domenica 26 febbraio 2017

Defendit numerus / 12

Vasi comunicanti
(di Felice Celato)
Traggo dal volume Globalizzazione addio? a cura di Mario Deaglio (XXI rapporto sull’economia globale e l’Italia, del Centro di Ricerca Luigi Einaudi, edito da Guerini e Assiciati, 2016) i dati (arrotondati) per questa interessante tabella sulla distribuzione dei PIL di tutto il mondo:


Aree economiche
Quota PIL 2000
Quota PIL 2015
Variazione
USA
31
24
- 7
Unione Europea
26
22
- 4
Cina
4
15
+ 11
Giappone
14
6
- 8
Russia
1
2
+ 1
Resto del mondo
24
31
+ 7
TOTALE MONDO
100
100
0
In miliardi di  $
33.304
73.171
+ 39.867

Mini-commento: tutto sommato, il mondo in questi 15 anni (e non ostante la crisi del 2008) non ha fatto male; ha “solo” più che raddoppiato il suo PIL, cioè la sua produzione di ricchezza annua. A prevalente vantaggio di chi? Cina e resto del mondo. I vasi comunicanti dell’economia mondiale globalizzata fanno crescere chi era povero e “impoveriscono” chi era ricco. Nulla di strano, secondo me. Forse (pacificamente) inevitabile.

Roma 26 febbraio 2017

sabato 25 febbraio 2017

Kippàh

Proposta contro-corrente
(di Felice Celato)
Non vale certo la pena di occuparsi qui della feccia umana che al grido di “sporco Ebreo!” aggredisce due ragazzi francesi che indossavano la kippàh. E infatti non ce ne occupiamo.
Ma un’idea, fatti simili, me la danno: e se decidessimo di portarla tutti, ebrei e non ebrei, questa kippàh? Non (solo) per fugace protesta o emozionata solidarietà ma per semplice scoperta (o riscoperta) di quel che significa la kippàh: il senso di uno sguardo che viene da sopra le nostre teste, una memoria continua dei limiti della nostra ragione, una mano che sta sulla sommità del nostro capo, senza condizionarci in nulla, solo ricordandoci che c’è.
Non un simbolo distintivo (che pure avrebbe senso, con buona pace degli stucchevoli furori laicisti dei francesi; come lo ha un crocefisso appeso al collo o un velo liberamente indossato o qualunque altra cosa che ci ricordi chi siamo, senza imporci o garantirci alcunché) ma un simbolo associativo nel nome della comune umanità, della comune coscienza della grandezza e dei limiti della nostra ragione (sta infatti, la kippàh, sulla sommità del nostro capo, fra la nostra testa e il cielo), della reverenza che dobbiamo al creato (e al suo Creatore, per chi in Lui crede). Farebbe bene a molti, laici e non.
Roma 25 febbraio 2017


mercoledì 22 febbraio 2017

Letture ariose / 2

Von Hayek
(di Felice Celato)
Non so che rapporto voi abbiate con la lettura. Io credo di essere un “grande” lettore, nel senso che “consumo” molte letture, di varia natura; da sempre, ma tanto più ora che ne ho il tempo. Col crescere del mio (forse senile) disgusto del presente, ho finito per individuare anche due o tre filoni di letture….terapeutiche, di letture, cioè, alle quali attribuisco la funzione di tenermi lontano dallo sconforto che mi pervade quando mi soffermo ad osservare come va (o meglio: come a me pare che vada) il nostro mondo, il nostro mondo di Italiani, di Europei, di occidentali. I filoni classici di questa lettura terapeutica sono essenzialmente tre: i libri di storia, che aiutano a relativizzare il presente e le sue angustie; i libri di religione (soprattutto quell’immensa raccolta di riflessioni profonde e commoventi che costituiscono il corpus del pensiero di Benedetto XVI) che aiutano ad attribuire alla storia il senso che ha; ed, infine, le letture che io chiamo “ariose”, cioè quelle letture dove, qualsiasi ne sia l’argomento, aleggia un pensiero libero, disconnesso dai polifonemi del pensiero corrente, dagli slogan acritici, dall’abitudine  alle parole senza responsabilità di sé stesse, dai pregiudizi ideologici.
Bene: a questa ultima categoria di letture appartiene il breve saggio che Donald Boudreaux (Editore IBL Libri, 2017, titolo Hayek – L’essenziale) ha dedicato al pensiero di Friederick August von Hayek (1899-1992), austriaco, premio Nobel per l’economia nel 1974 ma, soprattutto, grande scienziato sociale del secolo scorso, spesso dimenticato, oscurato, forse, dal grande successo riscosso dal suo grande “rivale”, l’altro grande economista del ‘900 John Maynard Keynes.
In buona sostanza il libro si propone di esporre con chiarezza il pensiero liberale e liberista di Hayek, ripercorrendone i dieci punti fermi che più lo caratterizzano (dalla funzione del prezzo, alla rule of law, alla distinzione fra diritto e legislazione, ai cicli economici, all’inflazione, all’importanza della conoscenza e delle idee, etc).
Non ne tenterò, nemmeno per accenni, una sintesi; del resto il libro è di lettura  estremamente agevole, non solo per il contenuto numero di pagine (poco più di un centinaio), ma soprattutto per la grande capacità espositiva dell’autore che ne fa un testo certamente adatto anche a chi non dispone di grande cultura economica.
Tuttavia, per darne almeno un’idea, proverò ad esporre in breve il contenuto del primo capitolo (Come rintracciamo il senso in un mondo incredibilmente complesso) che mi è parso non solo una grande lezione di libertà e di liberalismo ma anche una geniale traccia di una piccola lezione che mi riservo di utilizzare quando tenterò, per la prima volta, di spiegare ai miei nipoti che cos’è l’economia. Dunque, dice Hayek per bocca di Boudreaux: provate a mettervi davanti ad un foglio di carta scritto a penna; un veicolo di comunicazione estremamente economico e  infinitamente più semplice del vostro PC o del vostro tablet; eppure, già esso un mezzo la cui vicenda economica è tanto complessa da non potere essere descritta in dettaglio se non utilizzando pagine e pagine per scomporre la catena di azioni ed interazioni che l’hanno generato e per mettere in fila la sequenza di conoscenze e di competenze che servono per produrne i due materiali essenziali: la carta e l’inchiostro. Provate ad immaginarla nel dettaglio: dalle risorse naturali che costituiscono la base di carta ed inchiostro, fino ai processi di estrazione, di trattamento, di lavorazione, di trasporto, di immagazzinamento, di distribuzione, etc.; il tutto, con impiego di ingenti risorse energetiche ed umane, dal mondo dell’agricoltura, della silvicoltura, dell’energia, dal mondo della progettazione e realizzazione dei macchinari, al mondo della produzione industriale, della logistica, etc. etc. etc.
Bene; ora provate a domandarvi: quale geniale pianificatore, quale stratega politico, quale mente umana avrebbe potuto organizzare quella così complessa catena del valore che ora porta davanti a voi un foglio di carta vergato d’inchiostro, dal valore unitario di qualche centesimo di euro, dopo aver coordinato e impiegato tante risorse provenienti dai più lontani paesi e così perfettamente incastrate fra loro da consentire l'output finale?  Chi ha assemblato tanti pezzi della catena produttiva, chi l’ha fatta girare, chi ha fatto incontrare tanti mondi economici, chi ha coordinato tutte le conoscenze necessarie; chi, se non lo scambio volontario regolato da un prezzo determinato dalla libera e diffusa ricerca dei rendimenti migliori e basato "solo" sul diritto di proprietà e sulla libertà di contratto?

Roma 22 febbraio 2017

lunedì 20 febbraio 2017

Spigolature del week end

Rispettare le parole
(di Felice Celato)
Torno su un tema che – come sanno i lettori di questo blog – mi è particolarmente caro (forse un’ossessione, diranno i lettori malevoli); tanto che persino qualche giorno fa sono venuto a parlarne, rifacendomi nientemeno che a Nanni Moretti e alla sua Palombella rossa. Anzi, per il 2017, avevo addirittura formulato a noi stessi l’augurio ( 5 auguri per l’anno nuovo, post del 30 XII 2016) che l’anno nuovo ci vedesse sempre rispettosi del significato delle parole, perché non venga meno, senza che ce ne accorgiamo, la capacità di capirci fra di noi, perché, scrivevo (mi si perdoni l’autocitazione, ma il concetto mi pareva ben espresso), le parole – se usate dopo essere state pensate e scelte – sono le custodi della nostra umanità: se si corrompono le parole, se le si usa con scialba noncuranza, si deteriora la nostra capacità di comunicare, una delle essenziali caratteristiche che ci fanno diversi dalle bestie.
E dunque, ancorché me ne fosse fino a ieri sfuggita la notizia, ho appreso con grande piacere che a Trieste, proprio in questi giorni, è stato “lanciato” un Manifesto della comunicazione non ostile (se ne può facilmente trovare il testo su Google e vale la pena di leggerlo) destinato, mi pare di capire, a contrastare lo hate speech (l’odioso e violento linguaggio tanto diffuso specie sui social media; ma non solo lì, per la verità). Dal “decalogo” di questo Manifesto traggo tre principi che, fra gli altri, mi paiono particolarmente adatti a costituire una guida anche al di fuori dell’ambito (il linguaggio dei social media, in primis) nel quale è nata l’iniziativa. Eccoli:
Le parole danno forma al pensiero: e dunque – si dovrebbe dedurre – se non c’è pensiero non ci siano parole, affinché non aleggino “forme” senza “sostanze”! Le parole, esse stesse, non sono sostanza in sè, come fingono di credere molti nostri politici; e come noi spesso siamo portati – magari inconsciamente – a ritenere, quando ci accodiamo all’uno o all’altro di essi sulla base di parole dietro alle quali non si intuisce alcuna certa sostanza. Un esempio basterà: che vuol dire sventolare la bandiera politica delle riforme (una volta si diceva addirittura del riformismo) se non si dice quali riforme?
 “Le parole hanno conseguenze”: questo, ai dì nostri, sembra essere il più ignorato dei princìpi, eppure sarebbe il più facile da comprendere. Ne abbiamo più volte parlato ricordando la “tragica” sequenza che ha avuto troppo spesso storiche evidenze: da parole sbagliate a concetti sbagliati, da concetti sbagliati a sentimenti pericolosi, da sentimenti pericolosi ad azioni sconsiderate o, peggio, tragiche. Ma quand’anche non si volesse considerare la sequenza tragica, a che cosa servirebbero le parole se non a generare conseguenze, foss’anche “solo” quella di far conoscere un sentimento (che, appunto, meriti di essere conosciuto)?
Si è ciò che si comunica: questa identità è assai impegnativa perché implica che le parole (ciò che, appunto, comunica ….almeno fra gli uomini) esprimano l’identità affettiva ed intellettuale di chi le usa. A parole vuote corrispondono persone vuote, direi immancabilmente e biunivocamente. E qui gli esempi potrebbero dilagare; ma forse è più prudente che ognuno si faccia i suoi.
Fin qui la “spigolatura” dalle letture del week end. Che potrebbe ampiamente bastare per costruire (o ricostruire) il “sacro” rispetto che dobbiamo alle parole (intendiamoci: alle parole come significanti, non come “idolo” lessicale da puristi!).
Il terzo principio, però, mi suggerisce una “lettura” cristiana, su un piano tutt’affatto diverso: chi infatti dovrebbe meglio capire questa identità (il “comunicante” è quello che  "comunica") se non coloro che credono che “la Parola” è Dio? In principio era la Parola [in latino il Verbum, in greco il Logos] e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio. (Giov. 1,1). Non a caso, il papa Benedetto XVI, parlando al Sinodo dei Vescovi del 2008, diceva: Umanamente parlando, la nostra parola umana, è quasi un niente nella realtà, un alito. Appena pronunciata, scompare. Sembra esser niente. Ma già la parola umana ha una forza incredibile. Sono le parole che creano poi la storia, sono le parole che danno forma ai pensieri, i pensieri dai quali viene la parola. E’ la parola che forma la storia, la realtà. Ancor più la Parola di Dio è il fondamento di tutto, è la vera realtà.
Di qui, credo, per noi cattolici una ragione in più per rispettare la parola (e per amare la Parola).
Roma, 20 febbraio 2017