giovedì 31 ottobre 2013

Segnalazione

L'insignificanza
(di Felice Celato)
Bene, anche ottobre se ne va! Finiamo il mese con una breve segnalazione letteraria, proprio “fresca”, però, perché il libro è giusto uscito ieri, in “prima edizione mondiale”(?): è La festa dell’insignificanza di Milan Kundera (Adelphi), un breve (poco più di 100 pagine)  romanzo (?) che, devo dire, si legge benissimo e mette allegria.
L’autore lo conoscono tutti: secondo me è un grande scrittore, fra i più grandi viventi (come dice Calasso), direi anzi, forse meglio, un grande letterato del quale ho citato sicuramente più volte su questo blog le riflessioni sul romanzo come forma “esplorazione dell’esistenza”.
Il libro è strano, ma nemmeno troppo se si considera la narrativa di Kundera: in fondo mi pare un’epitome esplosiva, una specie di fuoco d’artificio che “conclude” (intendo dire artisticamente) un percorso di “surrealizzazione” del presente che mi pare di leggere in molti dei romanzi di Kundera. Non a caso, credo, nel libro è casualmente menzionata, solo per le lunghe file che impone ai visitatori, una mostra parigina di Chagall: in fondo La festa dell’insignificanza è proprio una meta-storia chagalliana, con tanto di angeli svolazzanti sulla città, di comparse storiche incongruenti, di ironia velata di garbata tristezza (“L’insignificanza, amico mio, è l’essenza della vita. E’ con noi, ovunque e sempre” dice Ramon, un co-protagonista del libro, dal carattere vagamente felliniano) e di umorismo delicato e pietoso (“Parlare senza attirare l’attenzione non è facile! Essere sempre presenti attraverso la parola ma restare inascoltati richiede del virtuosismo!” dice sempre Ramon).
Una lettura…..indulgente e gradevole, forse anche da ripetere a distanza di tempo dalla prima; e che fa venire voglia di rileggere Kundera, andando a ritroso nel tempo della sua “produzione”.
Roma, 31 ottobre 2013


mercoledì 23 ottobre 2013

Segnalazione dubbiosa

Il rifugio
(di Felice Celato)
Non sono riuscito a definire il libro che ho appena finito di leggere (di W.Paul Young, Il rifugio, BUR) con un giudizio sintetico del tipo di quelli, forse apodittici, con i quali classifico le mie letture. Voglio però parlarvene perché chi avrà voglia di leggerlo mi aiuti a “classificarlo”.
Di che si tratta? Lo definirei un romanzo teologico, o, forse meglio, una moderna favola teologica; la storia narrata è per un verso comune e per un altro –ovviamente – assolutamente straordinaria, come vedrete subito: un padre (siamo nell’America del Nord, ai tempi nostri), che ha perduto una delle sue figlie in un tragico fatto di sangue, riceve un misterioso biglietto col quale Dio lo convoca nel luogo della tragedia (un rifugio di montagna) e qui, in un’atmosfera fra l’onirico, il metafisico e l’assolutamente ordinario e quotidiano, si incontra con le tre persone della Trinità, per un lungo dialogo denso di immagini e di rivelazione.
Sicuramente, almeno secondo il mio metro di giudizio, il libro ha qualche pagina di troppo; forse in qualche punto il dialogo non si nega alcune sfumature omiletiche vagamente convenzionali (tipo New Age?); ma, in più larga misura, mi è parso un romanzo (perché di questo si tratta!) ricco di suggestioni e stimolante nel tessuto delle argomentazioni (tutte "ortodosse"? ed è poi importante che lo siano?), oltreché assolutamente originale nel concept narrativo e, per alcuni tratti, anche commovente (come, del resto, la vicenda stessa necessariamente implicava).
Da che nasce, allora, il dubbio insito nella "segnalazione dubbiosa"? Non saprei dire. Forse dalla necessitata – ma efficace – semplificazione (sempre fedele?) dei temi trattati, vagamente “americana”, come si direbbe con approssimazione corrente? Forse proprio dagli intenti suggestivi, evidenti, anzi nemmeno tentativamente occulti? Ripeto: non lo so, ma mi aspetto che qualcuno che volesse leggerlo mi dica la sua opinione.
Posso dire che sicuramente troverete almeno divertenti le soluzioni scelte per “incarnare” le tre persone della Trinità, ovvia, forse, per Gesù (in fondo, un falegname), ma assolutamente originale per il Padre (una grossa donna di colore) e per lo Spirito Santo (una orientale, leggera come il vento).

Roma, 23 ottobre 2013

domenica 20 ottobre 2013

Discontinuità

L’Italia è stanca
(di Felice Celato)
L’Italia è stanca: non dalla fatica, per quanto per molti italiani la vita sia diventata assai faticosa, né dalla strada percorsa, perché il Paese è da troppo tempo immobile, seduto con le mani in grembo.
L’Italia è stanca mentalmente, come un vecchio, sazio di giorni e attardato nei suoi processi mentali, che non capisce più dove vive e quanto gli resta da vivere; che non riconosce chi gli sta dintorno e che si sente sfuggire le forze persino per essere autonomo. E allora si aggrappa alle memorie, che rivive con incongrua passione, siano esse memorie di un’epoca innervata dalle ideologie o memorie dolorose (anzi tragiche) di un tempo ormai lontano; non riesce più, l’Italia, a capire il presente, in parte perché non ha adeguato il suo modo di guardare al mondo che cambia, in parte perché il presente è troppo confuso e rumoroso per consentire ad un vecchio di discernere le radici di un bene che, pure, per quanto occultato da mille retoriche vuote, non può essere scomparso dal mondo (e da questo piccolo, oscuro frammento di esso che è la piccola Italia).
Da tempo sta maturando, nei più avveduti, questa percezione di stanchezza mentale del paese: ne parlano, con ricchezza di accenti, le analisi del Censis, i molti articoli degli osservatori meno ideologizzati (gli ultimi, oggi: Galli della Loggia sul Corriere della sera e di Zingales su Il sole 24 ore) e, nell’angusto confine di questo blog per pochi amici, anche le nostre note tristi che, da tempo, mi sono valse l’etichetta di un solitario e cupo  pessimista.
Francamente non vedo come si possa uscirne se non, come dice Capaldo (vedasi la relazione introduttiva al Convegno “Punto e a capo” del 13 ottobre scorso), attraverso un forte processo di discontinuità: anzitutto dei politici, nei confronti della loro trita strategia dei piccoli aggiustamenti tattici, delle misure di corta portata, ammantate di vuoti slogan epocalistici e intrise di disprezzo per la capacità di discernimento dei cittadini (la vicenda Imu/Tasi ne è un esempio, solo il più recente); e disconnessi da una progettualità seria che affronti i veri temi del paese (eccesso di burocrazia e di stato, statalismo opprimente e pervasivo, anche nella immaginazione delle vie d’uscita dalla crisi economica, etc), ridando alla politica quel fondamento etico che, come dice Capaldo, non sta solo nel non rubare ma ancora prima nel fare ciò che si deve fare. E, poi, discontinuità dei cittadini nei confronti del loro modo di porsi verso la politica, alla quale sarà giusto riconoscere il rispetto che merita (quando lo meriterà) ma dalla quale è anche giusto rivendicare la protezione per le cose che il cittadino da solo o associato sa e può fare meglio di uno stato, esausto della propria costosa inefficienza.
Che questa discontinuità sia alla portata culturale e sociologica del Paese, si può anche dubitare, ovviamente. E si può anche dubitare che sia possibile trovare un “attivatore” di questo processo, visto che occorrerà cercarlo nell’ambito della politica (che al momento non sembra offrire attenzioni per istanze di riprogettazione del futuro).
La discontinuità, purtroppo, talora esige passaggi traumatici, che ovviamente nessuno auspica.
Resta, se no, la continuità, fatta di “parlare del parlare”, di polemiche sui funerali (siano essi di Priebke o dei poveri immigranti di Lampedusa), di nuove operazioni Alitalia, di conti che non tornano, di debito pubblico che non cala, di disoccupazione che non scende, di spese che non si tagliano, di pressione fiscale opprimente, di impoverimento industriale, di competitività che cala, di livelli di istruzione inadeguati, di servizi scassati, e di quant’altro siamo abituati a sentire, quasi insensibili, ormai, agli “allarmi” che ogni giorno, come dicono “i buoni giornalisti”, ci sentiamo lanciare da ogni parte, ma anche increduli “ai segni di ripresa” che, anch’essi, si vogliono scorgere da ogni parte.

Roma, 20 ottobre 2013.

giovedì 17 ottobre 2013

Stupi-diario criminale

Negazionismo
(di Felice Celato)
Per definire la negazione dell’Olocausto si può attingere a copiose mani nel vocabolario della lingua Italiana: desolante stupidaggine, clamorosa fesseria, balorda cretinata, semplice scemenza e così via (fate voi); ancora più efficacemente si potrebbe attingere al vocabolario non scritto delle correnti espressioni più icastiche e rudi, quelle financo abusate nel linguaggio di tutti i giorni, che, però, non sono proprie di una conversazione civile (ed educata) quale vorrebbe essere quella che ha origine, fra pochi amici, da questo blog.
Mi viene assai più difficile immaginare che una opinione così smaccatamente antistorica e sgangherata possa diventare un reato, con pena edittale di 5 anni di galera. Eppure, il rissoso e scomposto Parlamento Italiano pare abbia trovato (in Senato, in commissione, però referente) l’unanimità per votare un reato di (sciocca) opinione, evidentemente anche sulla base di “ben motivate” argomentazioni tipo quelle utilizzate da una eccellente senatrice del PD che, stando al Corriere della sera di ieri, avrebbe dichiarato: “L’approvazione del testo sarà una risposta definitiva [sic!] anche a quanto contenuto nel testamento di Priebke che negherebbe [sic!] l’esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento. Un atteggiamento odioso che ora diventa un preciso reato [sic!].”
Ma tant’è, questi sono i tempi, queste le persone che mandiamo a rappresentarci, questi sono “i pensieri” che corrono veloci nelle loro menti illuminate.
Mi immagino i processi che ne seguiranno se questa sciocchezza parlamentare diventasse legge, le argomentazioni degli incolpati per scagionarsi, i ricorsi alla Corte Costituzionale, gli esempi di negazionismi non sanzionati, magari le perizie di storici, di parte e d’ufficio, le vuote chiacchiere sulle chiacchiere vuote.
Lo so che questo reato esiste anche in altri Paesi; lo so che al negazionismo sono spesso legati intenti ideologici talora anche pericolosi. Ma, lo stesso, non mi sembra una buona idea quella di trattare i fessi da criminali: se estendessimo il concetto, temo che le galere sarebbero piene…..e (direbbe Mina) le strade vuote.

Roma, 17 ottobre 2013

PS: valgono per questo post le stesse premesse di quello precedente

domenica 13 ottobre 2013

Funerali

I funerali di Priebke
(di Felice Celato)
Credo che nessuno che mi conosca possa negare la mia vicinanza, la mia stima, la mia ammirazione per la cultura e la spiritualità ebraica alle quali ho dedicato, da molti anni, lunghe letture, passione intellettuale e vero affetto.
Figuriamoci dunque se si possa immaginare un mio “cedimento” sulla condanna di uno qualsiasi dei tanti, ingiusti e atroci dolori cagionati a questo popolo e a questa “stirpe” di nostri padri nella fede e nella nostra cultura!
Dunque non ho dubbi – e come si potrebbe altrimenti? – sulla natura criminale degli atti esecrandi compiuti, proprio nella nostra città, da Priebke, 70 anni fa, ferma restando la necessità di guardare a queste terribili colpe alla luce di considerazioni che abbiamo svolto altre volte sul tema della “banalità del male” (vedansi i post su Ecologia della convivenza/2 e /3, rispettivamente del 5 aprile e del 20 agosto 2012).
Bene, sgombrato il campo da questo impossibile dubbio, eccomi ora a discutere, da cattolico (guelfo e clericale, se volete, ma non chierichetto!) sugli strani ondeggiamenti pubblici che leggo sui giornali (da prendere quindi, come al solito, col beneficio di inventario!) da parte del Vicariato di Roma (appoggiato, incredibilmente, pare, dal teologo Bruno Forte, che ho sempre letto con ammirazione) sulle esequie religiose di Priebke.
Esecrando criminale, pentito o non pentito (non giudicherei dalle “dichiarazioni” pubbliche di un centenario!), Priebke, che – dice il suo avvocato (sul Corriere di oggi) – “era un fedele della Chiesa, si confessava e ha anche ricevuto l’assoluzione”, va accompagnato al giudizio di Dio con gli stessi riti che “spettano” ad ogni uomo che si creda, si dichiari e si senta fedele, anche in limine mortis; nel silenzio, nella discrezione, nella riservatezza anche, che si ritengano necessarie per evitare becere manifestazioni di contrapposta emotività, ma non vedo ragione per non farlo, quand’anche questo dovere possa spiacere “alla pubblica opinione”.
E va seppellito, dove, per le stesse ragioni, si ritenga più opportuno, ma come ogni altro peccatore.
Su tutti i morti si stende il silenzioso rispetto che si deve al giudizio misericordioso di Dio padre, che, attraverso Suo figlio, ha preso su di sé, tutti i peccati del mondo.
Non vedo alternative praticabili in coscienza e nella fiducia nella misericordia di Dio (alla quale nulla è impossibile), né per Priebke, né per i mafiosi, né per i suicidi.
Le forme sono un altro problema.

Roma13 ottobre 2013