mercoledì 24 gennaio 2024

Un libro da leggere

La terra del futuro 

(di Felice Celato) 

Dopo le retro-divagazioni letterarie di qualche giorno fa, ecco una ulteriore breve segnalazione di un libro; da leggere, però, stavolta, con attenzione e con le gambe sotto ad un tavolo: La terra del futuro – Concupita, incompresa, sorprendente, di Federico Rampini (Mondadori, 2023). 

Si tratta, lo dico subito, di un libro pesante (in senso buono), scritto con esemplare chiarezza, denso (circa 330 pagine piene di fatti e di opinioni pensate) e intenzionato a stupire con la sua collezione di luoghi comuni diffusi e radicati; un libro, starei per dire, di debunking (*) ragionato e sistematico di tutto quanto crediamo di sapere sull’Africa, un continente più grande di Stati Uniti, Cina e India messi insieme, con la popolazione più giovane del pianeta, con una diaspora caratterizzata da alti livelli di apprendimento e di successo accademico (soprattutto negli USA, a dispetto di  convenzionali pregiudizi), con élites di qualità, quand’anche talora invischiate in retroterra del potere non esenti da pratiche corruttive che gravano alcuni paesi africani di una cappa di piombo difficile da estirpare e ne appesantiscono le prospettive (a breve). 

Il libro, tuttavia e saggiamente, non propone una tesi ben definita sul futuro dell'Africa… perché questo futuro lo costruiranno gli africani, che non mancano di inventiva, creatività, capacità di adattamento e hanno riserve di speranza rispetto al cupo pessimismo di tanti europei, prigionieri spesso di rituali sensi di colpa per alcuni passati colonialisti certamente non commendevoli, o di interessati pregiudizi che tendono a dipingere il continente africano come una bomba demografica caricata per esplodere a “nostro” danno; magari trascurando – perché scomoda da gestire – la vasta problematica di sicurezza che, in Africa, tende ad accumulare interessate e certamente non gratuite attenzioni geo-politiche (leggasi Russia, soprattutto); e una problematica che – naturalmente – si intreccia con la domanda di investimenti esteri difficile da soddisfare in competizione col robusto modello cinese di presenza in Africa.

La radiografia che Rampini svolge su molte delle realtà socio-politiche dell’Africa è troppo vasta per tentarne, in poche righe, una ulteriore sintesi (anche perché le situazioni considerate sono caratterizzate da non trascurabili specificità); mi limito soltanto, per finire questa raccomandazione di attenta lettura, a sottolineare la Postilla italiana con la quale si conclude il volume: poche pagine ma – mi pare – acutamente focalizzate sulle nostre superficiali percezioni dell’attuale situazione dell’Africa e sui convenzionali stilemi politico-comunicativi che, come spesso ci accade, ci impediscono di guardare con realismo alle stesse nostre specifiche potenzialità, facendoci talora prigionieri dei nostri stessi slogan (per esempio, il cosiddetto Piano Mattei) ad uso prevalentemente interno. Non bastano - scrive Rampini - le “mancate colpe” rispetto ai nostri vicini europei (l’Italia in fondo è stata un paese irrilevante nel colonialismo dei secoli scorsi) per costruire una strategia incisiva in questa parte del mondo. Tra le contraddizioni che ci indeboliscono, oltre all'ossessione sull'Apocalisse africana (economica, climatica, migratoria), …un ambientalismo radicale nei toni e ipocrita nella sostanza  che ci impedisce di vedere quali scelte vanno fatte anche a beneficio dell'Africa; …un estremismo umanitario …che include la pretesa di condurre una politica estera basata sull’assoluta intransigenza etica, di sottoporre la geopolitica al test della purezza (…senza i nostri imprenditori non possiamo pensare che il contributo italiano al futuro dell’Africa sia affidato solo ai missionari e alle ong: malgrado i loro meriti, abbiamo ampie prove che non bastano). Infine, un sedicente pacifismo che ci rende impotenti e poco credibili in una parte del mondo che chiede sicurezza. 

Roma 24 gennaio 2024

 

(*) Dal dizionario dei neologismi della Treccani: debunking: opera di demistificazione e confutazione di notizie o affermazioni false o antiscientifiche, spesso frutto di credenze, ipotesi, convenzioni, teorie, ricevute e trasmesse in modo acritico.

giovedì 18 gennaio 2024

Riletture

 Repetita taediant?

(di Felice Celato)

Mi pare di aver detto più volte che l’esercizio di rileggere a distanza di tempo libri già letti ha per me un significato triplice: il primo e più ovvio è quello di rivivere suggestioni letterarie e culturali già sperimentate (ovviamente se il libro che si rilegge ha, nella mia memoria, le qualità per meritare una rilettura; per esempio, qualche tempo fa ho riletto I Promessi sposi); il secondo è quello di misurare gli effetti del tempo (e dell’età) sui miei stessi giudizi; poi, talora, ce n’è un terzo (riservato però a soli pochi libri) che sta tutto nella funzione “psico-terapeutica” che assumono per me alcune letture; così, per fare un esempio altre volte qui confessato, rileggere Requiem di Antonio Tabucchi (l’ho rifatto forse per la ventesima volta in queste notti) mi comunica un senso di dolcissima evasione in un “luogo” della mente dove la realtà scompone il vissuto e i ricordi in atmosfere oniriche e metafisiche (cfr. post del 28 3 2012). E l’evasione per almeno una notte dura!

In questo tempo in cui l’osservazione del mondo  non suscita certo entusiasmi ma, per quel che mi riguarda, nemmeno modeste indulgenze, ho ripreso in mano un libro di quasi settant’anni fa (di Mario Pomilio: Il testimone, Mondadori), scritto da un autore del quale ho programmato una integrale rilettura. Potrebbe apparire un singolare thriller (sia pure di grande eleganza culturale), dove l’assassino propriamente non è un uomo ma una crudele concatenazioni di fatalità che il semplice adempimento di un dovere non riesce a dominare. La banalità del male si direbbe ripensando ad Hannah Arendt; e, infatti, il protagonista del libro di Pomilio, di fronte ai dolori che il puro adempimento del dovere scatena, si lascia consolare così: in fondo, nell'ambito del proprio dovere, quando uno si è applicato sul serio a compierlo, ciascuno finisce per avere il suo grande alibi…; ma gli restano in mente le inquietudini che qualcuno gli ha gettato addosso, quasi casualmente: se almeno in quel grande deserto che sta diventando il nostro spirito, potessimo recuperare la coscienza di non essere soli; se almeno tutte le volte che stiamo facendo qualcosa ci sforzassimo di immaginarci di avere un testimone delle nostre azioni….

Torno brevemente al tema che la ri-lettura mi ha evocato: la banalità del male, dicevo; ma in una configurazione più adatta a quella che mi pare la nostra dimensione del presente (certamente meno drammatico di quello che considerava la Arendt nel raccontare il processo ad Eichmann): il male della banalità, cioè il male che ci facciamo con la nostra (forse inconsapevole) acquiescenza alla qualità del nostro pubblico vociare. Ne parlavo qui quasi nove anni fa – cfr. post del 18 maggio 2015, al quale rinvio; rileggendomi, mi trovo, ancor oggi e forse ancor di più, in quello che scrivevo.

Se penso che in questo contesto sociologico e “culturale” ci avviamo verso una consultazione elettorale di grande rilievo per il nostro futuro, mi vengono i brividi. 

Infine un’altra rilettura, presa anche questa da un autore qui più volte segnalato e da me molto amato: di Eric Emmanuel Schmitt Il figlio di Noè       (e/o editore, 2018). Anche di questa emozionante e gradevolissima lettura, però, mi sono accorto di aver già parlato ai miei pazienti lettori (cfr. Una favola per adulti del 30 novembre 2019). 

Dunque i casi sono due: o morbus ipsa senectus, e – si sa – nella vecchiaia ci si ripete; o – ed è la tesi alla quale disperatamente mi aggrappo – sono le circostanze del presente che mi inducono a volgermi indietro, sia nelle letture che nelle riflessioni che le accompagnano. Il guaio è che queste ultime, col passare degli anni, tendono a farsi più cupe, non foss’altro che per la constatazione che il decorso del tempo non ha migliorato le mie percezioni. Che debba rassegnarmi al morbus ipsa senectus?

Roma 18 gennaio 2024

venerdì 5 gennaio 2024

Frivolezze di un anziano

 L’ambiguo conteggio del tempo

(di Felice Celato)

I numeri non dicono tutto, lo so; e anche chi, come me, ha passato una vita ad occuparsi di essi e del loro significato, non può non riconoscerlo. Quando poi – come dicevo giusto quattro anni fa – i numeri vengono usati per misurare il tempo, ci si rende conto che essi non esprimono le qualità che fanno di ogni singola unità una sorta di piccola monade esistenziale, pur nella continuità del fluire degli anni: che vita facevo quando avevo, per esempio, 25 o 50 anni? E quanto è differente l’intensione (*) di quegli anni, cioè il loro contenuto esistenziale, anche a prescindere dalla loro estensione? In fondo, da questo ultimo punto di vista (quello dell’estensione), il 25° anno di età dura quanto quella del 50° o 75°; ma dal punto di vista dell’intensione le cose sono molto diverse. E ce se ne rende conto… appunto col passare del tempo, stavolta nella complessiva dimensione dell’estensione. 

Per esempio, quando avevo 25 anni non avrei mai pensato che, cinquanta anni dopo, oggi, appunto, sarei stato lungamente impegnato nell’ozioso esercizio della tardiva addizione di ampiezza alla seconda leva (quella del polso) durante la torsione del back-swing (cioè nel tipico caricamento di energia golfistica). 

Segno buono, diranno, con ottime ragioni alcuni miei lettori: se hai dimenticato le angosce sul presente con cui ci delizi in quasi tutti i tuoi post e se non hai altri problemi, va bene anche caricare la seconda leva

Siano ben chiare due cose: (1) per una volta, lasciatemi prescindere dal contesto angoscioso e rotolarmi nella frivolezza; ma, siatene certi, non mancherò di tornare a deliziarvi! (2) Non è che non mi renda conto dell’immenso dono che ho ricevuto dalla vita – e ne ringrazio ogni giorno Iddio – per potermi dedicare a questa oziosa incombenza della seconda leva senza l’ingombro di ben più gravi ansie con cui pure ho lungamente convissuto. Però, come diceva un mio Presidente di una vita fa parlandomi delle sue fatiche di cacciatore di alto bordo, molti non sanno quanto sacrificio costi stare tutta la notte col dito intirizzito sul grilletto aspettando che passi il camoscio! E anche il tardivo sviluppo della seconda leva non è che non costi sacrifici, da molti - ne sono certo -  sottovalutati o addirittura ignorati!

Come che sia, guardando avanti, solo per oggi con animo frivolo ed in forma totalmente de-contestualizzata, per quest’ultimo quarto della mia vita oggi mi propongo di acquisire il miglior polso che un golfista centenario possa mostrare agli increduli amici delle mattinate faticosamente oziose. Ma ancora di più – e ben più seriamente – mi auguro di continuare a vivere in salute, nel conforto di una meravigliosa famiglia che cresce, sotto l’occhio del Padre che ho sentito per tutta la vita rivolto ad essa e a me, anche durante le tempeste. E mi auguro anche di potere seguitare a sorridere, talvolta, del tempo e sul tempo che scorre inesorabile, coi miei amici che il tempo stesso ha benevolmente selezionato fra i più pazienti che un provocatore come me potesse desiderare.

Roma, 5 gennaio 2024

 

(*) NB: intensione, come si sarà capito,  non è un errore di ortografia: un conto è l’intenzione, cioè l’orientamento verso il compimento di un’azione; e un conto è l’intensione, come sinonimo (forse arcaico) di intrinseca intensità, come meglio illustra la solita Treccani.