mercoledì 29 dicembre 2021

L'ambiguo 2022

 Gattopardi o facitori?

(di Felice Celato)

Alla mia età non occorre sfogliare la raccolta di piccole riflessioni che, all’inizio di ogni anno, sono andato via via inanellando su queste “colonnine” per formularmi/ci una previsione/augurio per il tempo che viene; magari per raffrontarle con gli esiti che abbiamo poi toccato con mano. Basta già l’esperienza di una vita di ciascuno di noi, specie se …attempati e, magari, fideles, per sapere che il futuro è nelle mani di Dio. La vera ragione della speranza dell’umanità, diceva Benedetto XVI, è fondata non sugli improbabili pronostici di maghi o sulle previsioni economiche, pur importanti, ma sul fatto che la storia è abitata dalla Sapienza di Dio.

Però non riesco a sottrarmi al rischio di ri-provare anche quest’anno a guardare al futuro con gli occhi provvisoriamente smagati di chi crede di poter trarre dal passato gli auspici sui giorni che verranno, in base all’assunto (nel quale credo fermamente) che – salvo fatti eccezionali – ogni giorno costruiamo, da poveri uomini, i presupposti del futuro. 

Soprattutto quest’anno, il futuro prossimo mi pare gravato da una radicale ambivalenza. Il biennio pandemico che sta scorrendo sotto i nostri occhi crucciati aggiunge motivi di incertezza che solo qualche anno fa non avremmo nemmeno ipotizzato; ma da questi è prudente prescindere, come ha purtroppo dimostrato  l’imprevista complicazione dello scenario del contagio, quando il pericolo già ci pareva scemante. Mi limito perciò ad assumere come provvisoriamente affidabile una fra le tante previsioni di chi ne sa assai più di me, sulla evoluzione “normalizzata” della malattia, cioè sulla sua (lenta) trasformazione in qualcosa di permanente ma in forma poco distante da un’influenza magari particolarmente severa: in fondo – diceva qualcuno che non ricordo – è possibile auspicare che ‘sto virus si stanchi di saltabeccare, mutando fra le varie trappole vacciniche e terapeutiche che via via gli stiamo organizzando contro. 

E dunque, diamo un’occhiata al resto, cioè a tutto quello che abbiamo “apparecchiato” da soli, in questo tempo, per riabilitarci ad una sperata “normalità” del nostro vivere quotidiano (o forse solo per tornare a riadagiarci sulle inerzie che abbiamo sperimentato?).

Cominciamo con una cosa positiva: la pandemia, credo, ha fatto giustizia di ogni sciocca pretesa di autosufficienza. Da soli non viviamo, non esistiamo, non sopravvivremmo; né civilmente, né economicamente, né sanitariamente. La superficie terrestre non è mutata nel tempo; è invece aumentata a dismisura la nostra densità: i 150 milioni di Kmq di terraferma del nostro globo, solo 50 anni fa erano abitati da poco più della metà degli attuali quasi 8 miliardi di umani; più o meno da 26 umani per kmq a oltre 52! E questi 8 miliardi di umani addensati hanno imparato nel tempo a viaggiare, a incrociarsi, a scambiarsi idee, culture, prodotti e capitali ad un ritmo impressionante; anzi, dal punto di vista economico, anche articolandosi in supply chains sempre più interconnesse.

Anche quel non minuscolo sottoinsieme di umanità che è il nostro habitat di Europei (la nostra patria!) ha rafforzato via via, con sorpresa di molti, la coscienza della sua intrinseca interdipendenza, come ha dimostrato il balzo in avanti che la pandemia ha impresso ai meccanismi di solidarietà economica, spazzando via le futili pretese di indipendenza dei rispettivi destini (e anche qualche nostrano piagnucoloso vittimismo).

Lasciando da parte, per non aggravarci, qualche fondata preoccupazione di ordine geo-politico per le tendenze illiberali di alcuni scenari politici internazionali, è dunque ragionevole pensare  che il 2022 rechi con sé (almeno da noi) una più diffusa e radicata coscienza della nostra cittadinanza continentale e globale; un non piccolo progresso, per la verità, se solo si pone mente ad alcune ridicole istanze politiche (anche nostrane) di non lontani tempi pregressi. 

E tuttavia, almeno ai miei occhi, questo non piccolo progresso non basta a dissipare la percezione di instabilità dei nostri propri equilibri socio-politici, che esaspera la percezione di ambiguità dell’anno che viene: (#) le scadenze istituzionali, vissute anche con non infondate ansie di senso e, stavolta, particolarmente ricche di implicazioni intrecciate; (#) l’inconsistenza culturale di gran parte delle “proposte” politiche, ormai degradate a mero perseguimento di obbiettivi di breve consenso emotivo, avulso da ogni serio pensare di largo respiro (da questo punto di vista, la cachistocrazia rappresentativa cui ci siamo avvezzati ha dato i suoi frutti!);(#) le coerenze operative di cui necessitiamo  (per attuare i programmi che via via sottoscriviamo con grande clamore) e che da sempre non costituiscono il nostro forte! (#) la pretesa – di sapore gattopardesco – di “riformare” senza incidere su alcuno dei rispettivi “protettorati” di riferimento, come se affidassimo a chirurghi il compito di operare senza fare scorrere un po' di sangue. Tutto ciò induce un brivido  di precarietà delle volontà che ci sembra di percepire nella nostra agognata “resilienza”; e un dubbio angoscioso sulla strada che imboccheremo nei fatti nei mesi che ci aspettano. Per tornare all’inizio di questa mesta previsione affidandoci al Divino, è bene avere sempre presente che il divino si compie con la nostra collaborazione.

Roma 30 dicembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 20 dicembre 2021

Feste inclusive

 Ragionati auguri per “le festività

(di Felice Celato)

Pare che per essere “inclusivi” oggi sia bene esprimersi così: buone festività! Ma io che, evidentemente, non colgo a fondo questo concetto un po’ fatuo di inclusività, cercherò di distinguere (nel senso di discernere) il senso dei nostri auguri.

Dunque, anzitutto, un affettuoso Buon Natale a tutti i lettori di queste “colonnine”, siano – essi – cristiani e cattolici, come il sottoscritto augurante, o “laici” convinti (purché, perbacco!, inclusivisti): del resto la festa-madre di noi cristiani (festa dell’Incarnazione, cioè della venuta in terra del nostro Dio, uno e trino) è per sua natura inclusiva perché, in fondo, festa dell’umanità che un Dio Creatore (vero e vivo, come io penso e credo, o da noi stessi “creato”, come forse vogliono i più) riconosce meritevole, per grazia, di una Sua kenosis, di una Incarnazione del trascendente; destinataria cioè di una estrema com-passione, di una condivisione salvifica della sua natura creaturale, di una compartecipazione ai suoi destini, di una diretta rivelazione del divino espressa attraverso la  Sua coabitazione nell’esistenza degli uomini e nel mondo (et Verbum caro factum est et habitavit in nobis). 

Del resto, etsi Deus non daretur, se anche Dio non esistesse e fosse solo il frutto delle nostre angosce, come si potrebbe non apprezzare comunque che, chi in Lui crede, Lo proclama così vicino all’uomo dal volerne assumere le parti e la natura, per parlargli più da vicino e più da vicino rivelargli la sua dignità di creatura amatissima (ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo), la sua dignità di destinatario della Parola di Dio? 

Ma, si Deus est, quali parole potrebbero esprimere compiutamente la tenerezza del Suo disegno, sull’uomo e sui suoi destini? Io – fidelis senza mio merito – non saprei trovarle; solo sono certo di poterle sentire ponendomi, con apertura allo Spirito Santo (lumen cordium), davanti all’ingenua rappresentazione del presepio. 

Dunque, credo, davanti ad essa possiamo entrambi (fideles o laici “impenitenti”) sentirci almeno accomunati (cioè inclusi) nell’altissima dignità della nostra umanità che il Natale propone a ciascuno, credente o non credente, per mezzo di un bambino – sia esso il segno di un mito o di un vero Dio fattosi uomo – che chiede di essere accolto fra noi, di essere uno di noi. Di qui, l’augurio (inclusivissimo!), di avere costantemente presenti, TUTTI e FINO IN FONDO, almeno le responsabilità di questa dignità.

Veniamo allora alla seconda (e più problematica) parte delle imminenti festività: la fine dell’anno e l’inizio del nuovo: si direbbe la parte più laicamente festosa… delle festività, quella che meno presta il fianco al sospetto di essere non-inclusiva (a meno che non si vogliano considerare non-inclusivi, perché alcolici, i calici che inevitabilmente porteremo alle nostre labbra nel colmo della festa!). In fondo, quest’anno, come il precedente del resto, lascia poco spazio per il rimpianto di sé; e tutti, chi più chi meno, non abbiamo altro desiderio che vederlo chiudersi alle nostre spalle, con tutto il suo carico di dolori e di nuove ansie. Anche quest’anno tocchiamo con mano, però, quanto siamo venuti dicendo, da ultimo giusto un anno fa: ogni tempo che si chiude (sul calendario) trascina con sé, verso il futuro, il groviglio di conseguenze del recente vissuto, conseguenze che possono anche mutare il giudizio che diamo sul nostro passato e farci apprezzare come bene sopravvenuto ciò che ci era apparso solo come male; e viceversa. Dunque, ancora una volta, sarà il prossimo anno a dirci qualcosa di più dell’anno passato; occorre perciò una buona dose di ottimismo per poter credere che – pandemia a parte – abbiamo avuto, in fondo, un buon 2021. Di certo abbiamo avuto un anno di trepidazione, per le nostre condizioni di grave debolezza strutturale, per le possibilità che la solidarietà europea ci ha offerto, per la decisività delle occasioni che sembra mettere davanti a noi e che abbiamo forse intravvisto – stavolta –  con chiarezza, ma che dobbiamo ancora concretare nell’anno e negli anni che vengono, (ahinoi!) con coerenza di comportamenti, con spirito di sacrificio e con coraggio.

Al di sotto di questa “scossa” (che abbiamo subìto con indubbia volontà di reazione) leggiamo però, chiari, i sintomi di una perdurante sconnessione dei linguaggi e delle ottiche, delle aspettative e dei proclami su di esse; i sintomi di un insuperato sfarinamento dei livelli di coesione socio-politica, di un acquietamento del pensiero del nostro sistema  (copyright Censis 2021) che non può non tenere in apprensione. Personalmente ho difficoltà a credere che il 2022 veda la rimozione di questi gravami sociologici e culturali che impastoiano il nostro procedere; gravami che mi paiono, purtroppo, di radice compatta e di lunga deriva. 

Ma, nonostante tutto, il Natale ci impegna alla speranza; e perciò – inclusivo o non-inclusivo che possa apparire – continuo ad augurare a tutti e a ciascuno di assorbirne il senso, portandolo seco nel corso dell’anno 2022 che ci attende carico di possibilità.

Roma 20 dicembre 2021

 

 

mercoledì 15 dicembre 2021

Parole, parole, parole

 Il concetto di patriota

(di Felice Celato)

Sempre curioso di questioni linguistiche e lessicali, ho indugiato, in queste giornate sub-influenzali, sulla parola patriota, improvvisamente “risorta” (è proprio il caso di dirlo!) nel linguaggio politico come invocato requisito essenziale del futuro Presidente della Repubblica. Senza essere un filosofo della storia, ho proceduto nel ragionamento con il pedissequo metodo dei significati delle parole (le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in Palombella rossachi parla male, pensa male). 

Procediamo con tale metodo, dunque, e copiamo qui la definizione della sempre preziosa Treccani:


patrïòta (o patrïòtta) s. m. e f. (m. ant. patrïòto e patrïòtto) [dal lat. tardo patriota, gr. πατριτης, che ebbero soltanto il sign. 1; il sign. politico si è sviluppato sull’esempio del fr. patriote] (pl. m. -i). – 1. pop. Che è dello stesso paese, compatriota: siamo p.; un mio patriota2. Persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando o combattendo per essa: i pdel Risorgimentole persecuzioni dell’Austria contro i p.; essere un buon p., un paccanito. Durante la seconda guerra mondiale, furono così chiamati i partigiani, spec. nel primo periodo della lotta per la Resistenza.

 

Bene: escludendo che la politica abbia voluto riferirsi alla prima accezione della parola (sarebbe stato come dire che il prossimo Presidente della Repubblica debba essere un cittadino italiano, magari – spero – lasciando impregiudicata la questione delle sue eventuali radice etniche diverse), ragioniamo sulla seconda accezione.

Va da sé che la seconda accezione (persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando combattendo per essa) ha – ahinoi! – una connotazione relativa, cioè derivata dal decorso della storia e dagli esiti delle sue vicende: se, da un lato, come dice Treccani, durante la seconda guerra mondiale, furono così chiamati i partigiani, specialmente nel primo periodo della lotta per la Resistenza, non v’ha dubbio, dall’altro, che prima della seconda guerra mondiale potessero ascriversi senz'altro alla categoria dei patrioti anche Benito Mussolini, Alessandro Pavolini, Roberto Farinacci, etc.; e che, invece, subito dopo, appunto divenissero patrioti coloro che, per esempio, Mussolini l'avevano disprezzato e combattuto (non a caso il Presidente Pertini veniva giustamente definito il Presidente patriota).

Dunque il concetto di patriota è, di per sé, un concetto aleatorio; anzitutto perché dipende largamente dal concetto di patria; per esempio, per me convinto Europeista, Alcide De Gasperi fu un autentico grande patriota; ma, sempre per esempio, per un indipendentista sardo o siciliano, potevano ben esserlo Angelo Caria (fondatore di Sardigna Natzione) o Andrea Finocchiaro Aprile (presidente del Comitato per l'Indipendenza della Sicilia), entrambi nemmeno tanto remoti nel tempo, perché il secondo morì italiano nel 1964, ed il primo addirittura nel 1996, e sempre da italiano).

Poi la storia dimostra chiaramente come il giudizio sulla patriotticità di azioni od opinioni dipende dall'esito storico di quelle azioni od opinioni: il deputato socialista Tito Zaniboni o l’anarchico Anteo Zamboni sarebbero con ogni probabilità stati celebrati, già ai loro tempi, come insigni patrioti, se i loro attentati a Mussolini avessero avuto successo e, magari grazie a ciò, il fascismo non fosse diventato il regime che tanti lutti addusse agli italiani. Invece furono incarcerati o giustiziati a furor di popolo e per decenni additati come traditori della patria. Tutto ciò per dire una cosa forse, a sua volta, ovvia e immagino nemmeno ignorata da chi ha riesumato il termine: invocare un Presidente patriota (come, ho sentito dire, lo sarebbe Berlusconi e, solo forse, Draghi) è un puro ovvioma, cioè un'affermazione - magari destinata a creare ingenue suggestioni - che si presenta spontaneamente e facilmente al pensiero o all'immaginazione, come cosa naturale, ordinaria, evidente (cfr. sempre Treccani alla voce ovvio). Il Presidente della Repubblica non può che dover essere una persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando combattendo per essa e non si può che desiderare, da parte di ogni cittadino di buon senso, che anche il prossimo eligendo lo sia. Il senso di questo desiderio dipende però dal concetto che si abbia di patria (e, per la comprensione di tutti, sarebbe bene chiarirlo) e dall’ esito che avranno le sue azioni.

Roma 15 dicembre 2021

lunedì 13 dicembre 2021

Una segnalazione... faziosa

Inversionismi

(di Felice Celato)

Anche stavolta, una premessa sul titolo di questo post è necessaria. Il libro che sto segnalando (il romanzo sarcastico Lo scarafaggio, di Ian McEvan, Einaudi, 2019) reca una postfazione che mi ha entusiasmato e che spiega benissimo l’ispirazione del narratore inglese. Ian McEvan è un acceso dispregiatore della Brexit (e del suo araldo Boris Johnson): il più insulso, masochistico e inconcepibile proposito della storia del Regno Unito; con ciò incontrando pienamente il mio giudizio sul fatto (ormai la Brexit È un fatto, ancorché non ancora esplorato in tutte le sue ripercussioni, nel Regno Unito e in Europa) e sul suo folkloristico mentore.

La storia in sé sviluppa una sorta di contro-narrazione della famosa Metamorfosi di Franz Kafka, il cui protagonista (Gregor Samsa, un nome diventato un topos letterario), al risveglio da sogni irrequieti si ritrovò trasformato in un gigantesco insetto, uno scarafaggio, appunto. Nel romanzo di McEvan, invece, è uno scarafaggio che, svegliatosi da sogni inquieti, si trova trasformato in un uomo, anzi, addirittura nel Signor Primo Ministro. Da questa metamorfosi prende avvio la distopica vicenda (che si legge con piacere, anche per la relativa brevità del racconto, appena 100 pagine), sulla quale non è il caso di dilungarsi. Mi preme invece commentare brevemente che cosa, nel racconto di McEvan, costituisce la metafora della Brexit: una strampalata ideologia economica che Jim Sams, lo scarafaggio divenuto Primo Ministro, intende imporre al suo Paese ed al mondo: l’inversionismo. Si tratta, in sostanza, di invertire il flusso ordinario della circolazione della moneta: non saranno più i datori di lavoro a pagare i dipendenti, o i fornitori a ricevere moneta dai clienti in cambio della merce, o i locatori a ricevere le pigioni dai locatari, etc.; ma, con l’inversionismo, saranno i lavoratori a corrispondere un compenso ai datori di lavoro, in funzione della qualità del loro lavoro; però, a loro volta, i lavoratori riceveranno dai venditori un compenso per ogni cosa “acquistata” e – in tal modo – i lavoratori saranno incentivati a consumare quanto più possibile per “guadagnare” dal loro stesso consumo. E lo stesso in ogni rapporto economico a flusso invertito. Per tale via, naturalmente, sarebbe risolto anche il problema del bilancio statale: basterà che lo Stato assuma centinaia di migliaia di lavoratori per ricevere da questi i compensi dovuti al datore di lavoro! Il tutto ovviamente sostenuto da un’abbondantissima stampa di moneta (una specie di quantitative easing, come lo intende Jim Sams), per modo che – questo è l’argomento – i grandi magazzini si possano permettere i loro clienti ed i clienti si possano permettere i loro posti di lavoro. Questa magica formula, nel romanzo sviluppata in diverse sue implicazioni, quando viene applicata nei rapporti internazionali (per intenderci nel dare e nell’avere di importazioni ed esportazioni), viene motivata in maniera straordinariamente efficace: warum?, perché?, domanda la cancelliera tedesca che non vuole dover pagare per le esportazioni di auto tedesche; perché sì! risponde annebbiato Jim Sams.

Al di là dell’azzeccato e condiviso spunto polemico che ha mosso l’autore, il romanzo è assai godibile e ne raccomando la lettura. 

Ma, mi sorge un’angoscia: non sarà che questa idea dell’inversionismo possa affascinare, anche da noi, qualche strampalato politico (ne abbiamo tanti!) magari come sviluppo della bonus-mania che dilaga? O come soluzione, definitivamente stato-latrica, ai problemi dell’equilibrio del bilancio statale? O come vero ed efficace motore per il sostegno della domanda? O come superamento dell’odiosa tassazione? Sarà senz’altro un’angoscia esagerata; ma il fatto è che in materia di inversioni (di marcia, di senso, di logica) non ci facciamo mai mancare nulla (non è un caso se il Censis, quest’anno, ci ha etichettato come “la società irrazionale”).

Roma 13 dicembre 2021 (santa Lucia).

 

  

sabato 27 novembre 2021

Spigolature

Verso una dimensione locale del pessimismo

(di Felice Celato)

Per combattere gli “inevitabili” sintomi del booster vaccinale (a proposito: sto maturando la convinzione che, per finalità statistiche, a me vengano sempre iniettati dei placebo in luogo dei mai tanto benedetti vaccini, che i cattivoni di Big Pharma hanno posto, con tanta rapidità ed efficacia, a disposizione di questa confusa umanità: dopo tre dosi, mai un sintomo, nemmeno la pustoletta nel braccio porto all’iniettore!), per combattere gli “inevitabili” sintomi del booster vaccinale, dicevo, sto osservando qualche maggior indugio sulla poltrona delle mie letture. Ed eccomi qui a rendere conto di qualche spunto di oziosa riflessione che ho fatto tra un libro e l’altro.

 

Cominciamo da uno spunto visivo: credo di aver già detto – su queste “colonne” (meglio: colonnine) – che di fronte alla “poltrona delle mie letture” è appeso un grande quadro di stile caravaggesco che rappresenta un san Girolamo in preghiera (si tratta in realtà non di una pittura ma di una contemporanea stampa su tela di un giovane artista toscano – Andrea Angione - che, con tecniche in parte fotografiche e in parte pittoriche, ricrea suggestioni caravaggesche, secondo me di grande qualità). Bene: il santo autore della cosiddetta Vulgata (la traduzione in Latino della Bibbia), davanti alla sua monumentale opera (per intenderci: frutto di quasi 25 anni lavoro!), a mani giunte guarda oltre il libro  e leva i suoi occhi al cielo con gratitudine e trepidazione. Da qualche tempo, ogni volta che guardo gli occhi di san Girolamo mi vengono in mente un paio di versi di una ben nota preghiera medioevale allo Spirito Santo (Veni Sancte Spiritus): Sine Tuo numine, nihil est in homine, nihil est innoxium (Senza la Tua forza, nulla è nell'uomo, nulla senza colpa). Per motivi di congruità temporale (san Girolamo visse nel IV/V sec d.C. e il Veni Sancte Spiritus fu composto almeno 4 o 5 secoli dopo) escludo che il santo Traduttore avesse in mente questo verso; ma sicuramente aveva in mente questo concetto, desueto, forse, oggi; ma certamente perennemente prezioso, anche per l’uomo contemporaneo, spesso così orgoglioso delle “proprie” opere, eppure dubitoso della propria sorte.

 

Passo poi ad una curiosità, una dotta citazione da Cicerone, arrivata, tramite la Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino (!), nientemeno sulle pagine di un poliziesco, di quelli che si leggono in ebook e di notte – nel mio caso, a letto – per esorcizzare l’insonnia: si tratta del cosiddetto esametro di Cicerone, col quale il grande maestro di retorica classica detta i criteri da rispettare nello svolgimento di una composizione letteraria: Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando? (cioè: chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, in che modo, quando?). [Data la fonte – un poliziesco di pura evasione, anche se ben scritto (di Antonio Fusco, Ogni giorno ha il suo male, Giunti, 2014) – ho positivamente verificato, con i banali mezzi contemporanei, l’esattezza dei due riferimenti (San Tommaso e Cicerone)]. In pratica – e questo è uno snodo del poliziesco – Cicerone aveva dettato duemila anni fa i principi della chiarezza che noi siamo soliti attribuire alla anglosassone regola delle cinque W (who, where, what, when, why), solo saltuariamente praticata da molti cronisti nostrani.

 

Infine la segnalazione di una lettura seria (da poltrona o addirittura da scrivania) ma molto piacevole: del filosofo Maurizio Ferraris Post-Coronial Studies – Seicento sfumature di virus, Einaudi 2021, un libro estremamente colto e anche ironico e pungente: nelle 90 paginette (senza contare le quasi 40 di bibliografia!) il filosofo teoretico, dopo aver fatto strame delle molte, anche “dotte”, imbecillità messe in circolo dal trauma pandemico (negazionismo, minimalismo, complottismo, etc., e anche vittimismo tecnologico), proclama, in nome della nostra umanità, un inno all’ottimismo come dovere morale (perché se davvero noi fossimo convinti che nulla di tutto quello che facciamo migliori la sorte dell'umanità, o se addirittura fossimo convinti che ciò che facciamo non fa che peggiorarla,  allora dovremmo avere il coraggio di chiudere baracca e burattini, togliere il disturbo e spegnere la luce). Un ottimismo di respiro globale – come è forse proprio di un filosofo – non privo però di una concretezza ragionante che non ha nulla della Scrutoniana irresponsabilità. Non è il caso, qui (perché il libro va letto e goduto!), di riassumere i molti e spesso molto brillanti argomenti con cui Ferraris supporta il suo articolato, laico e civilissimo discorso; basterà dire che l’ho trovato percutant e mi sono sentito chiamato in causa come – per dirla con i miei amici – “diffusore di pessimismo”; tanto che ho deciso di auto-derubricare il mio “peccato” a pessimismo …localistico

Del resto, con buona pace del filosofo e per strade diverse, anche San Girolamo, dal suo quadro, mostra la strada del nostro sguardo.

Roma  27 novembre 2021

 

martedì 9 novembre 2021

Segnalazione "ottimista"

Il capitalismo buono

(di Felice Celato)

Su queste “colonne” l’ottimismo – specie in giorni piovosi – richiede coltivazioni attente (e forse anche qualche riga in eccesso per celebrare!), anche se, in fondo, come ci siamo già detti, ottimismo e pessimismo non sono altro che nomi inventati per esorcizzare la nostra insuperabile ignoranza del futuro. 

Però il libro che voglio segnalare oggi ai miei lettori (di Stefano Cingolani: Il capitalismo buono, Luiss University Press, 2020) indubbiamente palpita di ottimismo; un ottimismo poi – e questo lo rende ai miei occhi più prezioso – che “ideologicamente” viene da assai lontano, come documenta l’autore stesso, quando – al capitolo 10 – racconta delle lezioni apprese nel corso di un viaggio alla ricerca dell’Homo sovieticus nel “profondo” Nord della Siberia e a Tashkent (Uzbekistan) dove aveva sede una “fabbrica-modello” di macchine agricole (si era nel lontano 1977, l’autore era un giovane redattore dell’ Unità, il quotidiano del PCI, fondato da Antonio Gramsci, e, presumibilmente, il viaggio era anche autorizzato dal KGB!): la prima lezione riguarda l'Homo sovieticus, compresso in una gabbia soffocante e nello stesso tempo sgangherata; era come tutti gli altri uomini solo che viveva peggio dell'uomo occidentale. La seconda è che il comunismo non poteva funzionare perché aveva preteso di abolire il mercato e la proprietà privata affidando la regolazione sociale dello Stato allo stato guidato dal partito unico.

A distanza di quasi cinquant’anni da quel viaggio a Damasco, con tanta storia e tanta acqua passata sotto i ponti, con molte e importanti esperienze professionali accumulate (Cingolani è stato corrispondente del Corriere della sera da New York e da Parigi; oggi scrive su Il Foglio e su Linkiesta), l’autore sviluppa ed argomenta con molta passione i due concetti centrali del suo libro. Il primo: c’è davvero un’alternativa [alla globalizzazione]? Con ogni probabilità – si risponde Cingolani – no: digitale, finanza, energia, mobilità, salute, clima e riequilibrio delle risorse sono solo alcuni dei temi per loro natura globali e altrettanto cruciali nelle nostre vite; anzi, per certi aspetti, la pandemia ha dimostrato che il problema non è nato dalla troppa globalizzazione, ma dalla poca o, se vogliamo, parziale globalizzazione. E Giuseppe De Rita, che scrive un’affezionata prefazione al saggio di Cingolani, gli fa eco parlando di irrinunciabilità del grande fiume della globalizzazione (…un fiume potente e gonfio di energia, che ha invaso tutto il mondo e tutte le nostre vite, ….e che impone un adattamento continuo anche se non pienamente convinto. Si potrebbe definirla una “forza della natura” se non ci fosse in essa una grande quantità di tecnologia e di complessità organizzativa). Prende corpo così – sia nell’autore che nel prefatore – la sottolineatura della dimensione orizzontale di queste dinamiche profonde, in movimento continuo verso nuove filiere di creazione del valore basate su reti di cooperazione internazionale che valorizzino gli scambi fra diversi sistemi. Il secondo concetto: la natura proteiforme del capitalismo (il capitalismo è il moderno Proteo, l'unico sistema economico-sociale la cui sostanza è nel suo continuo mutamento) che gli consente di mutare pelle via via che le sue stesse crisi (vere o apparenti che siano) ne suggeriscono l’adattamento: Oggi la rivoluzione digitale propone un nuovo modo di lavorare e la pandemia lo ha reso addirittura indispensabile. E’ il mercato ….a generare le forze del cambiamento, quell'equilibrio mobile che lo rende propulsivo. Lo Stato può aiutare oppure ostacolare, ma non generare il nuovo, per sua stessa natura tende a proteggere e a conservare

Si fa strada così – conclude Cingolani riprendendo insieme i due concetti di cui sopra –, anche sulla spinta della crisi mondiale generata dalla pandemia, il cosiddetto “capitalismo buono” (digitale, verde e responsabile), sul paradigma generativo delle due P: purpose & profit … mentre tra le macerie della crisi più grave della storia moderna ….si affermano già nuovi bisogni e nuove priorità per le quali non esistono ricette nazionali o locali, che dir si voglia. 

Come dicevo all’inizio, questo saggio (scritto verso la metà dell’anno scorso), è un saggio “ottimista” (non a caso l’autore sottotitola il suo libro con una affermazione – Perché il mercato ci salverà – che, agli occhi maliziosi dei miei lettori, sembrerà arbitrariamente aggiunta da me). Ma l’ottimismo di Cingolani non ha nulla di ciò che Scruton definirebbe l’ottimismo irresponsabile; anzi è impregnato di realismo e di cautela (tutta la vita è risolvere problemi, non saremo mai padroni fino in fondo del nostro destino, avanziamo sempre verso l'ignoto e l'imprevisto); ma anche di tensione civile: La lotta tra la luce e le tenebre, l'ordine e il caos, mai finirà, tuttavia il treno per Armageddon non è ancora partito: sta a noi che finisca su un binario morto.

Roma  9 novembre 2021

 

 

domenica 7 novembre 2021

Segnalazione

Il campo di battaglia

(di Felice Celato)

Devo al bel libro di Maurizio Molinari (Il campo di battaglia – Perché il grande gioco passa per l’Italia, La Nave di Teseo, 2021) la razionalizzazione di un’intuizione che da qualche tempo mi balugina fra la testa e lo stomaco, quando, ogni mattina, scorro alcuni giornali per seguire – non senza affanno – le vicende politiche del nostro …strano paese. Con l’occhio e l’ampia visione che lo caratterizzano, l’autore delinea ed argomenta le ragioni per cui l’Italia si trova, dopo tanti anni di insignificanza internazionale, a vivere un’ambigua stagione di protagonismo. Le circostanze politiche (e la premiership di Mario Draghi è la più importante di queste) attribuiscono all’Italia un ruolo decisivo (l’epicentro di contese strategiche e rivalità economiche di vasta portata)ponendoci di fronte ad un bivio: il nostro Paese – scrive Molinari nell’introduzione al denso volume –  può guadagnarsi sul campo il ruolo di leadership, in Europa e in Occidente, nella sfida contro populismo, autocrazie e terrorismo oppure può far prevalere l'egoismo, richiudendosi in se stesso, facendo compromessi al ribasso con gli avversari interni ed esterni. Nel primo caso, coglieremo l'opportunità di essere protagonisti dei nuovi equilibri globali del secolo appena cominciato, nel secondo invece saremo destinati a sacrificare i nostri interessi nazionali a un futuro insulare, da spettatori passivi delle altrui mosse in Europa, Africa e nel Mediterraneo.

Non è il caso di provare qui a sintetizzare il vasto argomentare di Maurizio Molinari nei sette capitoli in cui sviluppa le sue tesi (dal crocevia della ricostruzione europea, al bilico del populismo, agli equilibri politici del Mediterraneo, alle connesse problematiche dell’immigrazione, al multilateralismo internazionale, etc); vorrei invece soffermarmi su uno di essi, quello sul quale: (a) più intensamente si appunta, a mio avviso, la bipolarità della partita che l’Italia è chiamata giuocare, senza – secondo me – averne diffusa percezione politica; (b) più diretta e “nazionale” è la responsabilità del successo cui l’Italia è chiamata e che l’Europa si attende, anche per sé stessa come “patria comune” (il motivo è – scrive Molinari – che l'Italia riceve la fetta maggiore dei fondi stanziati – 208 su 750 miliardi –  e senza il successo della sua ricostruzione sarà l'intera Unione europea a uscirne indebolita, sul fronte non solo finanziario ma anche di credibilità politica… Il rilancio dell'economia nazionale è la spina dorsale della ricostruzione. I 208 miliardi del Recovery Fund europeo sono le risorse a cui il governo ha iniziato ad attingere con una raffica di progetti, ma affinché questo strumento funzioni dovrà riuscire a traghettare il paese nella modernità ovvero: più infrastrutture per il territorio, più innovazione nelle imprese, più connettività per i cittadini. Per riuscire non basta volerlo, bisogna avere il coraggio di osare nell'identificare e aggredire ostacoli antichi ma ancora immanenti come burocrazia, corruzione, nepotismo e carenza di responsabilità.)

L’Italia – queste sono, naturalmente, le mie opinioni e la fonte delle mie maggiori preoccupazioni – ha una compagine di governo (ed una leadership personale del suo Presidente del Consiglio) più che adeguate alle ambizioni che è forzata ad avere; ma, a dispetto di ciò, ha anche una compagine parlamentare (e persino una composizione politica della coalizione al Governo) decisamente mediocre nell’orizzonte delle sue visioni e contraddittoria nelle sue più profonde determinazioni (il paradosso che Molinari sottolinea sta tutto in un Parlamento in gran parte anti-europeista che sostiene il premier più europeista di sempre). E forse – aggiungo io – lo stesso sottostante tessuto socio-politico del Paese non sembra preparato a sostenere le responsabilità di questa straordinaria contingenza. In fondo – basta leggere le cronache politiche per rendersene conto – in molti, nel Paese, nel Parlamento e (persino) nelle forze di Governo, guardano al presente come l’irripetibile momento per accedere ad una cornucopia di bonus, sostegni, facilitazioni, rinvii di tassazione, assunzioni statali massicce, rinvii di adeguamenti urgenti, pensionamenti precoci, etc.,  senza che nessuno debba preoccuparsi, né ora né in futuro, del “conto” netto da pagare.

Bene (per così dire): non è un caso che Molinari abbia intitolato il suo saggio Il campo di battaglia, pensando allo straordinario crocevia di occasioni e di interessi che l’Italia, per una serie di motivi e circostanze, si trova a costituire. Temo però che la prima – e più decisiva – vittoria da conseguire su questo campo sia quella su noi stessi; e per questo la vedo difficile (ancorché – ovviamente – non impossibile).

Roma, 7 novembre 2021 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

domenica 17 ottobre 2021

Una segnalazione difficile

Dalla parte di Jekyll

(di Felice Celato)

Cominciamo con una premessa: perché questa “segnalazione” (la parola “recensione” mi sembra sempre esagerata, quando mi affaccio a rendere conto di qualche lettura), perché – dicevo – questa “segnalazione” mi sembra difficile? Per diversi motivi: anzitutto perché mi pare già di sentire il borbottio di alcuni dei miei più affezionati lettori (potrei elencarli, uno per uno), solo all’enunciazione del titolo completo del libro di cui sto per parlare (Dalla parte di Jekyll – Manifesto per una buona destra, di Filippo Rossi, Marsilio editore, 2019); poi perché di solito sono diffidente verso le retoriche tipiche di ogni manifesto (la retorica porta spesso con sé una mancanza di concretezza); infine perché mi piace evitare discorsi troppo facilmente etichettabili come “politici” nel senso di indicatori di una specifica connotazione riconducibile agli attuali “partiti” che si affannano sulla scena italiana (sono sempre stato – politicamente –  un “cane sciolto”, o se volete un maverick, un vitello non marchiato, un elettore costantemente pentito di aver votato come ha di volta in volta votato, un eterno scontento di come vanno le cose, da una parte e dall’altra degli schieramenti parlamentari del nostro povero paese). Eppure mi va di segnalarlo questo piccolo libretto (140 pagine, in ebook), divorato in una notte ed un pomeriggio, dopo aver notato un articolo di questo autore – a me, lo confesso, finora sconosciuto – su uno dei giornali (l’ HuffPost) coi quali quotidianamente affatico le mie sconfortate letture di quel che accade intorno a noi. E mi va di segnalarlo perché in fondo il giovane autore mette in fila una serie di considerazioni che mi pare di condividere integralmente nella loro configurazione paradigmatica (senza rinunciare, peraltro, a qualche distinguo su concetti che mi disturbano o su parole che non mi piacciono).

Filippo Rossi si fa promotore di un’idea politica (che etichetta come la buona destra, di volta in volta definita come pacata, realista, raffinata, colta, sofisticata, signorile, garantista, altruista o addirittura eroica, rispettosa, equilibrata, laica, coraggiosa, valorosa, pulita, disarmatrice dell’odio, etc.) incentrata sulla tolleranza, sulla cultura come patrimonio di competenze e di immaginazione, sulla capacità di pensiero lungo e di progetti audaci, sul primato della politica e sulla libertà d’impresa, sul rifiuto radicale di ogni semplificazione di ciò che è naturalmente complesso, sul rispetto per le altrui opinioni non disgiunto dalla fermezza delle proprie, sul rifiuto di ogni volgarità del pensare prima che del parlare, sulla salda vocazione ad un'Europa votata all’integrale sviluppo delle sue progettualità anche meta-economiche, sulla passione per la diversità (che del resto è il costitutivo anche della nostra storia nazionale), sull’amore ed il rispetto per quanto c’è di buono nella nostra storia culturale e civile (è questo il concetto di patriottismo che usa, un patriottismo pacifico e libertario, per il quale la patria è un viaggio senza fine alla ricerca di possibilità inespresse, delle aspirazioni che prendono forma nell’altrove; …è madrepatria solo quando l’amore per i suoi figli non sottrae, non divide).

Gran parte di questi concetti sono sviluppati, come dicevo all’inizio, con  suggestiva retorica (qui intesa come arte del parlare e dello scrivere in modo ornato ed efficace, secondo la definizione che ne dà la Treccani) e anche con prosa elegante e piacevole, con abbondanza di citazioni, anche raffinate; ma soprattutto – ed è questo l’aspetto più… vigoroso del libro – con l’evidenza di quelle che l’autore considera le intollerabili inclinazioni delle nostrane "destre" attuali, qui simboleggiate da Mr. Hyde, il misterioso “antagonista” del famoso dottor Jekyll di letteraria memoria che dà il titolo al libro di Filippo Rossi: Mr Hyde rappresenta politicamente l'istinto spaventato e arrabbiato, il subconscio bestiale, incolto. Incapace di frenare gli istinti, Edward Hyde si nutre delle negazioni, della frustrazione, dei cattivi pensieri, dell'invidia. E, soprattutto, della paura. E’ proprio così che ci si inizia a chiudere in se stessi: praticando l'intolleranza come virtù, il razzismo come regola, la propaganda come linguaggio.

In sintesi: un libro senz’altro interessante e stimolante; non privo, secondo me, di qualche omissione (pochissimo si dice, per esempio, dell’economia vista dalla buona destra di Rossi) ma forse in grado di delineare almeno un paradigma valoriale che vale comunque la pena di proporre.

Roma 17 ottobre 2021

 

mercoledì 29 settembre 2021

I muti e i dinosauri

Il paradosso di Franceschino

(di Felice Celato)

L’altro giorno il mio nipotino di sette anni (Franceschino, appunto, grande appassionato di dinosauri), con l’aria furba di chi sa di dire qualcosa di paradossale, ci ha fatto questo “ragionamento”: i muti sono pericolosi! Al nostro stupore per tale apodittica affermazione, ha sciorinato la sua argomentazione: Sì, perché non potendo parlare, se devono dire qualcosa la scrivono; e per scriverla consumano fogli di carta; ma la carta si fa col legno, e così si distruggono gli alberi; e se gli alberi scompaiono, gli erbivori rimangono privi di foglie e muoiono di fame; ma se muoiono gli erbivori, anche i carnivori rimangono senza cibo! E’ così che sono scomparsi i dinosauri!

Beh! L’ilarità mia e di mia moglie è stata inevitabile (e anche Franceschino ne ha riso con noi, senza nascondere però la sua soddisfazione per il “rigoroso” filo del suo “ragionamento”).

Ripensandoci sopra, ho cercato di trarre dal suo “ragionamento” qualche riflessione. La prima è di natura pedagogica: anzitutto è chiaro che i nostri bambini sono bombardati, a scuola, di elementari concetti ecologistici; il che non è certo un male, a condizione che, nel tempo, tali concetti vengano doverosamente affinati; e - visto l’ambiente di questi tempi – la missione di nonni e genitori che si vogliano concettualmente attenti al significato di ciò che si dice, si fa carica di responsabilità. La seconda riflessione, invece, ha preso – per me, inevitabilmente – il filone sociologico; e contrasta, naturalmente e in modo radicale, il punto di partenza di Franceschino: ad essere pericolosi non sono i muti (spesso naturalmente più saggi dei parlanti); e non certo perché devono scrivere per dire la loro: la scrittura, infatti, aggiunge – o dovrebbe aggiungere, con buona pace dei twitt dilaganti –  tempo al fluire delle parole; e questa sarebbe una cosa di per sé altamente benefica (assumendo che ogni cinguettatore debba essere comunque titolare di una testa, ancorché appisolata sopra alla tastiera). Ad essere pericolosi sono invece i ciarlieri (cioè i parlanti che non hanno nulla da dire; l’abbondanza è, alle volte, l’unica risorsa di chi non ha niente da dire, diceva Rostand): nella vita quotidiana (perché innervosiscono); e in quella pubblica perché forniscono linfa vitale a quella cachistocrazia parlamentare che toglie respiro alla democrazia parlamentare, di costituzionale memoria. I rappresentanti del popolo – secondo una fortunata vulgata corrente – dovrebbero parlare (e perciò se ne sforzano) la lingua del popolo, praticandone – ahinoi! – spesso la misura e i sensi; col risultato che la “mediazione” politica diventa un inutile orpello e che la rincorsa a chi la dice più “popolare” diventa la cifra della vita politica.

Talora mi “diverto” ascoltando su Radio Radicale le dirette dalle aule parlamentari e spesso mi sorprendo della banalità, della convenzionalità, della vacuità delle opinioni che sento affermare con tanto vigore retorico (la parte autenticamente comica arriva quando vengono sciorinati numeri, con milioni e miliardi spesso confusi, o con percentuali delle quali talora è evidente la sconoscenza di numeratori e denominatori).

Per seguire, però, il filo del “ragionamento” di Franceschino (il "destino" dei dinosauri), devo immaginare che i suoi amati animali mesozoici – nell’edizione contemporanea – traggano molto vantaggio proprio dai ciarlieri (e non abbiano proprio nulla da temere dai muti). Non ci credete? Leggete attentamente le cronache “politiche” di questi giorni; e vi convincerete di quanti dinosauri circolino ancora in questo ciarliero paese. Se, invece, veramente avesse ragione Franceschino e i muti fossero veramente nocivi per i dinosauri, non ci sarebbe che da erigere loro un monumento!

Roma 29 settembre 2021 (compleanno di Franceschino)

domenica 19 settembre 2021

La "farmacia nazionale"

I leaders-pomata

(di Felice Celato)

E’ curioso come nel lessico familiare certe parole finiscano per assumere significati del tutto particolari, piegate ad un uso spesso ironico, qualche volta affettuoso, talora sarcastico ma sempre strettamente convenzionale; cioè destinato a “funzionare” come significante solo in ambiti molto ristretti, magari solo quello familiare.

E’ il caso di un’innocua paroletta di uso cosmetico o farmaceutico (pomata, appunto) che nel nostro lessico familiare (quello mio e della mia famiglia) ha finito per assumere il senso unguentoso di qualcosa o qualcuno banale (semisolido e per uso esterno, direbbe il Dizionario Treccani), dolciastro e accattivante ma appiccicoso e sostanzialmente assai poco efficace e semmai solo lenitivo e superficiale.

Se scavo nella memoria, la nascita di questo uso del tutto familiare risale alla mia esperienza di giovane capo-famiglia che, diligentemente, accompagnava i figli alla messa domenicale in un convento dove ricevevano la loro catechesi ecclesiale a cura di ottimi frati, anche svegli e simpatici; però, nelle feste più importanti, compariva sempre un Padre Superiore (bisogna dirlo: molto ben pettinato, anche per vistose insofferenze verso una non più incipiente calvizie!) che “erogava” omelie banali e dolciastre con un tono un po' appiccicoso che ci lasciava sempre addosso il senso di untuoso che emanava dalla sua …scarsa ma ben curata chioma. Ricordo così che una volta, nel recarci a messa in una qualche solennità, ebbi a chiedere a mia figlia se fosse prevista la predica di Padre…; lì per lì, non ricordandomene il nome, dissi di Padre Pomata. Tutti ne ridemmo; ma al povero Padre questo nomignolo rimase così appiccicato che finimmo per usarlo anche quando ne ricordavamo perfettamente il nome. Anzi, finimmo per estendere l’uso dell’affisso “pomata” ai tanti personaggi – non più e non solo di ambiente chiesastico – che, per vari motivi, ci sembravano meritare il nomignolo, talora anche vagamente vezzeggiativo.

Questa – forse buffa – accezione familiare della parola pomata non manca di suggerirmi irrispettose applicazioni anche quando osservo l’oratoria mediatica di alcuni nostri leaders politici, ossessionati dalla preoccupazione di erogare lenimenti ed unguenti al loro popolo e in generale al pubblico televisivo, che, stando agli stilemi della nostra cosiddetta comunicazione (specie se di Stato), sembrerebbe necessitarne. Per carità, talvolta l’unguento è magari destinato a suscitare effetti revulsivi (cioè a provocare afflussi sanguigni ai tessuti superficiali, anche suscitando irritazione locale); ma pur sempre di pomate si tratta, untuose e spesso maleodoranti, che spesso – come gran parte delle pomate appena applicate – se ne vanno con un accurato lavaggio, si tratti di mani, di volto o di altra parte del corpo (magari della testa!). 

Bene. Poiché ognuno di noi ha le sue idiosincrasie (anche politiche), non tenterò nemmeno (anche se avrei molte idee al riguardo!) di applicare nominativamente l’appellativo di leader-pomata a nessuno dei correnti (solo per dire attuali) leaders politici di questo paese che pure di cure urgenti e profonde ha bisogno, certamente non sostituibili con l' applicazione di semplici pomate, né lenitive né revulsive. Mi pare però che i leaders-pomata non manchino (direi anzi che abbondino); che i tubetti dei loro medicamenti ingombrino il bancone della nostra “farmacia nazionale”, spesso inscatolati senza risparmio di colori sgargianti e accompagnati da bugiardini (mai una parola mi è sembrata più adatta!)  che promettono mirabilia senza contro-indicazioni e che tacciono sugli effetti collaterali, magari suscitando – quando ce ne porge una scatola – lo sguardo ironico del farmacista che conosce malattie e cure (vere) per averle a lungo studiate. 

Forse non sarebbe male se ciascuno di noi (specie quando esercita la sua coscienza di cittadino), prima di affidarsi alle pomate (e ai loro "spacciatori"politici), sentisse un medico competente e soprattutto non pietoso, perché, come dicevano i nostri nonni, il medico pietoso fa la piaga verminosa (e noi di piaghe aperte ne abbiamo molte).

Roma, 19 settembre 2021 (Festa di San Gennaro)

 

 

sabato 11 settembre 2021

Ricordi

 11 settembre

(di Felice Celato)

In fondo, per nostra somma fortuna, noi nati nell’ultimo tratto della prima metà del secolo scorso, non abbiamo ricordo alcuno (né potremmo averlo) delle tragedie immani dell’ultima guerra; solo qualche racconto dei nostri genitori, che ascoltavamo con interesse e comprensione ma forse senza cogliere appieno il dramma del loro personale coinvolgimento (del resto i miei genitori avevano un certo pudore dei loro sentimenti e spesso si ritraevano sulla soglia di questi). 

Ma, come sempre, i ricordi di fatti non vissuti direttamente godono del beneficio del tempo passato senza ferite ancora aperte. Poi, per chi ha una visione religiosa della vita, soccorre il conforto della “memoria credente” (ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, Deut. 8,2), alla quale dovremmo più spesso rivolgerci quando consideriamo la nostra vita.

Eppure, quando – come accade ad una certa età – si va indietro col pensiero, non mancano i ricordi di come abbiamo vissuto l’attraversamento del nostro tempo, forse non affollato di tragedie immani (in fondo, è bene ricordarlo a tutti, il nostro mezzo secolo sta conoscendo una lunga fase di relativa pace, sconosciuta ai secoli scorsi, come si può facilmente costatare solo consultando le statistiche di OurWorldInData, al capitolo War and Peace), ma pur sempre segnata dalle follie della violenza di Caino.

Lungo questa linea, ricordo con diversa intensità (ma anche con diverso coinvolgimento) due diversi episodi che hanno segnato l’ultimo cinquantennio della mia vita con emozioni e patemi difficili da dimenticare (saranno gli omologhi dei ricordi di guerra dei nostri genitori?): il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e la tragedia delle Twin Towers (di cui, appunto, oggi ricorre il ventennale e di cui oggi faccio – anch’io – personale memoria).

Ricordo di averlo vissuto, l’evento delle Twin Towers, quasi in diretta, insieme a persone che, come me e in ragione della loro attività, avevano modo di sentire quei drammatici eventi come direttamente incidenti sulla loro vita pur se lontani nello spazio. Stavo ricevendo, in quel pomeriggio dell’11 settembre 2001, gli esponenti di una grande banca d'affari americana per discutere delle prospettive del settore di cui allora mi occupavo (il trasporto aereo), quando la mia straordinaria assistente entrò nella sala delle riunioni, col volto molto turbato; e – senza profferire parola – accese il televisore. Al mio sguardo stupito, Laura rispose: DEVE vedere, anzi DOVETE vedere.

Subito cominciarono a scorrere le terribili immagini che ormai tutti conosciamo, e sulla faccia di ciascuno di noi lo sgomento si fece drammatico pallore, incredulo e commosso. Il nostro mondo stava improvvisamente conoscendo una svolta di proporzioni gigantesche, una cesura storica ed economica di cui di lì a poco avremmo conosciuto gli effetti; immediati (per la banca americana si trattava di un attentato ai suoi propri gangli vitali) e di lungo periodo (per il trasporto aereo fu l’inizio della crisi più lunga e profonda della sua non lunghissima storia; l’aereo civile da strumento di progresso veniva trasformato improvvisamente in strumento di morte, i passeggeri usati come micidiali componenti di proiettili impazziti dall’uomo).

Oggi, i giornali ed i media in generale ricordano l’evento, oltre che ovviamente per il suo tragico death toll, per il suo significato geo-politico, significato non certo minore; ma, rievocarlo per l’incidenza diretta che ebbe sulla mia vita professionale, mi è venuto spontaneo; e dunque lo faccio con i miei tenaci lettori, certo della loro comprensione per questa “personalizzazione”, da persona – diranno i più giovani di essi – a dir poco anziana.

Roma 11 settembre 2021

 

 

 

giovedì 2 settembre 2021

Segnalazioni

Due letture parallele

(di Felice Celato)

Intense letture hanno accompagnato questi ultimi giorni fra fine agosto ed inizio settembre; a parte la gestione di qualche baruffa polemica fra amici [che costituiscono il sale benedetto di questa mia prima (?) – direi: pensosa (?) – vecchiaia] sono stato assai preso da due volumi sullo stesso argomento e diversi fra loro ma entrambi certamente non tranquillizzanti. 

[Visto che si tratta di due segnalazioni, mi prenderò qualche libertà sul limite delle 750 parole che ho (quasi) sempre rispettato]. 

Il primo: di Anne Applebaum, Il tramonto della democrazia – Il fallimento della politica ed il fascino dell’autoritarismo (Mondadori 2021).  Si tratta di un saggio intenso ed informato, scritto da una giornalista e  saggista statunitense naturalizzata polacca che svolge un’ampia ed assai interessante rassegna dei sintomi della crisi profonda delle democrazie, muovendo da quelle dell’Europa orientale (Polonia ed Ungheria), per giungere infine a quella statunitense, passando per il Regno Unito della Brexit, per la Spagna di Vox, etc. La tesi di fondo  mette in evidenza come alle Grandi Bugie del XX secolo (le grandi costruzioni ideologiche del comunismo e del fascismo) siano succedute – nel pavimentare la strada agli autoritarismi – le Bugie di Media Grandezza (la realtà alternativa sviluppata organicamente…spesso costruita con cura, con l’aiuto delle moderne tecniche di marketing, della segmentazione del pubblico e di campagne sui social media); e ciò, per fare della rabbia un’abitudine e della divisività la normalità, per modo che la polarizzazione venga trasferita dal mondo on-line alla realtà…Il mezzo, il veicolo potente di tale canalizzazione verso la pubblica opinione delle Bugie di Media Grandezza, è ovviamente l’on-line… dove nessuno è costretto ad assumersi la responsabilità di ciò che dice… dove l'ironia, la parodia e meme cinici vengono posti a disposizione della cosiddetta pubblica opinione, per “informarsi” e, allo stesso tempo, divertirsi. Il disarmonico stridore che caratterizza la politica moderna; gli accessi d'ira a cui si assiste sulle televisioni via cavo e al telegiornale della sera; il ritmo veloce dei social media; i titoli dei giornali che, a scorrerli, cozzano l'uno contro l'altro; l'esasperante lentezza, al contrario, di burocrazia e tribunali: tutto ciò ha snervato quella parte della popolazione che predilige (o si è convinta di prediligere) l'unità e l'omogeneità. La democrazia è sempre stata chiassosa e turbolenta, ma quando le sue regole vengono seguite finisce per creare consenso. Il dibattito moderno no. Esso, invece, suscita in alcuni il desiderio di tacitare a forza gli altri.

Il secondo, invece, è un corposo saggio, più strutturato dal punto di vista concettuale ma non meno preoccupante (ancorché prevalentemente “ambientato” nella democrazia statunitense): si tratta del volume di Tom Nichols (autore già segnalato su queste pagine in Letture, del 14 12 2018, per l’ottimo saggio su La conoscenza e i suoi nemici, Luiss press, 2018) intitolato Our own worst enemy – The assault from within on modern democracy (Oxford University Press, 2021, disponibile in e-book, per ora in lingua originale). In esso l’autore, un brillante saggista ed accademico statunitense, svolge un’analisi disarmante e appassionata…. sui “tumori” che, dall’interno, corrodono l’organismo democratico (nel senso della liberal democracy), un organismo (a durable edifice of institutions) che esige l’esercizio di squisite virtù civiche (tolleranza, fiducia  nei diritti individuali, senso del responsabilità, spirito di sacrificio di ogni personale egoismo, cooperazione, etc); virtù civiche che a loro volta rimandano ad un complesso di virtù personali senza le quali nessuna forma di governo può assicurare libertà e benessere per tutti: in the modern democracies …. that edifice is now being washed away by the citizens themselves, as civic virtue drowns in narcissism, anger… resentment… choleric nostalgia.

Sono questi (narcisismo pandemico, rabbia, risentimento e confusa nostalgia di un passato immaginato come migliore del presente) i “nemici interni” della democrazia: when an entire population slides after years of peace and plenty into narcissism and resentment and entertains itself with comforting lies about the past in order to avoid the responsibilities of the present, the political environment sinks into a corrosive slurry that eats away at the foundations of democracy.

Fin qui le sconfortate analisi di contesto dei due autori, largamente sovrapponibili ancorché basate su campi di osservazione parzialmente diversi, argomentate diversamente  e “accentate” diversamente (la Applebaum sottolinea forse di più la maliziosa manipolabilità e Nichols la naturale endemicità dei fenomeni osservati). In entrambe, tuttavia, (come sopra visto per la Applebaum) i media (nella loro odierna indomabile ed indiscreta iper-connettività senza mediazione critica) svolgono un ruolo decisivo: Our ability to communicate instantly, anonymously, and without reflection has immortalized moments of stupidity …..that in an earlier time would have rightly gone unnoticed, scrive Nichols; …the sheer size of our interaction with the virtual world, and the speed with which that world has enveloped all of us, has created a vast and yet lonely space, where we are both too connected and too isolated at the same time.

Sui rimedi anche, i due autori diversamente convergono: la resistenza liberale, sinteticamente invocata da Applebaum, diventa, in Nichols, una più articolata proposta che si può anche condividere solo in parte ma che, in fondo, si richiama ai valori fondamentali di una democrazia liberale, senza nascondersi la difficoltà del percorso di riscoperta ma sottolineandone la decisiva inevitabilità.

Concludendo: due letture interessanti, urticanti e certo non confortanti, anche per noi, specie se si applicano questi scenari internazionali a quelli italiani che osserviamo ogni giorno. Consiglio ai miei asincroni corrispondenti la lettura di almeno uno dei due volumi (entrambi gradevoli nello stile dell’esposizione); il primo soprattutto per la ricchezza degli aggiornamenti su realtà politiche forse meno note (almeno a me) ma non lontane dalle nostre (non solo geograficamente!); il secondo (in ottobre la Luiss Press ne farà uscire la traduzione italiana) per la ricchezza e l’estensione delle argomentazioni.

Roma, 2 settembre 2021.

domenica 22 agosto 2021

Sui giornali d'agosto

 Nostalgia dei virologi

(di Felice Celato)

In questo (sotto molti profili) caldissimo periodo agostano ho sentito una grande nostalgia dei virologi. Mi ero così tanto abituato a leggere ogni giorno una nuova provvisoria profezia ed una confusa rivendicazione di quelle già fatte, che vedere i virologi soppiantati – sulle pagine dei giornali – dagli afganistologi e dai geopolitical strategists mi è quasi dispiaciuto. Ma, come dicevano i romani, majora premunt.

Nella congerie delle analisi sui fatti afgani, mi ha colpito particolarmente l’attenzione dedicata alla questione - tutto sommato laterale - dell’esportabilità (o della inesportabilità) della democrazia, quasi come se tutte le guerre (grandi o piccole) in cui l’Occidente si è coinvolto negli ultimi 30 anni fossero state motivate dal tentativo di, appunto, esportare la democrazia; insomma una sorta di marketing istituzionale dimentico di ogni altro e più complesso contesto. Quasi come se – per andare a qualche decennio prima – le motivazioni della II guerra mondiale fossero state quelle di insediare (o re-insediare) la democrazia in Germania o in Italia e non piuttosto la necessità di fronteggiare la folle aggressività nazi-fascista.

Allora sono andato a ripercorrere alcune fra le (non recenti e non abbondanti) letture nelle quali il tema è stato direttamente affrontato o almeno indirettamente implicato; cito in particolare il (più volte lodatissimo) volume di Fareed Zakaria The future of freedom – Liberal democracy at home and abroad (del 2003) e il poco noto Esportare la democrazia - State-building e ordine mondiale nel XXI secolo (del 2004) di Francis Fukuyama.

Senza essere uno specialista della materia, ho maturato queste personalissime (e quindi più che mai discutibili) opinioni che mi hanno aiutato almeno ad inquadrare il tema (e anche a convincermi della confusione che regna nelle opinioni che si leggono su molti giornali).

Prima di tutto farei una distinzione lessicale: quando si afferma che la democrazia non si esporta, a quale accezione della democrazia ci si riferisce? Alla democrazia funzionale (in buona sostanza al suffragio universale) o – per dirla con Zakaria - al costituzionalismo liberale (in buona sostanza al sistema valoriale che ha a che fare con i diritti liberali, il vero succo della democrazia: rule of law, limitazioni del potere, libertà individuali, economiche, politiche, religiose, di pensiero, di parola, eguaglianza di fronte alla legge, etc.)?

Capisco che solo l’uso della parola liberale possa turbare le “menti” di molti dei nostri politicanti (specie se geneticamente ossessionati dalla ricerca del consenso), ma credo che nemmeno a loro dovrebbe sfuggire che l’esportazione della sola democrazia funzionale – ove fosse la motivazione vera di tanti dei recenti eventi guerreschi e non un loro sottoprodotto forse propagandisticamente fascinoso – sarebbe un esercizio vacuo ed anzi, in sé, potenzialmente dannoso: sarebbe cioè l’applicazione di un metodo (di selezione della classe dirigente) senza alcun riferimento ad un fine (quello, appunto, liberale, come sopra molto sommariamente declinato); un po' come applicare il metodo del pedalare senza poter controllare il manubrio della bici: si pedala (e può anche far bene) ma non si sa in quale direzione.

Poi c’è la questione dei pilastri dello stato (su questo Fukuyama si diffonde ampiamente): le funzionalità economiche e quelle della pubblica amministrazione, la struttura (accentrata o decentrata) di questa, l’autonomia della amministrazione della giustizia, il sistema fiscale e quello di welfare, etc..

Senza questi pilastri lo stato – liberale nei fini e democratico nei mezzi – facilmente vacilla; e né il costituzionalismo democratico né – tantomeno – la democrazia funzionale diverrebbero efficaci (senza por mano alla solidità di almeno alcuni di questi pilastri, nei tempi che una riforma dello stato può implicare).

Dunque, per non dilungarmi troppo, mi parrebbe di poter dire che la democrazia che l’Occidente potrebbe anche aspirare ad esportare (o che ha concretamente aspirato ad esportare nel contesto di altre – e più cogenti – ragioni per l’uso della forza) non è certamente quello della sola democrazia funzionale. Ciò che – a mio debole parere – l’Occidente non solo potrebbe ma dovrebbe porre a base del suo ….marketing istituzionale è la grandezza dei valori liberali che costituiscono il fine della democrazia (e rispetto ai quali la democrazia funzionale è un semplice metodo, da solo assolutamente cieco, almeno nel breve e medio termine). E lo dovrebbe perché l’Occidente avrebbe ragione di essere orgoglioso di tali valori che, a partire dalla rivoluzione del Cristianesimo (che Fareed Zakaria pone all’origine della storia della libertà), hanno fatto sviluppare, pur in mezzo a tante cadute, la sua civiltà.

Che poi il metodo di questo marketing istituzionale (e valoriale) non possa né debba essere quello delle armi è cosa che nessuna persona di minimo buon senso potrebbe negare. Ma  – come dicevo e checché possa essere anche stato detto a supporto di interventi militari – non credo che il marketing istituzionale (e men che meno valoriale) sia mai stato il vero fine del ricorso alla forza (che talora, non dimentichiamolo, può di fatto risultare inevitabile).

Roma 21 agosto 2021

 

 


 

domenica 8 agosto 2021

Emozioni estive

 La messa di Neghelli

(di Felice Celato)

Oggi, essendo domenica ed avendone – grazie a Dio – l’abitudine, ho partecipato ad una Messa…. in provincia. Dopo forse un anno continuato (complice il Covid ma anche una certa senile odofobia, il fastidio per i viaggi, Reiseangst, credo direbbe Freud), dopo forse un anno continuato, dicevo, di solenni Messe nella magnifica Chiesa Romana del Gesù (con tutto il contorno solenne, misurato, curato e colto dell’ambiente Gesuita) ho partecipato ad una messa…in provincia, a Neghelli, piccolo sobborgo di Orbetello, piccolo paese (una volta di pescatori, oggi forse prevalentemente di operatori del turismo) sulla laguna di fronte al Monte Argentario. Il “contorno” qui non poteva essere più diverso da quello per me abituale da quasi un ventennio. Una chiesa moderna, direi semplice e quasi spoglia; un ambiente umano assai differente da quello “colto” e forse “borghese” (o, se si vuole, “radical chic”) dei “clienti dei Gesuiti” (ironico o forse sarcastico copyright di matrice gesuita, naturalmente), che confluiscono ogni domenica al centro per ascoltare il predicatore – diciamo – “famoso” e, comunque, sempre interessante (anche quando fustiga con furia i fedeli); un “pretino” giovane (non credo abbia 30 anni!); una predica breve e sensata (un solo concetto nient’affatto banale: il miracolo come forma quotidiana della “conoscenza” di Dio); un uditorio piccolo (una quarantina di persone), tutto di residenti (io e mia moglie eravamo forse gli unici “ospiti” della comunità locale); un piccolo coro (due uomini e due donne, bravissimi!); tante comunioni quanti erano i fedeli.

La Messa, come sa bene ogni pio cattolico, è la stessa – nel suo significato intrinseco – ovunque la si partecipi; ma la messa di Neghelli sul finire mi ha lasciato un’emozione particolare, forse “scandalosa” se giudicata secondo correnti (e talora interessate) vulgate: la Chiesa c’è! C’è, forse di nuovo pusillus grex di fronte allo Zeitgeist, frammezzo al suo popolo, col suo eterno messaggio (al riparo dalle mode dei tempi, più piccola e nascosta di un tempo ma non meno “fedele”), con la sua capacità di parlare ai milieux sociologici più diversi, con messaggi profondi, con sensi perenni e preziosi per tutti, sottratti alla “logica democratica” dei numeri ed ascritti all’ “economia della salvezza”!

Confesso che – se è consentito così esprimersi – la Messa di Neghelli mi è stata emozionalmente “utile”; mi ha consolato e sottratto alle mie meditazioni sconfortate di questi tempi: pensate che – complice una ennesima rilettura di un paio di libri del “ciclo americano” di Isaac B. Singer, Ombre sull’Hudson e Anime perdute – mi ero abbandonato alla ruminazione di un noto “aforisma” di Kant: “dal legno storto di cui è fatto l’uomo non si può fabbricare nulla che sia veramente dritto”; concetto forse “triste”, specie se misurato sulla scala dei nostri orgogli di specie, ma in fondo non molto lontano da quello incastonato al centro di un antico inno allo Spirito Santo: sine Tuo numine, nihil est in homine, nihil est innoxium

E – se posso esprimermi così in un “luogo” anche minimamente mediatico ma frequentato anche da “laici” – lo Spirito Santo mi è parso presente nella chiesa di Neghelli, in una piccola comunità di fedeli di un piccolo paese della Maremma, a ricordarci che senza di Lui non possiamo fare nulla (o, per venire alle mie ruminazioni, senza di Lui possiamo solo fare il nulla, come è del resto naturale per il legno storto della nostra umanità). 

Orbetello, 8 agosto 2021, san Domenico Guzman