sabato 25 gennaio 2020

Oltre la storia culinaria

Il mito delle origini
(di Felice Celato)
Mentre aspettiamo che si consumi fino alla feccia il noioso profluvio di parole, previsioni e sondaggi (siamo o no una sondocrazia?) sui risultati delle attesissime (e, pare, decisive per le sorti del mondo) elezioni regionali in Emilia-Romagna e Calabria, mi sono terapeuticamente immerso nella lettura di un breve saggio di Massimo Montanari (Il mito delle origini, Laterza, 2019), che segnalo all’attenzione di tutti i buongustai (materiali ed intellettuali).
Confesso che avevo sottovalutato questo libretto, regalatomi da un raffinato amico; e ciò a motivo del sottotitolo (Breve storia degli spaghetti al pomodoro) che mi aveva fatto pensare ad un piccolo trattato di storia della cucina. Invece – e l’ho scoperto, naturalmente, leggendolo – il delizioso libretto nasconde in sé, in realtà, un piccolo contributo di filosofia della storia costruito attraverso una dotta dissertazione sulla storia di questo cibo nazionale (che, manco a dirlo, “tutto il mondo ci invidia”).
Mi spiego meglio: la storia degli spaghetti al pomodoro (in sé interessantissima e di piacevole lettura) è solo la dimostrazione di un principio che faremmo bene – di questi tempi – ad avere tutti presente. Il principio è ben spiegato da una metafora (citata all'inizio del testo) di Marc Bloch, il grande storico francese di origine alsaziana, ebreo e resistente francese, fucilato dai tedeschi nel 1944: la quercia nasce dalla ghianda. Ma diventa quercia e tale rimane, solo se incontra condizioni d’ambiente favorevoli, che non dipendono più dall’embriologia. Fuor di metafora (qui cito direttamente Montanari): la parola chiave è: incontrare. Più numerosi e interessanti saranno stati gli incontri, più ricchi saranno i risultati, più forte e robusta la pianta. In questo modo essa avrà costruito la propria identità, che, come ogni prodotto della storia, è viva e mutevole….Radici e identità sono parole pericolose, da maneggiare con molta cura. Frequentemente le si vedono fraintese e confuse, mentre è importante distinguerle. Le radici abitano il passato: sulla linea del tempo…. stanno all’inizio, e nello spazio si allargano per trarre alimento da ogni fonte raggiungibile… All’altro capo della linea del tempo stanno le identità, che invece abitano il presente – un presente mobile, sempre teso a proiettarsi nel futuro diventando esso stesso passato [come non ricordare, qui, il sant’Agostino citato qualche giorno fa?] ….le identità sono un punto di arrivo: spazi mentali e materiali ben delimitati le caratterizzano, ma sempre instabili e mutevoli, come è proprio di tutto ciò che vive.
Bene. La piccola storia degli spaghetti al pomodoro (che si svolge fra molteplici territoriinnovazioni dislocate in epoche e luoghi diversi, non certo tutti italiani, ovviamente, prodotti antichi e medievali rivisitati dall’uso moderno e prodotti moderni conformati ad usi antichi), la piccola storia degli spaghetti al pomodoro, dicevo, dimostra chiaramente che l’identità non corrisponde alle radiciL’identità è ciò che siamo. Le radici non sono “ciò che eravamo” bensì gli incontri, gli scambi, gli incroci che hanno trasformato ciò che eravamo in ciò che siamo. E più andiamo a fondo nella ricerca delle origini, più le radici si allargano e si allontanano da noi – proprio come accade sotto le piante. Usando la metafora fino in fondo, scopriremo che le radici, spesso, sono gli altri. Cercare le origini di ciò che siamo sarà dunque un modo per incontrare gli altri. Gli altri che vivono in noi.
Ce n’è abbastanza, credo, per considerare questa piacevole lettura anche un percorso educativo – starei per dire, guardandomi attorno: rieducativo – di cui mi pare il main stream contemporaneo ha urgente bisogno. 
Ad ogni buon conto, posso assicurare, per esperienza diretta, che la decostruzione storica del piatto nazionale – anche se utilizzata per argomentare una riflessione sul senso delle radici, delle identità e delle origini – non turberà il piacere di concedersi, alla fine della lettura e rimosso ogni dietetico rimorso, un bel piatto di spaghetti al pomodoro (magari con peperoncino e basilico).
Roma 25 gennaio 2020

martedì 21 gennaio 2020

Stupi-diario onomaturgico

Parole storiche
(di Felice Celato)
Come tutti i lettori di questo blog hanno avuto modo di constatare, l’onomaturgia (cioè la “coniazione” di nuove parole, secondo una definizione per l’appunto “coniata” del grande linguista Bruno Migliorini) è una piccola manìa che mi diverte praticare non appena ne intravveda la possibilità (starei per dire: la necessità), sia sforzandomi di coniare nuove parole (di solito tratte da reminiscenze greche da vecchio liceale), sia impadronendomi di altre prelevate di peso da qualche lettura che mi ha appassionato. E così, su queste pagine, i miei venticinque lettori si saranno imbattuti nella statolatria, nell’oicofobia di Scrutoniana memoria, nella demolatria, nella demopatia, e persino nell’ aritsmofagia, etc; e magari ne avranno tratto motivo di sorriso, come, in fondo, è preciso intendimento del vostro onomaturgo dilettantesi.
A questa collezione di parole nuove (magari antiche per etimo) era sfuggito un termine “inventato” nientemeno che da Benedetto Croce, il grande filosofo abruzzese, padre nobile del liberalismo italiano (e, non solo per ciò, a me molto caro), per definire i gerarchi del partito fascista Italiano nel primo dopoguerra appena arrivati a conseguire “i pieni poteri”. L’ha riesumato l’altro giorno, questo efficacissimo termine Crociano, un colto corrispondente de Il Foglio (Michele Magno), applicandolo a certi sfascia-passato privi di ogni plausibile idea del futuro liberamente aleggianti in quel sottomondo che ci sforziamo di chiamare la politica Italiana. Il termine è onagrocrazia, cioè il potere degli asini, dal greco ònagros che vuol dire asino selvatico e crazìa che vuol dire, come ognun sa, potere. Diceva Croce (nel 1925): […] il pericolo, quello degli ignoranti che teorizzano, giudicano, sentenziano, che fanno scorrere fiumi di spropositi, che mettono in giro formule senza senso, che credono di possedere nella loro ignoranza stessa una miracolosa sapienza, lo conosciamo perché lo abbiamo sperimentato bene. Si è chiamato, nella sua forma più recente, “fascismo”. Io ho preferito denominarlo “onagrocrazia”.
Bene. Per nostra fortuna, i tempi sono diversi e di gerarchi alla caccia di pieni poteri – se non sbaglio – non ne abbiamo più, forse; però una qualche inquietudine, la definizione di onagrocrazia prodotta da Croce, me la suscita, non foss’altro per la descrizione che fa di coloro che gli suggerivano questa graffiante onomaturgia; una descrizione che ben si attaglia a certe “manifestazioni”  della “politica” di cui quotidianamente  ci “godiamo” i frutti succosi.
Ma mi conforta una constatazione: se nel 1925 gli onagrocrati ebbero modo di imporsi a forza di violenze ed intimidazioni, come potrebbero mai – ove ce ne fossero, ai nostri tempi, di aspiranti onagrocrati – imporsi, oggi, in un regime saldamente democratico, dove la sovranità appartiene al popolo (art 1 della Costituzione)?
Roma 21 gennaio 2020

P.S. Colgo (ingenuamente?) l’occasione per segnalare il libro di Michele Ainis (una raccolta di suoi articoli) edito da La nave di Teseo (2019) sotto il titolo, anch'esso onomaturgico, Demofollia


domenica 12 gennaio 2020

Una segnalazione condizionata

Il soccorso di Murakami
(di Felice Celato)
Ho già scritto di questo autore Giapponese, a me graditissimo, assunto come “terapia dal presente” (cfr. Letture eventualipost del 21 febbraio del 2019). Credo di aver ormai letto una larga parte di quanto, di Haruki Murakami, è stato tradotto e pubblicato in Italia (Einaudi); e credo  che leggerò, col tempo, tutta la restante parte. Ci torno sopra mentre sto finendo il primo e il secondo libro (riuniti in un unico volume) del corposo romanzo in tre libri intitolato 1Q84 (Einaudi 2015); ma il fatto è che – come appunto accennavo nel post appena citato – Murakami mi si conferma come uno straordinario supporto per chi vuole mentalmente evadere, in maniera non banale, dalla sequela di ciò che ci accade dintorno.
Insomma, tanto per aggiornare le condizioni che ne suggeriscono la lettura: se non ve ne frega niente dell’adorazione di un devoto ex Ministro degli Interni per i salumi e per il parmigiano; se non vi aspettate strategiche linee di politica estera dal nostro Ministro degli Esteri; se non vi curate dei tweets a getto continuo di politici, ex-politici e aspiranti nuovi politici; se dei transitori amori per il lavoro degli eredi della Regina Elisabetta ve ne cale ancor meno; se al Nuovo Umanesimo, debolmente ma dannosamente aleggiante su questa povera Italia, continuate a non attribuire alcun peso; se le presenze al prossimo Festival di Sanremo non suscitano la vostra attenzione; se delle ipotesi di revoca delle concessioni autostradali non vi interessa conoscere le quotidiane oscillazioni probabilistiche; se guardate alla rifondazione di qualche partito come l’eterna svolta verso la dissoluzione per carenza di vere idee (anzi, se vi augurate che sia “la svolta buona”); se le eterne diatribe fra leaders   e anti-leaders continuano a non catturare la vostra attenzione; se delle interessate autocelebrazioni di modelli regionali pensate di poter fare a meno; se, anzi,  da qualcuno o da tutti  questi temi da noi “dominanti” intendete  saldamente restar fuori, beh! allora – ve lo confermo –  Murakami è la lettura che fa per voi. In alternativa, in altri tempi, avrei suggerito di ancorarvi – magari leggendo solo la stampa estera – alla cronaca di come va il mondo al di fuori delle nostre valli, perché, tanto, solo da come va il mondo dipenderà il nostro domani, ché  noi non sappiamo, non dico maneggiarlo, ma nemmeno immaginarlo. Ma anche da qui, in questi tempi, non viene molto conforto, sia perché gli scenari (almeno quelli del mondo occidentale) sono tanto confusi da consigliare di non fare previsioni; sia perché, in fondo, a poco serve immaginarsi scenari, che sanno benissimo materializzarsi anche senza la nostra futile previsione.
Quindi torniamo a Murakami: per coloro che non si sono mai tuffati nella sua bulimica narrativa e prima che vi si avventurino, mi limito ad elencare quelle che mi paiono essere le sue caratteristiche fondamentali, per modo che i venticinque lettori di questo blog possano valutarne ex ante l’efficacia…terapeutica rapportata alla intensità della noia di ciascuno: Murakami scrive moltissimo, i suoi romanzi sono molto lunghi (questo che sto ultimando copre oltre 700 fittissime pagine e non so ancora quante ne coprirà il terzo libro) e richiedono, quindi, molte ore di lettura. Ma in nessuna delle sue tante pagine cade quella tensione che fa del romanziere un grande narratore; si legge a sazietà ma con grande piacere (anche quando elucubra su fantasiose metafisiche o su misteriosi intrecci di ricorrenze) e sempre col desiderio di capire come può andare a finire la vicenda narrata, sempreché ad una vera fine si arrivi. Le sue narrazioni sono costantemente sospese fra il surrealismo (il pensiero in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, diceva, mi pare, Breton) o quanto meno il paradosso estremo  di personaggi e di situazioni, e l’iperrealismo di certe minuziose narrazioni di ordinari particolari della vita d’ogni giorno (e anche, spesso, della sessualità) dei suoi personaggi, quasi sempre caratterizzati da personalità (e da storie personali)  complesse e solitarie. Ma più che le mie parole, secondo me, spiega un parallelo artistico: mettetevi davanti ad un quadro di Magritte, o se preferite di De Chirico o di Dalì: scenari distopici (o utopici) per una realtà nitidamente disegnata eppure avvolta di mistero, fatto di incongruità o di bizzarre sovrapposizioni fra il reale e l’immaginario. Ecco, questa, secondo me è la narrativa di  Murakami; per questo mi pare il comodo uscio che porta via dal reale, di cui si può avere bisogno in tempi di grave scontento. Del resto, basta chiudere il libro, e, se proprio ne avete nostalgia, il reale, col suo carico di nostrane banalità, torna subito… purtroppo.
Roma, 12 gennaio 2020

martedì 7 gennaio 2020

Le auscultazioni del C.U.R.

Macedonia scomposta
(di Felice Celato)
Quando il Camminatore Urbano non è Rimuginante (cosa che accade raramente, purtroppo), gli è inevitabile porre lo sguardo distratto sull’umanità urbana che lo circonda lungo le strade romane. Stimando grossolanamente, si potrebbe dire che poco meno della metà degli ignoti con-Camminatori (soprattutto i più giovani) tiene lo sguardo fisso sullo smartphone (a rischio di ignorare semafori ed ostacoli), digitando messaggi che atteggiano inevitabilmente il volto dei digitanti a seconda dell’umore che viene trasmesso (devo dire: fortunatamente gli atteggiamenti più diffusi appaiono tendenti al divertito); oppure (soprattutto i turisti) vivendo la città sulle mappe on-line
Più intrigante invece è la situazione dell’altra quasi metà dei con-Camminatori, quelli che, invece, usano la camminata per conversare, sempre al cellulare, con la stessa franchezza o confidenza con cui converserebbero a casa loro, come se la privacy dei loro discorsi - da casa-  costituisse una sgradita limitazione per le loro esibizioni vocali. Questi, inevitabilmente, lasciano al C.U.R. ognuno un frammento di comunicazione vocale (rivolta ad altri ignoti, ovviamente) del quale è più facile distillare l’umore, essendo di solito emesso con voci e toni non esitanti. Così, talora (ripeto: quando non penso ai fatti miei), mi viene istintivo tentare di comporli fra loro, questi frammenti di umanità vocale, per ricavarne una specie di tavolozza degli umori; ed è curioso osservare come, qualche volta, i frammenti sembrino volersi incastrare, l’uno con l’altro, come se si trattasse di un unico puzzle verbale.
Ecco un breve campione, tratto dai 10.000 passi odierni in città (il martedì non si gioca a golf, nemmeno se c’è bel tempo, perché il campo è chiuso).
La prima voce è quella di una donna di mezza età, dall’aria franca e vissuta, che, sul ponte Garibaldi (lato Trastevere), pone alla sua ignota interlocutrice questa inquietante domanda: “Ma tu lo ami così tanto da….” (e qui la voce si perde nel traffico, lasciando intendere un cinico dubbio sul senso profondo dell’amore); subentra però una voce maschile più robusta, dal marcato accento romano, che sembra voler paradossalmente completare il discorso: “vabbè, ma si è così, lo devi mannà…” (e qui, prima di perdersi anch’essa nel traffico, la voce erompe in un indirizzo tipicamente grillino).
Giunto sull’altro lato del ponte, un’anziana signora sembra quasi voler saggiamente placare la complessa diatriba scomposta (rubo il termine dalla moderna arte culinaria, che spesso scompone le ricette giustapponendone semplicemente gli ingredienti), elargendo una pillola di saggezza che – in ragione del semaforo – riesco a godermi cogliendone il senso quasi per intero: “ma, figlia mia, si sa, nella vita di coppia ci vuole capacità di sopportazione; sapessi tu, quante ne ho dovute ingoiare…” (scatta il semaforo verde per i pedoni e l’attraversamento del lungotevere allontana la saggia operatrice di pace).
Sulla via Arenula, le conversazioni si fanno più…business oriented: ”ma te l’ha messo per iscritto?” domanda un distinto signore uscito dal Ministero; quasi come un contrappunto, un anziano passante dall’aria paciosa lascia al suo interlocutore questo (ingenuo?) messaggio: “A Mario, qui tocca fa’ a fidasse…”. Passa un ragazzone nero che parla al telefono con voce alta e concitata, in una lingua non identificabile, apparentemente drammatica e a velocità pazzesca; però il supposto dramma si scioglie in una rumorosissima risata che disturba una signora, anch’essa fitta conversatrice; si arresta un po' irritata, guarda con commiserazione il ragazzone e commenta con il lontano interlocutore (evidentemente raggiunto anche lui dalla risata): “ma che ciavranno da ride, io noo so; sarà che io non ciò nessuna voja de ride”. Passa una ragazzetta che parla al telefono, evidentemente col padre: “papà, io a mamma non la sopporto più; lo so, nun lo devo dì a te ma….oddio! sta a arrivà l’8, te richiamo.”
E così via; così, per spezzoni, scorre la vita del popolo conversatore ambulante, sempre sommario, spesso perentorio, più raramente conciliante, talora autocompiaciuto. Mi viene un dubbio della memoria: ma com’erano noiosi i percorsi dei camminatori di vent’anni fa! Non avevamo nulla da dirci?
Roma 7 gennaio 2020


domenica 5 gennaio 2020

Numeri e anni

Il fluido presente
(di Felice Celato)
Anche per un cultore dei numeri e delle quantità, come (giustamente) si dice che io sia (un “datolatra” direbbe qualche mio amico), non è difficile ammettere che i numeri non dicono tutto; per esempio, delle qualità che si manifestano in ogni quantità: un uovo fresco non è come un uovo deposto quindici giorni prima o come un uovo sodo. 
Tornavo a rifletterci – chissà perché – giusto oggi, riandando con la mente al decorso del tempo; il passare degli anni mi fa balenare il senso ambiguo dei numeri coi quali lo misuriamo, pensando ai tanti passati e ai rimanenti dei quali non conosciamo, non solo la qualità, ma nemmeno il numero: non tutti gli anni, ancorché composti degli stessi giorni e delle stesse stagioni, sono uguali (o saranno uguali) gli uni agli altri, nel loro peso specifico, come la semplice numerazione del passato li farebbe apparire e come la nostra esperienza ci insegna. E – inevitabilmente – il pensiero di quella grandezza certa (i numeri degli anni trascorsi)  si mescola con la mia memoria di quelle qualità; e di quelle presenze che li hanno fatti belli (talora indimenticabili) o di quelle assenze che li hanno fatti brutti (talora indimenticabili): presenze di Dio nei miei pensieri, di affetti familiari immacolati, di amici cari, di salute fisica, di tante domande alle quali si è faticosamente trovata una – magari provvisoria – risposta, di soddisfazioni per il lavoro svolto; e assenze per le dipartite di alcuni fra i più cari, per le serenità perdute, per i travisamenti di cui abbiamo sofferto o per le ingiustizie subite, per le occasioni mancate, per le parole sbagliate o sprecate o anche solo, purtroppo, non dette quando si doveva. E se ciò accade per la memoria di una grandezza certa (i numeri degli anni trascorsi, appunto), ancor più accade per l’attesa di quella grandezza incerta che ci sta davanti e della quale non siamo naturalmente in grado di prevedere né l’estensione né, tantomeno,  la qualità. 
Per fortuna, per non sgomentarci del tempo, ci soccorre una vertiginosa riflessione di Sant’Agostino (Confessioni, XI) che ci riporta alla centralità del  presente ed alla stessa misteriosa fluidità di esso: [….] posso affermare con sicurezza di sapere che, se nulla trascorresse, non esisterebbe il tempo passato, e se nulla sopravvenisse, non esisterebbe il tempo futuro, e se nulla esistesse, non esisterebbe il tempo presente. Questi due tempi, dunque, il passato e il futuro, in che senso esistono, dal momento che il passato non c’è più e il futuro non c’è ancora? Quanto al presente, se fosse sempre presente e non diventasse passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, è tale solo nel momento in cui diventa passato, come possiamo anche di esso dire che esiste, quando la condizione del suo esistere è che non esisterà più, sì che non possiamo dire che si tratta realmente di tempo se non nella misura in cui tende al non essere?
Si potrà dire che tali elaborazioni mentali non servono a fugare l’ansia che il tempo produce; se non fosse che esse ci rimandano al Silenzioso Interlocutore del santo filosofo, al Padre Eterno nel grembo del quale è nato il flusso del tempo; sul quale scorrono incerte le nostre fragili barche.
Roma 5 gennaio 2020