mercoledì 29 dicembre 2021

L'ambiguo 2022

 Gattopardi o facitori?

(di Felice Celato)

Alla mia età non occorre sfogliare la raccolta di piccole riflessioni che, all’inizio di ogni anno, sono andato via via inanellando su queste “colonnine” per formularmi/ci una previsione/augurio per il tempo che viene; magari per raffrontarle con gli esiti che abbiamo poi toccato con mano. Basta già l’esperienza di una vita di ciascuno di noi, specie se …attempati e, magari, fideles, per sapere che il futuro è nelle mani di Dio. La vera ragione della speranza dell’umanità, diceva Benedetto XVI, è fondata non sugli improbabili pronostici di maghi o sulle previsioni economiche, pur importanti, ma sul fatto che la storia è abitata dalla Sapienza di Dio.

Però non riesco a sottrarmi al rischio di ri-provare anche quest’anno a guardare al futuro con gli occhi provvisoriamente smagati di chi crede di poter trarre dal passato gli auspici sui giorni che verranno, in base all’assunto (nel quale credo fermamente) che – salvo fatti eccezionali – ogni giorno costruiamo, da poveri uomini, i presupposti del futuro. 

Soprattutto quest’anno, il futuro prossimo mi pare gravato da una radicale ambivalenza. Il biennio pandemico che sta scorrendo sotto i nostri occhi crucciati aggiunge motivi di incertezza che solo qualche anno fa non avremmo nemmeno ipotizzato; ma da questi è prudente prescindere, come ha purtroppo dimostrato  l’imprevista complicazione dello scenario del contagio, quando il pericolo già ci pareva scemante. Mi limito perciò ad assumere come provvisoriamente affidabile una fra le tante previsioni di chi ne sa assai più di me, sulla evoluzione “normalizzata” della malattia, cioè sulla sua (lenta) trasformazione in qualcosa di permanente ma in forma poco distante da un’influenza magari particolarmente severa: in fondo – diceva qualcuno che non ricordo – è possibile auspicare che ‘sto virus si stanchi di saltabeccare, mutando fra le varie trappole vacciniche e terapeutiche che via via gli stiamo organizzando contro. 

E dunque, diamo un’occhiata al resto, cioè a tutto quello che abbiamo “apparecchiato” da soli, in questo tempo, per riabilitarci ad una sperata “normalità” del nostro vivere quotidiano (o forse solo per tornare a riadagiarci sulle inerzie che abbiamo sperimentato?).

Cominciamo con una cosa positiva: la pandemia, credo, ha fatto giustizia di ogni sciocca pretesa di autosufficienza. Da soli non viviamo, non esistiamo, non sopravvivremmo; né civilmente, né economicamente, né sanitariamente. La superficie terrestre non è mutata nel tempo; è invece aumentata a dismisura la nostra densità: i 150 milioni di Kmq di terraferma del nostro globo, solo 50 anni fa erano abitati da poco più della metà degli attuali quasi 8 miliardi di umani; più o meno da 26 umani per kmq a oltre 52! E questi 8 miliardi di umani addensati hanno imparato nel tempo a viaggiare, a incrociarsi, a scambiarsi idee, culture, prodotti e capitali ad un ritmo impressionante; anzi, dal punto di vista economico, anche articolandosi in supply chains sempre più interconnesse.

Anche quel non minuscolo sottoinsieme di umanità che è il nostro habitat di Europei (la nostra patria!) ha rafforzato via via, con sorpresa di molti, la coscienza della sua intrinseca interdipendenza, come ha dimostrato il balzo in avanti che la pandemia ha impresso ai meccanismi di solidarietà economica, spazzando via le futili pretese di indipendenza dei rispettivi destini (e anche qualche nostrano piagnucoloso vittimismo).

Lasciando da parte, per non aggravarci, qualche fondata preoccupazione di ordine geo-politico per le tendenze illiberali di alcuni scenari politici internazionali, è dunque ragionevole pensare  che il 2022 rechi con sé (almeno da noi) una più diffusa e radicata coscienza della nostra cittadinanza continentale e globale; un non piccolo progresso, per la verità, se solo si pone mente ad alcune ridicole istanze politiche (anche nostrane) di non lontani tempi pregressi. 

E tuttavia, almeno ai miei occhi, questo non piccolo progresso non basta a dissipare la percezione di instabilità dei nostri propri equilibri socio-politici, che esaspera la percezione di ambiguità dell’anno che viene: (#) le scadenze istituzionali, vissute anche con non infondate ansie di senso e, stavolta, particolarmente ricche di implicazioni intrecciate; (#) l’inconsistenza culturale di gran parte delle “proposte” politiche, ormai degradate a mero perseguimento di obbiettivi di breve consenso emotivo, avulso da ogni serio pensare di largo respiro (da questo punto di vista, la cachistocrazia rappresentativa cui ci siamo avvezzati ha dato i suoi frutti!);(#) le coerenze operative di cui necessitiamo  (per attuare i programmi che via via sottoscriviamo con grande clamore) e che da sempre non costituiscono il nostro forte! (#) la pretesa – di sapore gattopardesco – di “riformare” senza incidere su alcuno dei rispettivi “protettorati” di riferimento, come se affidassimo a chirurghi il compito di operare senza fare scorrere un po' di sangue. Tutto ciò induce un brivido  di precarietà delle volontà che ci sembra di percepire nella nostra agognata “resilienza”; e un dubbio angoscioso sulla strada che imboccheremo nei fatti nei mesi che ci aspettano. Per tornare all’inizio di questa mesta previsione affidandoci al Divino, è bene avere sempre presente che il divino si compie con la nostra collaborazione.

Roma 30 dicembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 20 dicembre 2021

Feste inclusive

 Ragionati auguri per “le festività

(di Felice Celato)

Pare che per essere “inclusivi” oggi sia bene esprimersi così: buone festività! Ma io che, evidentemente, non colgo a fondo questo concetto un po’ fatuo di inclusività, cercherò di distinguere (nel senso di discernere) il senso dei nostri auguri.

Dunque, anzitutto, un affettuoso Buon Natale a tutti i lettori di queste “colonnine”, siano – essi – cristiani e cattolici, come il sottoscritto augurante, o “laici” convinti (purché, perbacco!, inclusivisti): del resto la festa-madre di noi cristiani (festa dell’Incarnazione, cioè della venuta in terra del nostro Dio, uno e trino) è per sua natura inclusiva perché, in fondo, festa dell’umanità che un Dio Creatore (vero e vivo, come io penso e credo, o da noi stessi “creato”, come forse vogliono i più) riconosce meritevole, per grazia, di una Sua kenosis, di una Incarnazione del trascendente; destinataria cioè di una estrema com-passione, di una condivisione salvifica della sua natura creaturale, di una compartecipazione ai suoi destini, di una diretta rivelazione del divino espressa attraverso la  Sua coabitazione nell’esistenza degli uomini e nel mondo (et Verbum caro factum est et habitavit in nobis). 

Del resto, etsi Deus non daretur, se anche Dio non esistesse e fosse solo il frutto delle nostre angosce, come si potrebbe non apprezzare comunque che, chi in Lui crede, Lo proclama così vicino all’uomo dal volerne assumere le parti e la natura, per parlargli più da vicino e più da vicino rivelargli la sua dignità di creatura amatissima (ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo), la sua dignità di destinatario della Parola di Dio? 

Ma, si Deus est, quali parole potrebbero esprimere compiutamente la tenerezza del Suo disegno, sull’uomo e sui suoi destini? Io – fidelis senza mio merito – non saprei trovarle; solo sono certo di poterle sentire ponendomi, con apertura allo Spirito Santo (lumen cordium), davanti all’ingenua rappresentazione del presepio. 

Dunque, credo, davanti ad essa possiamo entrambi (fideles o laici “impenitenti”) sentirci almeno accomunati (cioè inclusi) nell’altissima dignità della nostra umanità che il Natale propone a ciascuno, credente o non credente, per mezzo di un bambino – sia esso il segno di un mito o di un vero Dio fattosi uomo – che chiede di essere accolto fra noi, di essere uno di noi. Di qui, l’augurio (inclusivissimo!), di avere costantemente presenti, TUTTI e FINO IN FONDO, almeno le responsabilità di questa dignità.

Veniamo allora alla seconda (e più problematica) parte delle imminenti festività: la fine dell’anno e l’inizio del nuovo: si direbbe la parte più laicamente festosa… delle festività, quella che meno presta il fianco al sospetto di essere non-inclusiva (a meno che non si vogliano considerare non-inclusivi, perché alcolici, i calici che inevitabilmente porteremo alle nostre labbra nel colmo della festa!). In fondo, quest’anno, come il precedente del resto, lascia poco spazio per il rimpianto di sé; e tutti, chi più chi meno, non abbiamo altro desiderio che vederlo chiudersi alle nostre spalle, con tutto il suo carico di dolori e di nuove ansie. Anche quest’anno tocchiamo con mano, però, quanto siamo venuti dicendo, da ultimo giusto un anno fa: ogni tempo che si chiude (sul calendario) trascina con sé, verso il futuro, il groviglio di conseguenze del recente vissuto, conseguenze che possono anche mutare il giudizio che diamo sul nostro passato e farci apprezzare come bene sopravvenuto ciò che ci era apparso solo come male; e viceversa. Dunque, ancora una volta, sarà il prossimo anno a dirci qualcosa di più dell’anno passato; occorre perciò una buona dose di ottimismo per poter credere che – pandemia a parte – abbiamo avuto, in fondo, un buon 2021. Di certo abbiamo avuto un anno di trepidazione, per le nostre condizioni di grave debolezza strutturale, per le possibilità che la solidarietà europea ci ha offerto, per la decisività delle occasioni che sembra mettere davanti a noi e che abbiamo forse intravvisto – stavolta –  con chiarezza, ma che dobbiamo ancora concretare nell’anno e negli anni che vengono, (ahinoi!) con coerenza di comportamenti, con spirito di sacrificio e con coraggio.

Al di sotto di questa “scossa” (che abbiamo subìto con indubbia volontà di reazione) leggiamo però, chiari, i sintomi di una perdurante sconnessione dei linguaggi e delle ottiche, delle aspettative e dei proclami su di esse; i sintomi di un insuperato sfarinamento dei livelli di coesione socio-politica, di un acquietamento del pensiero del nostro sistema  (copyright Censis 2021) che non può non tenere in apprensione. Personalmente ho difficoltà a credere che il 2022 veda la rimozione di questi gravami sociologici e culturali che impastoiano il nostro procedere; gravami che mi paiono, purtroppo, di radice compatta e di lunga deriva. 

Ma, nonostante tutto, il Natale ci impegna alla speranza; e perciò – inclusivo o non-inclusivo che possa apparire – continuo ad augurare a tutti e a ciascuno di assorbirne il senso, portandolo seco nel corso dell’anno 2022 che ci attende carico di possibilità.

Roma 20 dicembre 2021

 

 

mercoledì 15 dicembre 2021

Parole, parole, parole

 Il concetto di patriota

(di Felice Celato)

Sempre curioso di questioni linguistiche e lessicali, ho indugiato, in queste giornate sub-influenzali, sulla parola patriota, improvvisamente “risorta” (è proprio il caso di dirlo!) nel linguaggio politico come invocato requisito essenziale del futuro Presidente della Repubblica. Senza essere un filosofo della storia, ho proceduto nel ragionamento con il pedissequo metodo dei significati delle parole (le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti in Palombella rossachi parla male, pensa male). 

Procediamo con tale metodo, dunque, e copiamo qui la definizione della sempre preziosa Treccani:


patrïòta (o patrïòtta) s. m. e f. (m. ant. patrïòto e patrïòtto) [dal lat. tardo patriota, gr. πατριτης, che ebbero soltanto il sign. 1; il sign. politico si è sviluppato sull’esempio del fr. patriote] (pl. m. -i). – 1. pop. Che è dello stesso paese, compatriota: siamo p.; un mio patriota2. Persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando o combattendo per essa: i pdel Risorgimentole persecuzioni dell’Austria contro i p.; essere un buon p., un paccanito. Durante la seconda guerra mondiale, furono così chiamati i partigiani, spec. nel primo periodo della lotta per la Resistenza.

 

Bene: escludendo che la politica abbia voluto riferirsi alla prima accezione della parola (sarebbe stato come dire che il prossimo Presidente della Repubblica debba essere un cittadino italiano, magari – spero – lasciando impregiudicata la questione delle sue eventuali radice etniche diverse), ragioniamo sulla seconda accezione.

Va da sé che la seconda accezione (persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando combattendo per essa) ha – ahinoi! – una connotazione relativa, cioè derivata dal decorso della storia e dagli esiti delle sue vicende: se, da un lato, come dice Treccani, durante la seconda guerra mondiale, furono così chiamati i partigiani, specialmente nel primo periodo della lotta per la Resistenza, non v’ha dubbio, dall’altro, che prima della seconda guerra mondiale potessero ascriversi senz'altro alla categoria dei patrioti anche Benito Mussolini, Alessandro Pavolini, Roberto Farinacci, etc.; e che, invece, subito dopo, appunto divenissero patrioti coloro che, per esempio, Mussolini l'avevano disprezzato e combattuto (non a caso il Presidente Pertini veniva giustamente definito il Presidente patriota).

Dunque il concetto di patriota è, di per sé, un concetto aleatorio; anzitutto perché dipende largamente dal concetto di patria; per esempio, per me convinto Europeista, Alcide De Gasperi fu un autentico grande patriota; ma, sempre per esempio, per un indipendentista sardo o siciliano, potevano ben esserlo Angelo Caria (fondatore di Sardigna Natzione) o Andrea Finocchiaro Aprile (presidente del Comitato per l'Indipendenza della Sicilia), entrambi nemmeno tanto remoti nel tempo, perché il secondo morì italiano nel 1964, ed il primo addirittura nel 1996, e sempre da italiano).

Poi la storia dimostra chiaramente come il giudizio sulla patriotticità di azioni od opinioni dipende dall'esito storico di quelle azioni od opinioni: il deputato socialista Tito Zaniboni o l’anarchico Anteo Zamboni sarebbero con ogni probabilità stati celebrati, già ai loro tempi, come insigni patrioti, se i loro attentati a Mussolini avessero avuto successo e, magari grazie a ciò, il fascismo non fosse diventato il regime che tanti lutti addusse agli italiani. Invece furono incarcerati o giustiziati a furor di popolo e per decenni additati come traditori della patria. Tutto ciò per dire una cosa forse, a sua volta, ovvia e immagino nemmeno ignorata da chi ha riesumato il termine: invocare un Presidente patriota (come, ho sentito dire, lo sarebbe Berlusconi e, solo forse, Draghi) è un puro ovvioma, cioè un'affermazione - magari destinata a creare ingenue suggestioni - che si presenta spontaneamente e facilmente al pensiero o all'immaginazione, come cosa naturale, ordinaria, evidente (cfr. sempre Treccani alla voce ovvio). Il Presidente della Repubblica non può che dover essere una persona che ama la patria e mostra il suo amore lottando combattendo per essa e non si può che desiderare, da parte di ogni cittadino di buon senso, che anche il prossimo eligendo lo sia. Il senso di questo desiderio dipende però dal concetto che si abbia di patria (e, per la comprensione di tutti, sarebbe bene chiarirlo) e dall’ esito che avranno le sue azioni.

Roma 15 dicembre 2021

lunedì 13 dicembre 2021

Una segnalazione... faziosa

Inversionismi

(di Felice Celato)

Anche stavolta, una premessa sul titolo di questo post è necessaria. Il libro che sto segnalando (il romanzo sarcastico Lo scarafaggio, di Ian McEvan, Einaudi, 2019) reca una postfazione che mi ha entusiasmato e che spiega benissimo l’ispirazione del narratore inglese. Ian McEvan è un acceso dispregiatore della Brexit (e del suo araldo Boris Johnson): il più insulso, masochistico e inconcepibile proposito della storia del Regno Unito; con ciò incontrando pienamente il mio giudizio sul fatto (ormai la Brexit È un fatto, ancorché non ancora esplorato in tutte le sue ripercussioni, nel Regno Unito e in Europa) e sul suo folkloristico mentore.

La storia in sé sviluppa una sorta di contro-narrazione della famosa Metamorfosi di Franz Kafka, il cui protagonista (Gregor Samsa, un nome diventato un topos letterario), al risveglio da sogni irrequieti si ritrovò trasformato in un gigantesco insetto, uno scarafaggio, appunto. Nel romanzo di McEvan, invece, è uno scarafaggio che, svegliatosi da sogni inquieti, si trova trasformato in un uomo, anzi, addirittura nel Signor Primo Ministro. Da questa metamorfosi prende avvio la distopica vicenda (che si legge con piacere, anche per la relativa brevità del racconto, appena 100 pagine), sulla quale non è il caso di dilungarsi. Mi preme invece commentare brevemente che cosa, nel racconto di McEvan, costituisce la metafora della Brexit: una strampalata ideologia economica che Jim Sams, lo scarafaggio divenuto Primo Ministro, intende imporre al suo Paese ed al mondo: l’inversionismo. Si tratta, in sostanza, di invertire il flusso ordinario della circolazione della moneta: non saranno più i datori di lavoro a pagare i dipendenti, o i fornitori a ricevere moneta dai clienti in cambio della merce, o i locatori a ricevere le pigioni dai locatari, etc.; ma, con l’inversionismo, saranno i lavoratori a corrispondere un compenso ai datori di lavoro, in funzione della qualità del loro lavoro; però, a loro volta, i lavoratori riceveranno dai venditori un compenso per ogni cosa “acquistata” e – in tal modo – i lavoratori saranno incentivati a consumare quanto più possibile per “guadagnare” dal loro stesso consumo. E lo stesso in ogni rapporto economico a flusso invertito. Per tale via, naturalmente, sarebbe risolto anche il problema del bilancio statale: basterà che lo Stato assuma centinaia di migliaia di lavoratori per ricevere da questi i compensi dovuti al datore di lavoro! Il tutto ovviamente sostenuto da un’abbondantissima stampa di moneta (una specie di quantitative easing, come lo intende Jim Sams), per modo che – questo è l’argomento – i grandi magazzini si possano permettere i loro clienti ed i clienti si possano permettere i loro posti di lavoro. Questa magica formula, nel romanzo sviluppata in diverse sue implicazioni, quando viene applicata nei rapporti internazionali (per intenderci nel dare e nell’avere di importazioni ed esportazioni), viene motivata in maniera straordinariamente efficace: warum?, perché?, domanda la cancelliera tedesca che non vuole dover pagare per le esportazioni di auto tedesche; perché sì! risponde annebbiato Jim Sams.

Al di là dell’azzeccato e condiviso spunto polemico che ha mosso l’autore, il romanzo è assai godibile e ne raccomando la lettura. 

Ma, mi sorge un’angoscia: non sarà che questa idea dell’inversionismo possa affascinare, anche da noi, qualche strampalato politico (ne abbiamo tanti!) magari come sviluppo della bonus-mania che dilaga? O come soluzione, definitivamente stato-latrica, ai problemi dell’equilibrio del bilancio statale? O come vero ed efficace motore per il sostegno della domanda? O come superamento dell’odiosa tassazione? Sarà senz’altro un’angoscia esagerata; ma il fatto è che in materia di inversioni (di marcia, di senso, di logica) non ci facciamo mai mancare nulla (non è un caso se il Censis, quest’anno, ci ha etichettato come “la società irrazionale”).

Roma 13 dicembre 2021 (santa Lucia).