domenica 26 febbraio 2012

Segnalazione

Ancora sui Confini
(di Felice Celato)


In poco meno di un anno (circa 10 mesi), questo blog è stato visitato circa 3.000 volte (i dati sono forniti da un'apposito tool di Blogspot, il nostro provider del servizio); che sono un risultato molto sorprendente, data la natura del blog, destinato, più che ad altro, alla conversazione, quasi privata, tra i pochi amici (e magari parenti) coi quali mi fa piacere scambiare un'opinione o una sensazione, per mantenere un contatto intellettuale e spirituale che, altrimenti, rischierebbe di sfuggirci dalle mani come la sabbia delle banalità quotidiane. Mi ha colpito però notare che, di queste 3.000 "visite", ben circa il 10% (285, per la precisione) ha avuto ad oggetto il tema confini/frontiere, di cui ad un post (dallo stesso titolo: Confini/frontiere) del 19 aprile 2011.
Bene. L'osservazione, che mi fa molto piacere perché il tema è uno dei miei topos preferiti, mi induce a segnalare agli appassionati una suggestiva lettura sul tema, che ho avuto la ventura di fare (o forse rifare) proprio in questi giorni: si tratta di una novella di quello straordinario, grande scrittore italiano che fu Dino Buzzati, I sette messaggeri, inclusa nella raccolta La boutique del mistero (Oscar Mondadori) di cui raccomando vivamente la lettura ai cultori della buona letteratura surreale, metafisica, inquietante. Qui l'arcano del confine si dissolve in una specie di gioco matematico che vira verso l'irraggiungibile, quasi come se il confine non fosse altro che l'ipotesi di uomini angosciati dalla percezione dell'infinito.
"Vado notando - e non l'ho ancora confidato a nessuno - (scrive l'io narrante della novella, partito alla inane ricerca dei confini del regno del re suo padre), vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l'improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di un'essenza diversa da quella nostrana e l'aria rechi presagi che non so dire. Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando...."
Una lettura per chi ama pensare  all'indefinibile ambiguità dei confini.


Roma, 26 febbraio 2012

venerdì 24 febbraio 2012

Stupi-diario divertito


Passeggiata surrealista
(di Felice Celato)
Oggi lo stupi-diario è all’insegna di un divertito stupore surrealista.
Sarà stata l’atmosfera del venerdì pomeriggio (un moderno succedaneo del sabato di Leopardiana memoria) o l’aria di una precoce primavera (io sono molto meteo-sensibile) o il gusto di un ottimo mezzo toscano fumato con lentezza all’ora di pranzo ma è certo che oggi ero proprio ben disposto a guardare il mondo con occhi divertiti.
E piazza di Spagna, meravigliosamente assolata, me ne ha dato diversi spunti: la scalinata e la piazza stessa erano affollate di turisti incantati dalla bellezza del contorno architettonico e di yuppies in pausa pranzo, tutti tirati nei loro gessati di rigore.
Improvvisamente dall’alto della scalinata, vedo scendere, facendosi largo fra i cultori del bel sole di quasi primavera, due alti guerrieri romani coi loro cimieri rossi, il gladio al fianco e la corazza di cuoio allacciata. Il contrasto con l’ambiente avrebbe già di per sé fatto la gioia di André Breton, il teorico del surrealismo ( “un dettato del pensiero, senza alcun controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”); ma il massimo del surreale si è palesato poco dopo, quando ho notato che i due legionari , fattisi largo fra la folla, trascinavano, fra l’indifferenza di quanti sedevano sugli scalini, ciascuno un modernissimo trolley, quelle valigie da globe trotters tanto comuni nei nostri aeroporti.
Ma gli incontri surreali non sono finiti lì: entro nella (sporca) galleria che porta dalla piazza al parcheggio di Villa Borghese (quello che io chiamo il parcheggio di Condotte, in onore della gloriosa società di costruzioni che lo costruì) e vedo, nel solito angolo vicino all’ingresso, il solito imponente mendicante che sosta, seduto su uno sgabello di fortuna e circondato dalle sue masserizie: la barba bianca fluente fino al petto, l’aspetto massiccio, i vestiti pesanti sia in estate che in inverno, un grosso cappello calato fino agli occhi. Se non fosse per il pesante Crocefisso di peltro che gli spunta sotto la barba potrebbe essere uno di quei vecchi ebrei askenaziti della Galizia che popolano i racconti della frontiera orientale di Joseph Roth. Mentre cerco nelle tasche la solita monetina, il vecchio mendicante si scuote dal suo triste torpore e, con gesto sicuro, estrae il suo cellulare vibrante e comincia una conversazione animata in una lingua non facilmente identificabile.
Ce ne era abbastanza per chiudere la passeggiata, felice del bagno di primavera fra i contrasti dei dì nostri. Ma raggiunta la macchina, accendo la radio e chi ti sento? L’ex ministro Bondi che rievoca i bei tempi di una volta quando un’infermiera di un ospedale lo chiamò James Bond!
Che bello avere una buona disposizione dell’animo, non ostante tutto!

Roma 24 febbraio 2012



domenica 19 febbraio 2012

Stupi-diario di Carnevale (?)

Non tutto fa sorridere
(di Felice Celato)

La lenta, inesorabile eclissi dei partiti (meglio: degli attuali partiti), dei loro riti e delle loro sincopate retoriche vuote ha in parte inaridito la fonte, che qualche tempo fa ci pareva abbondante, degli stupori quotidiani che costituiscono il succo di questa nostra rubrichetta, sempre a cavallo tra stupore autentico e divertita rappresentazione di qualche inevitabile stupidità aleggiante, di solito rivestita di pompa, nei nostri cieli italiani.
Ma oggi mi è tornata in mente con forza (intendo: la nostra rubrichetta) leggendo sul Corriere della Sera la notizia di un vigoroso provvedimento (la revoca della “prestigiosa” carica) che il “parlamento padano” si è trovato costretto ad assumere per sanzionare il romanissimo assenteismo del Sindaco di Verona dai suoi doveri di membro “dell’ufficio di presidenza del Parlamento della Padania” (le maiuscole non sono mie….. come del resto la pompa, ndr).
Fin qui non avrei avuto dubbi ad intitolare questa sorridente segnalazione “Stupi-diario di Carnevale” ma, come forse avrete notato, ho aggiunto un punto interrogativo perché, poche pagine dopo, sempre sul Corriere di oggi, ho trovato un’altra notizia che (provate ad indovinare perché) mi è venuto automatico di collegare  con la precedente: in Olanda, il fondatore del PVV  (che vuol dire, in Olandese, Partito della Libertà), tale Geert Wilders (il Corriere gli dedica anche una foto-color Lombrosianamente inquietante) ha aperto un sito sul quale “campeggia” questo appello: “Avete dei problemi con la gente dell’Europa orientale? Il vostro posto di lavoro vi è stato portato via da un polacco, un bulgaro, un rumeno o altri europei dell’Est? Noi vogliamo saperlo. Un rumeno vi ha bloccato l’auto parcheggiando in seconda fila? Quel polacco nel condominio fa troppo baccano la sera? Ditelo a noi.”
Attenti! “Le parole generano opinioni e le opinioni danno forma ai sentimenti. I sentimenti diventano fatti” (l’ho citata giorni fa questa frase densa di Riccardo Calimani). E questo vale anche (e, aihmé!, soprattutto) per le parole (le opinioni o i sentimenti) più becere.
Il partito di Wilders ha 24 deputati (sui 150 che siedono nel Parlamento Olandese).
Non a caso, cito sempre il Corriere, “in Italia viene preannunciato un sito simile a cura dei ‘volontari padani’ della Lega Nord, ‘sui comportamenti degli extracomunitari’
Concludo, non divertito, citando la prima frase che Dio rivolge all’uomo (Gen. 3,9). “Dove sei?”.
Martin Bruber, lo studioso chassidico del secolo scorso e forse chassid egli stesso (traggo questa citazione da un suo libretto che mi è stato regalato in questi giorni da un amico), racconta  la spiegazione che il Rav della Russia Shneur Zalman diede a chi gli chiedeva conto della contraddizione fra la domanda di Dio e la Sua onniscienza: “In ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu dove sei arrivato nel tuo mondo?’”
….mi sono nascosto” risponde Adamo (Gen. 3,10)


Roma  19 febbraio 2012


venerdì 10 febbraio 2012

Ecologia della convivenza


"Santa" ingenuità
(di Felice Celato)
Vorrei ritornare sul tema dell’ ecologia della convivenza come antidoto ai mali (meglio: ad alcuni mali) del presente per cercare di sottrarmi alla facile obbiezione della… “santa” (absit laudatio verbis) ingenuità di alcune “raccomandazioni” che mi ero sentito di farci con l’ultimo post.



In particolare mi interessa di ritornare sul concetto di generosità (forse solo un eteronimo della bontà), andando a ricercare supporto da qualcuno dei testi che mi avevano aiutato a mettere a fuoco le mie convinzioni. Eccomi quindi, di nuovo, al già citato testo (…..tosto, l’ho già detto, ma altamente raccomandabile) del filosofo morale Salvatore Natoli (Il buon uso del mondo, Mondadori, 2010), che – lo dico subito – ampiamente mi conforta nell’analisi dell’urgente bisogno di un risanamento del nostro con-vivere.


Me ne dà spunto, si sarà già capito, l’osservazione di quanto continui ad essere aspro il dibattito pubblico italiano: finito – per consunzione storica dei contendenti – il periodo della lotta politica come contesa di reciproci odii, ne è rimasto però vivo lo stile su molti media (basta scorrere titoli ed articoli di molti giornali o sottoporsi al deprimente spettacolo di molti talk show) ma anche – ciò che è ancora più grave – in molti atteggiamenti della cosiddetta “gente comune” (espressione quanto mai banale) non solo per come viene riflessa nei commenti recepiti dai media (le interviste ai passanti o agli arrabbiati di turno, autentici o forzati) ma anche per come si dipana nelle conversazioni private; e, si sa, “le parole generano opinioni e le opinioni danno forma ai sentimenti. I sentimenti diventano fatti.” Ciò che valse – in tragico – per il pregiudizio antiebraico ( la citazione è, non a caso, da R. Calimani: Storia del pregiudizio contro gli ebrei, Mondadori) è pure valso – ancora per fortuna senza conseguenze tragiche, se non sporadiche – per tanti altri pregiudizi di casa nostra (dai “terroni” ai “Bingo-Bongo”, al “tutti ladri” di –ahimè! – ordinaria ricorrenza).


Ormai la cifra del nostro giudizio sugli altri è il disprezzo sistematico, la sfiducia preconcetta, l’alterigia della presunta superiorità (etica), la sommarietà maligna e massacrante dei giudizi, quasi sempre, incompetenti, la ricerca ossessiva del rinfaccio; il tono, sempre quello dello sfogo inviperito o dello sbocco di malanimo. [Un esempio che mi ha colpito, fra i più recenti: la reazione in chiave di attacco personale ad alcune (effettivamente, forse, solo un po’ fatue) opinioni di alcuni nostri ministri (Fornero, Cancellieri, Martone): sul merito (ammesso che ve ne fosse), nulla, solo qualche slogan consunto; tutto sulla persona – o sulla famiglia della persona – , alla ricerca di una sua presunta debolezza morale che nemmeno i moralmente ineccepibili possono sottolineare con tanta asprezza, come se chi esprime un’opinione dovesse necessariamente comprovarla con la propria immacolatezza. In fondo a questa asprezza c’è l’assolutistica pretesa di dominio sull’altro basata non su una superiorità etica –che nessun umano può sensatamente rivendicare – ma sulla capacità di sollevare rumore discreditante, distruttivo, nichilista.]


Di fronte a ciò (che non ci porterà né bene né lontano se non sapremo porvi fine, ed anche rapidamente: le elezioni arriveranno pure e vedremo, temo, i risultati di tale nostro autodistruggimento) mi ha confortato appunto rileggere il capitolo conclusivo (Democrazia e virtù civili) del volume cui facevo cenno all’inizio, dove hanno largo spazio alcune citazioni di quel singolare filosofo ed ottico che fu Baruch Spinoza, maestro della tolleranza. “Per essere credibili dobbiamo in primo luogo essere severi con noi stessi. Ci renderemo così consapevoli che non è facile conformare la vita ai principi. Consapevoli di questo, saremo miti con chi sbaglia senza transigere sull’errore”,scrive appunto Natoli che poi, citando largamente Spinoza (Etica), definisce la generosità come “la cupidità con cui ciascun si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di riunirli in amicizia”; una passione quindi, come l’odio,del resto, ma non “una passione triste”, “attiva e non reattiva”,che allontana “le passioni malvage e respinge le offese”.


Con qualche amico, c’eravamo prescritti, anni fa, l’esercizio di ascesi civile di sorvegliare sempre i nostri linguaggi ed i nostri pensieri: sono convinto che questo esercizio meriti ancora di essere praticato, con costanza, vietandoci anche l’ascolto di chi non vi si conforma.


Concludendo: l’appello alla generosità è solo “santa” ingenuità o un permanente bisogno minimo di una vera ecologia della convivenza?


10 febbraio 2012 (aspettando la nuova neve)













sabato 4 febbraio 2012

Utopie?

ANTE SCRIPTUM: Mi rendo conto che questo post è un po' lungo, per il metro di un blog, che ho imparato a misurare via via che mi divertivo ad usare questa forma di dialogo con gli amici. Ma oggi a Roma c'é la neve e, come è costume di questa città (per la verità comprensibile data la rarità dell'evento), si sta a casa, quasi tutto si ferma; e così ho lasciato da parte il sano esercizio delle forbici, pensando che, forse, così spero, anche i miei quattro lettori avranno meno fretta nello socorrere queste righe.

Decrescita/ricrescita
(di Felice Celato)

La curiosità intellettuale e la gentilezza di un colto amico ci hanno consentito di leggere un piccolo volumetto di Serge Latouche sulla “concreta utopia” della decrescita, un intenso esercizio di ricalibrazione dei nostri valori economici articolata su otto magiche “R”(rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) intese a riposizionare la nostra vita verso una “decrescita serena, conviviale e sostenibile” che risulterebbe antitetica rispetto alle “follie” del nostro oggi (Serge Latouche: Breve trattato della decrescita serena, Bollati Boringhieri).


Confesso di trovare l’utopia delle tesi suggestive di Latouche meno “concreta” di come l’economista francese la dipinge, al punto da ritenerla una utopia tout court, in realtà configgente, almeno per ora, con le aspirazioni incontenibili al benessere di tanta parte del mondo (che tuttora ne è escluso) e con le esigenze di conservazione del benessere dell’altra parte del mondo (di cui facciamo parte).


Non mi sfugge però la domanda inquietante postulata dalle tesi di Latouche: il benessere del nostro mondo è arrivato a toccare – proprio per questa parte del mondo di cui facciamo parte – un suo intrinseco limite di sostenibilità?


Non lo so. Non ho un’opinione seria al riguardo né dispongo della cultura necessaria per tali tipi di sintesi, che pure mi affascinano: per dire qualcosa al riguardo bisognerebbe possedere strumenti di lavoro e sviluppare tipi di indagine che sono al di là delle mie possibilità (chi vuol fare buone letture sul tema può prendersi anche i libri più recenti di Jeremy Rifkin).


Ma vorrei tentare di proporre, avendo riguardo a ciò che mi capita di osservare nel nostro Paese, un altro angolo di ragionamento  basato, invece che sulla decrescita, sulla ricrescita: non alludo a quella economica (cui il nostro Paese aspira disperatamente, con buona pace di Latouche) ma a quella umana che forse compendia in sé le potenzialità culturali della decrescita di Latouche, in fondo risultando più alla portata dei nostri orizzonti e, per quanto ci riguarda come comunità, più centrata sul nostro presente e sulle esigenze che questo mi pare porre con urgenza.


L’Italia sta attraversando, secondo me, un periodo molto oscuro, non solo dal punto di vista economico ma, mi pare di poter dire soprattutto, dal punto di vista umano (che vuol dire, bensì, culturale e sociologico, ma anche valoriale e morale). Mentre dal punto di vista economico “siamo declinati credendo di crescere” (Marco Revelli: Poveri noi, Einaudi), dal punto di vista politico si sono rotti i tradizionali legami coi principi della rappresentatività politica, si è incrinato il rapporto di fiducia nella capacità della classe dirigente (ove sia mai esistita in Italia) di assicurare un’ordinata diffusione del benessere, al riparo da ruberie e prepotenze, si è contratto e confuso il rapporto con la nostra stessa cultura e con la nostra identità nazionale, nemmeno l’autorevolezza morale della Chiesa ha resistito al deterioramento; ma – quel che è ancora più grave – si va sfarinando, così mi pare, anche il collante umano della nostra società.


Sul piano sociologico siamo diventati, come dice De Rita (Rapporto Censis 2011), “gente che vive sola ma senza solitudine”, “prigioniera di riferimenti puramente egoistici e prevalentemente emotivi”, “incapaci di rapportarci a una qualsiasi lunga durata, sociale e magari esistenziale”, “subalterni alla dimensione mediatica dei processi in atto, subendone in modo inerte il linguaggio”. L’invidia sociale (quel sentimento oscuro che ci fa sembrare individualmente e micro-collettivamente desiderosi del male altrui, quasi come se fosse lo strumento consolatorio del nostro scontento), la sfiducia reciproca condita col rancore sociale che ci spinge ad invocare ad ogni piè sospinto le soluzioni più emotive ed illiberali, l’inimicizia sistematica insaporita col disprezzo dell’altrui opinione o delle altrui culture sembrano essere diventati la cifra del nostro convivere, soprattutto in questi tempi di intensa contrazione delle prospettive economiche. Nel contempo, tutti ci atteggiamo ad inesorabili Catoni delle altrui mancanze (vere o presunte che siano), pur essendo tutti o quasi almeno disordinati cittadini propensi alla protezione del nostro particulare di Guicciardiniana memoria, persino nel rapporto con i doveri minimali (pagare le tasse, non evadere gli obblighi contributivi, non parcheggiare in seconda fila,etc) e mentre abbiamo sviluppato una fattuale indifferenza alle diffuse e ben gravi illegalità che da tempo caratterizzano la nostra vita sociale ed economica.


Forse l’elenco può apparire amaro più di quanto non siamo disponibili a riconoscere (e può darsi che sia o appaia esagerata, anche se sono pronto a declinare esempi concreti per ciascuno dei “mali” enunciati). Ma credo che, di fondo, la sintesi sia giusta e che ognuno possa riconoscervi se non tutti almeno molti dei tratti dominanti del nostro convivere ( e anche, ovviamente, dei nostri linguaggi). E con questi “sentimenti” fra un anno affronteremo “il ritorno della politica”.


Di fronte a ciò – ed è questo l’angolo di riflessione che suggerivo all’inizio, forse anch’esso un’utopia ma a portata di mano – la via che mi sembra da desiderare non è tanto quella della decrescita economica ma quello della ricrescita umana, che ben può comportare la revisione critica di molti dei “valori” economici cui Latouche prescrive le sue otto “R”, ma che, soprattutto, può valere come operazione di ricostruzione di una accettabile ecologia della convivenza.


Non so se anche da noi, come scrive Salvatore Natoli nel suo (molto tosto) libro Il buon uso del mondo (Mondadori), si comincia a sentire di nuovo il bisogno delle virtù; né voglio richiamare a tutti i valori della visione cattolica della vita sociale, magistralmente compendiati ed approfonditi da Benedetto XVI in quella straordinaria enciclica che è Caritas in veritate (un testo grandioso che ci farebbe, laici o credenti, assai bene rileggere più volte); né voglio ancora – per non apparire “clericale” – tornare a citare l’inno alla carità (o all’amore, come usa dire oggi per sembrare più laici) di san Paolo (I Cor. 13), che pure ha una valenza non solo religiosa (anzi, non resisto e ne riporto qualche riga: l’amore è paziente, è benigno l’amore, non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità).


Mi pare però certo che se tutti ci convincessimo, come fa Bernard Rieux, l’eroe laico de La peste del super-laico Albert Camus, che “ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”; se ci convincessimo che la moderazione dei giudizi non è flaccidità dell’animo (il vituperato “buonismo”); che, anzi, è un valore (o, se volete, una virtù anche civile non solo personale) essere semplicemente “buoni”(non “fessi” né irresponsabili, ma semplicemente “buoni”, generosi, magnanimi, aperti); che comprendere (e,sì, perdonare) è più nobile del condannare (e assai più intelligente che condannare sommariamente); che “il rilancio delle virtù civili” parte “dal profondo della nostra coscienza e non da semplici pulsioni individuali” (G. De Rita- A. Galdo : L’eclissi della borghesia, Laterza); se riuscissimo a fare tutto ciò attingendo alle risorse culturali delle nostre migliori radici, non avremmo fatto ben più, con questa ricrescita della nostra umanità, che non con una improbabile decrescita economica? E senza postulare il consenso degli altri, ma partendo solo da noi stessi.




3/4 febbraio 2012