporre autenticamente europeisti) con professioni di fede che sarebbero confortanti se non uscissero dalle bocche di coloro che fino a poche settimane fa, senza rendersi conto del male che facevano, non parlavano dell’Europa se non in termini antagonistici: noi, loro, vediamo che lettera ci fanno i burocrati di Bruxelles, batteremo i pugni sul tavolo, ci faremo sentire, ci hanno abbandonato, le regole europee sono stupide (evidentemente: anche quelle che abbiamo costituzionalizzato) etc.; in partibus infidelium (cioè nell’ambito di quelli che non hanno fatto mai mistero della loro euro-ostilità sovranista e rivendicativa) con insinceri proclami di dialogo cautamente fiducioso (se l’Europa non ci avrà ascoltato, allora – e solo allora – faremo, come extrema ratio il referendum sull’euro, l’idea è far valere il nostro peso contrattuale, l’Europa può salvarci dalla crisi sociale, etc) ma in realtà focalizzati sul consueto (almeno vocale) indipendentismo della spesa e monetarismo valligiano (perché non una moneta per ogni valle? O magari per ogni comune?).
Dunque, purtroppo, nihil sub sole novi, non ostante la ri-proclamata “centralità”. Dell’Europa abbiamo una visione strumentale (ci fa comodo riconoscerne a parole la storica necessità e persino la connotazione ideale), un’insofferenza sostanziale (ci fa scomodo immaginare una qualsiasi disciplina applicabile a noi stessi) e, infine, una percezione estranea (noi siamo noi e loro sono loro). Di qui, le scandalizzate reazioni ad un’osservazione del Commissario Moscovici (giustamente preoccupato dalla piega che possono prendere le cose in un paese non irrilevante per la patria comune e per di più altamente indebitato proprio nella moneta comune) ma anche – il che è ben più importante – l’inaffidabilità di quasi tutti gli ambigui proclami del presente.
Eppure non dovrebbe essere difficile agli Italiani comprendere che, nel mondo di oggi, con le masse economiche che sostengono produzione e consumi, con la pressione di dinamiche demografiche ormai chiarissime, l’alternativa è la stessa che Garibaldi poneva per Roma ai tempi della costruzione dell’Italia: o l’Europa o la morte. Ma non la morte eroica che Garibaldi prospettava alle Camicie Rosse; no, la nostra sarebbe morte per consunzione, per soffocamento, per isolamento, per inedia culturale. L’Europa è la nostra unica dimensione. Piaccia o non piaccia: a chi pensa che il piccolo mondo antico delle repubbliche marinare e degli antichi borghi turriti possa tornare ad avere senso; e a chi, a pensare, ha proprio rinunciato.
Roma 20 gennaio 2018






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