giovedì 25 giugno 2020

Letture

Discontinuità e continuismo

(di Felice Celato)

I lettori di queste mie note sanno bene con quanto interesse e passione segua le analisi e le opinioni con le quali Giuseppe De Rita, da oltre mezzo secolo, accompagna le vicende sociologiche di questo nostro stanco paese; eccomi dunque a segnalare un piccolo volume (Come cambia l’Italia – Discontinuità e continuismo, e/o editore, Collana di pensiero radicale, 2020) che raccoglie tre brevi saggi di De Rita (Il Consolato Guelfo – Un’ipotesi di governo del futuroIl cimento del continuismo nelle turbolenze della discontinuità; e, infine, Di ritorno dalla disintermediazione) come al solito lucidi, ragionati e….dolenti.

Il medico pietoso lascia la ferita infetta, era solito dire mio padre, come per giustificare il temporaneo abbandono della impostazione liberale nell’educazione di noi figli, quando – raramente, per la verità – si vedeva costretto ad irrogare qualche punizione o ad imporci qualche divieto. Perciò, anni fa, quando mi venne in mente, ebbi qualche remora a pensare Giuseppe De Rita come un medico pietoso; ma il senso che mi parve (e tuttora mi pare) appropriato attribuire alla piccola metafora non era quello del medico che rinuncia alla cura per non causare dolore al malato (potrei fare molti esempi tratti dalla politica nostrana!) ma quello del medico che, dopo profonde e dolorose disinfezioni delle ferite, prova una profonda pietà per il malato che ama. Credo che chi voglia capire più a fondo la com-passione di De Rita per il paese che da cinquant’anni disseziona con le sue analisi, dovrebbe fare l’esercizio (molto interessante) di rileggere in sequenza le sue Considerazioni generali con le quali introduceva l’annuale Rapporto Censis (le ha raccolte e commentate in un volume che credo di aver già segnalato ai miei ventiquattro lettori: Dappertutto e rasoterra, Cinquant’anni di storia della società Italiana, Mondadori, 2017, ebook).

Bene: i tre brevi saggi contenuti nel volumetto che oggi segnalo, letti in sequenza, mi hanno restituito l’immagine del medico pietoso che, però, stavolta, comincia – così mi è parso –  a dubitare delle possibilità di sottrarre l’amato infermo al destino che della sua involuzione. Riecheggiano tutte, le sue spietate diagnosi, nei tre saggi in discorso, come pure le fulminanti intuizioni del suo lessico incisivo e spiazzante. Ma il volumetto va letto con attenzione e meditato a lungo; e non è possibile in poco più di settecento parole riassumere i fili del suo ragionare. Ma mi pare di cogliere, nella pietà del diagnostico, una qualche venatura di sconforto [Lo sviluppo italiano in altre parole ha avuto una profonda radice di psicologia di massa, tanto da poter dire che esso è stato uno sviluppo a forte intensità psichica. E questo spiega alcuni suoi esiti antropologici decisamente ambigui visto che siamo diventati in fondo una società emozionale sia nei rapporti micro (dei singoli soggetti) sia nella vagante relazionalità complessiva; una società che scivola facilmente in pieghe di patetismo, di edonismo, spesso di narcisismo; una società senza intenzionalità collettiva (di nuovi traguardi e impegni) che si condanna quindi alla staticità emotiva del moralismo (tradotto con furbizia in etica collettiva);  una società dove tale soggettività moralistica si esplica essenzialmente nei media con l'effetto (tramite la diffusione virale dei messaggi) di attivare una serialità “giustizialista” che è scarsamente controllabile e governabile. 

Tutte queste caratteristiche hanno particolare effetto regressivo nella nostra identità collettiva]. 


Una venatura di sconforto, dicevo, temperata però dalla com-passione tenace che si affanna a formulare una prognosi riservata ma non disperata; da un lato ricostruendo, in chiave di orgoglioso impegno di essere soggetti della propria storia, la trama di un continuismo che – nonostante tutto – può sopravvivere  alle “botte di discontinuità” combattendo i vizi antropologici della società con le virtù antropologiche dei soggetti; dall’altro, abbarbicandosi alla coltivazione di una rinascente vitalità – in limine mortis, mi viene da dire – delle tradizionali strutture di rappresentanza, per arrestare gli esiti della accelerata disintermediazione socio-politica che ha adulterato la rappresentanza in rappresentazione.... (funzione più coerente – aggiunge De Rita – alla componente spettacolare dell’attuale opinione pubblica).

Non so dire se – come scrive il prefatore (Piergiorgio Giacchè) – si tratti dell’ultimo gesto ottimista che si può tentare (di solito faccio fatica a dare senso…ultimativo all’aggettivo ultimo). Resta il fatto che De Rita (rappresentante di prima fila di quegli uomini di stato meno evidenti  e più sapienti che accompagnavano la politica e ne influenzavano la cultura) continua a meritare ascolto attento e intelligente (= che ha facoltà di intendere e di ragionare, secondo la Treccani).

Roma 25 giugno 2020

sabato 20 giugno 2020

Anche il C.U.R. finalmente capisce

Noi e i numeri

(di Felice Celato)

Oggi, tornando da una sfortunata giornata golfistica, ascoltavo per radio uno dei soliti fessi disputare con passione lunare sulla “natura” delle attese erogazioni del Next Generation EU (se siano, in tutto o in parte,  “prestito” o “a fondo perduto”) ed ho avuto un’illuminazione folgorante fornitami da uno degli occasionali “incontri” in qualità di C.U.R. (Camminatore Urbano Rimuginanante).

Andiamo con ordine: Il Next Generation Eu è lo strumento (di debito) col quale la UE si propone di raccogliere sui mercati un’ingente somma di denaro per concedere erogazioni ai paesi colpiti da Covid (e fra questi, come sappiamo, il nostro Paese-colibrì). Ora, a prescindere da come i fondi saranno erogati ai singoli paesi (se con diretto obbligo di restituzione nel tempo o senza tale diretto obbligo, cioè a fondo perduto, come ci piace dire), è chiaro ad ogni persona ragionante che trattasi, come dicevamo, di uno strumento di debito europeo, cioè NOSTRO; e che, quindi, anche la parte non gravata dell’obbligo diretto di restituzione nel tempo, va, sempre nel tempo, restituita ai mercati dall’Europa, cioè da NOI, tutti insieme, sia pure indirettamente (e sta qui la grande portata “storica” dell’operazione, perché con essa l’Europa si propone di contrarre un debito a nome dei paesi che la costituiscono e di cui ciascun paese sarà “fiscalmente” responsabile in ragione della sua “quota” di partecipazione economica all’UE; Angelo Baglioni e Massimo Bordignon ne spiegano benissimo la natura su Lavoce.info, vedasi al link  sotto riportato).

Bene: che noi Italiani non abbiamo molta confidenza coi numeri e con la “ragione” che sta dietro di essi, non è cosa nuova (la nostra storia del debito pubblico e del suo rapporto col PIL, cioè con la produzione annua di ricchezza del Paese, ne è la prova; se non ci credete, provate a chiederne in giro il senso). Ma quanto accaduto al C.U.R. giusto l’altro ieri aiuta a comprendere quanto questa non-confidenza sia radicata nella nostra “cultura”, al punto che basta la presenza di un numero in un discorso per farci perdere la ragione. Ecco la storiella (vera ancorché possa sembrare inventata da Verdone): il C.U.R. era in attesa del verde al semaforo che immette da Via Arenula su ponte Garibaldi (a Roma naturalmente, perciò mi proverò a raccontarla nel mio approssimativo romanesco, per rispettare la scena e anche per esaltarne il sapore Verdoniano). Una coppia di non più giovani romani incontra al semaforo quattro ragazzini che risultano subito i quattro nipoti della coppia (quando dico coppia intendo eterosessuale). Abbracci con mascherine e scambi di gomitate; poi la zia dice al più grande dei quattro ragazzini: Tanto se vedemo stasera pa’a pizza; T’ haa detto tu’ madre? Speramo che c’haa fanno magnà inzieme, sta’pizza!

Certo a’zì, basta che prenotamo! – dice il ragazzino che sembra conoscere il mondo meglio della zia. Vabbè mo’ vado a casa e prenoto pe’ sei, risponde la zia contando mentalmente i quattro (4) ragazzini e sé stessa con marito (dunque 2).

Come pe’sei ?? – dice il ragazzino – Pe’ nove! Mi’ madre e mi’ padre n’ci i conti? (ma, come sappiamo, sei più due fa otto!).

Ah ci’hai raggione, pe’ otto allora! Fa sennatamente la zia (infatti i 6 presenti sul luogo più i 2 genitori assenti fa 8).

Ao Zi! Mo’ manco a me me ce conti? Obbietta il ragazzino. Ah! vabbè, pe’ nove, si corregge la zia.

Venuto il verde al semaforo, non so dire se si sia proceduto ad un più ragionato ricalcolo dei presenti alla pizza, ma questa scenetta (rigorosamente vera) mi ha spiegato tutto! 

I numeri (e la ragione che vi sta dietro) non sono proprio il nostro forte (come dimostrano i famosi test PISA)! E allora anche il senso del dibattito sulla “natura” delle erogazioni di fondi a valere sul Next Generation prende luce.

Roma 20 giugno 2020 (anniversario del matrimonio dei miei defunti genitori: grazie!)

 


https://www.lavoce.info/archives/67381/recovery-fund-una-grande-occasione-da-non-sprecare/)





venerdì 19 giugno 2020

Stupi-diario ornitologico

Il paese-colibrì

(di Felice Celato)

Ci voleva una suggestione letteraria (Il colibrì, di Sandro Veronesi, La Nave di Teseo, 2020, candidato al premio Strega) per pararmi d’innanzi un’immagine che mi ha fulminato.

Andiamo con ordine: colibrì era il nomignolo attaccato, nell’infanzia, a Marco Carrera, il protagonista del romanzo di Veronesi (del quale ora non intendo parlare perché non l’ho ancora finito di leggere; e non sono un giornalista avvezzo a trascurare questi particolari); e rifletteva – quel nomignolo affettuoso – un suo modo di essere, piccolo, di bellissimo aspetto e molto delicato, come dicono sia, appunto, il colibrì.

Dunque, digiuno come sono di zoologia (non ostante l’amatissimo padre veterinario), ho cercato di saperne qualcosa di più, del colorato ed esotico uccellino, cercandolo su Wikipedia. E la lettura delle semplici informazioni che Wikipedia meritoriamente mette in ordine mi ha spalancato davanti un’immagine che mi è parsa subito una eccellente metafora dell’Italia: Sono considerati – i colibrì, uccelli della famiglia delle Trochilidae diffusi soprattutto nelle Americhe – gli uccelli più piccoli al mondo: la maggior parte della specie ha un peso tra 2,5 e 6,5 grammi e una lunghezza tra i 6 e i 12 centimetri. Hanno l'abilità di poter rimanere quasi immobili a mezz’aria, capacità garantita dal rapidissimo battito alare (dai 12 agli 80 battiti al secondo, a seconda della specie) e che consente loro di potersi cibare del nettare dei fiori. La straordinaria mobilità degli arti superiori consente loro prodezze di volo inimmaginabili per altri uccelli, come volare all'indietro. Inoltre, in caso di scarsità di cibo o durante il sonno, sono in grado di cadere in uno stato di torpore che consente loro di risparmiare energia, rallentando drasticamente il loro rapidissimo metabolismo.

I rumorosi cantori dai tetti protesteranno che l’Italia è ben più di un minuscolo uccellino, sia pure dotato di un brillante piumaggio policromo! In fondo siamo sempre lo 0,8% della popolazione mondiale e lo 0,2% della superficie terrestre globale! Perbacco! E inoltre siamo i maggiori produttori di parmigiano al mondo, anzi gli unici autentici! Altro che colibrì! Aquile, siamo! Invece, parmigianismi a parte, il colibrì mi pare ci rappresenti benissimo: è minuscolo (come il nostro paese), bellissimo (come innegabilmente è il nostro paese); e poi, soprattutto, è dotato della capacità di restare quasi immobile a mezz’aria, spendendo anche, però, un sacco energia per farlo (e qui noi siamo maestri, potremmo quasi fare scuola ai colibrì, di come si sta fermi a mezz'aria, consumando però molte energie, prevalentemente vocali!); anzi è anche capace di volare all’indietro (specialità, questa, di tanto in tanto anche da noi praticata); e, infine, è anche in grado di cadere in uno stato di torpore per risparmiare energia (noi anche per pigrizia mentale!).

Se i miei ventiquattro lettori hanno presente come qui ho più volte esternato le mie percezioni dello stato rumorosamente catatonico dell’Italia, non avranno difficoltà a passarmi questa fugace metafora ornitologica; speriamo che non ci serva anche la capacità del colibrì di rallentare il metabolismo in caso di scarsità di cibo.

Roma 19 giugno 2020

 

 

lunedì 15 giugno 2020

Il grado di autocoscienza

Popoli e storie

(di Felice Celato)

La progressiva dissoluzione del famoso lockdown ci restituisce le abitudini cui eravamo affezionati. Fra queste, per me c’è senz’altro il piacere di appassionati dibattiti fra amici (quelli dei quali nel tempo abbiamo coltivato, con accurata selezione, l’affetto, la stima e l’indulgenza) che anche precede, in ordine di gradimento, la recuperata pratica delle cosiddette passeggiate golfistiche (vaga allusione alla pratica tecnica del golf).

In quel rinato àmbito, è sorta – con effetto rigenerante – una discussione su un antico tema che è andato via via  - direbbe un politico della sinistra democratica - ponendosi al centro delle mie convinzioni sull’attuale stato del nostro paese (convinzioni sintetizzate nel ritornello “le colpe degli elettori superano largamente quelle degli eletti”). Credo che, nei moderni contesti democratici, non possano esserci dubbi seri su questo semplice enunciato (del resto, l’art. 1 della Costituzione Italiana, secondo comma, recita: La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione); ma sono quasi certo che – sul piano del tempo – il “principio” troverebbe ampie convalide anche risalendo indietro, almeno di più di due secoli e magari – sul piano delle diverse realtà culturali – applicandosi ad ambienti storici nei quali il concetto e la pratica effettiva della democrazia non sono maturate o sono maturate in forma altamente pregiudicata (lo spunto della discussione era giustappunto il contesto mediorientale e l’eterna cosiddetta questione palestinese).

Il tema è dunque quello delle responsabilità dei popoli verso la loro storia (quella cioè di cui possono essere gli "artefici"). Nessuno vorrà negare, tanto per fare qualche esempio tratto dalla storia più recente, la responsabilità del popolo italiano per l’avvento del Fascismo; o di quello tedesco per l’avvento del Nazismo; e di entrambi i due popoli per l’adozione e la pratica delle politiche razziali; o, per venire allo spunto, quella del popolo palestinese nell’essersi scelto (e tenuto) dei leaders che da troppi anni ne hanno coltivato la violenza (non a caso, credo, Benny Morris ha dato il titolo di  Vittime alla sua straordinaria storia del conflitto arabo-sionista fra il 1881 e il 2001; e il dopo è cronaca tragica).

Si dirà che ai popoli non possono essere addebitate solo le responsabilità “negative”; e che, di molti popoli, si possono giustamente rivendicare anche i meriti storici di straordinarie “lotte” per l’affermazione della loro dignità civile, che li fa, in buona misura, padroni dei propri destini (Praga, Budapest e Danzica ne sono, per esempio, i luoghi memorabili, tanto per restare in Europa). Ma l’obiezione – credo – non infrange il principio di responsabilità, anzi (in positivo) lo conferma.

Se dunque, per venire al nostro hic et nunc, i popoli sono – come credo – i definitivi responsabili delle proprie storie (e spesso le potenziali vittime dei propri errori), occorrerà porsi seriamente la domanda sul grado di autocoscienza della nostra generazione. Temo che sarà sconsolante, partendo dai risultati prodotti dagli eletti, valutare il grado di responsabilità espresso dal “popolo elettore". E a nulla servirà – sul piano della coscienza – invocare la dissoluzione del voto individuale nel mare magnum del voto di popolo; perché l’esercizio della cittadinanza non si esaurisce nel momento del voto ma si perfeziona nella coltivazione dei propri doveri di cittadino; fra i quali rientrano quello di informarsi da fonti appropriate – e fra queste, da noi, non figurano telegiornali e talk show –, di esercitare accuratamente il proprio senso critico, di "nutrire" le proprie meditate opinioni e di porle sempre a base di quel momentoIl prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, scriveva Karl Popper (citato nel libro Elogio della mente critica, di Enzo Di Nuoscio, Laterza 2016)

Roma 15 giugno 2020

mercoledì 10 giugno 2020

10 giugno

Le folle e la piazza

(di Felice Celato)

I lettori di questo blog sanno (o se non lo sanno avranno più volte avuto occasione di constatarlo) quanto poco colto (o addirittura quanto rozzo) sia lo scrivente in materia di psicologia. Sono tanto poche le letture che ho fatto in questa materia che potrei dirmi un autentico ignorante (magari con pochi rimpianti, tante sono le cose che ben più motivano le mie letture). Semmai mi suggestionano, invece, le scienze sociologiche che, pure, in qualche modo riflettono presupposti di natura psicologica, còlti però – in sociologia – come componenti co-essenziali di fenomeni complessi nei quali l’elemento psicologico “si disperde” nella formazione di quel coacervo di rapporti, sentimenti, pulsioni, storie, situazioni e correlati moventi politici ed economici che la “scienza” dei comportamenti sociali cerca di leggere. Non a caso, fra le mie poche e stagionate letture in qualche modo riconducibili alla psicologia, ci sono solo testi che si occupano di quella che, con felice espressione, Gustave Le Bon (nel 1895!) ha chiamato la Psicologia delle folle (Edizioni Clandestine, 2007, ebook).

Bene (anzi male, ché l’ignoranza non è mai cosa buona): proprio un passo del libro di Le Bon mi è tornato in mente stanotte mentre, sfogliando le edizioni appena sfornate da alcuni giornali, ho realizzato che oggi è il 10 giugno 2020, l’80° anniversario della entrata in guerra dell’Italia fascista: la piazza (piazza Venezia, a Roma) gremita di folla gridava entusiasta all’ora segnata dal destino che batte[va] nel cielo della nostra patria… l’ora delle decisioni irrevocabili che costarono al nostro paese mezzo milione di morti e distruzioni e sofferenze immani. Non mi è stato difficile stamane rintracciare quel passo, che credo ci faccia bene rileggere per comprendere quella piazza: Per il solo fatto di far parte di una moltitudine, l'uomo discende di parecchi gradi la scala della civiltà. Fosse anche, se isolato, un individuo colto, nella massa si trasforma in un soggetto dominato dagli istinti e conseguentemente proteso alla barbarie. Egli acquisisce la spontaneità, la violenza, la brutalità, gli entusiasmi, l'audacia degli esseri primitivi. Si fa simile essi per la sua facilità a lasciarsi impressionare da parole e immagini e per il modo in cui si fa guidare a compiere azioni che ledono i suoi interessi più evidenti. L'individuo della folla è un granello di sabbia in mezzo a innumerevoli altri che il vento solleva a suo capriccio.

La piazza, come luogo “deliberativo” (o semplicemente “validativo”) delle folle, è un topos essenziale di molte storie dell’uomo, un luogo forse perenne dove la personalità cosciente è annullata, la volontà ed il discernimento abortiti, quand’anche si possa dire che, nei giorni che viviamo, abbia in qualche modo ceduto la sua fisicità (ma non la sua dis-funzione) alla iper-comunicazione virtuale. Ma rimane pur sempre, la piazza (fisica o virtuale), il posto “pericoloso” dove tanto spesso la dissoluzione di una civiltà è condotta da moltitudini incoscienti e brutali ….il cui predominio segna sempre una fase di disordine.

Poi c’è sempre una sorta di cinica regola storica "delle piazze" che, con pari distruttiva brutalità, riconduce indietro le vicende umane, sui loro passi confusi; ad una piazza Venezia (10 giugno 1940) segue sempre un piazzale Loreto (poco meno di cinque anni dopo); o, come tanto tempo prima, all’Osanna un Crucifige (in poche ore). Perché, annota Freud commentando Le Bon, le folle non hanno mai provato il desiderio della verità (in Psicologia delle masse e analisi dell’io, Newton Compton, 2012, ebook).

Roma 10 giugno 2020

 

 

 

 

 

mercoledì 3 giugno 2020

Letture

Segnalazioni brevi

(di Felice Celato)

E’ un caso fortunato che abbia finito di leggere proprio ieri, Festa della Repubblica, il primo libro che voglio segnalarvi: di Gian Arturo Ferrari, Ragazzo italiano (Feltrinelli 2020). Si tratta di un romanzo scritto da un colto autore che (ben) racconta la vita di un (suo coetaneo) figlio del dopoguerra, attraverso l’ambiente umano in cui cresce e lentamente matura; che poi è l’ambiente della neonata repubblica italiana nella fase di risveglio dall’incubo della guerra e di avvio del “famoso” suo miracolo (economico ma anche sociologico e culturale), prima che cominciassero a manifestarsi i segni di quella malattia dissociativa di cui dicevamo l’altro giorno. Non è una vera storia, quella di Ragazzo italiano, ma una specie di macro-diario delle relazioni fra il giovane protagonista e il mondo che lo circonda, a cavallo fra la provincia Emiliana e la Lombardia, fino alla piena scoperta di sé grazie soprattutto alla scuola (un liceo milanese).

A me questo libro è piaciuto e mi sento di consigliarlo almeno a quelli (fra i miei ventiquattro lettori) che possano immaginare di trovarci – come è accaduto a me – brani della loro vita; e che, magari, vogliano un po' consolarsi della vitalità delle radici.

La seconda lettura è un (corposo) libro di tutt’altro genere: di Jeremy Rifkin, Un green new deal globale (Mondadori,2019). Rifkin, qui più volte citato, è un visionario esploratore del futuro, spesso straordinario anticipatore di scenari sorprendenti ma poi via via apparsi come concreti e infine anche realizzatisi [cito fra i suoi volumi quelli che ho letto, in tempi diversi e con diversa soddisfazione ma che ho sempre trovato molto chiari, molto ragionanti e anche avvincenti: La fine del lavoro (1995), Il sogno Europeo (2004), L’era dell’accesso (2000), La civiltà dell’empatia (2009), La terza rivoluzione industriale (2011), La società a costo marginale 0 (2014), quest’ultimo di particolare valore, a mio parere]. 

In questo sul green new deal globale (evidentemente e ovviamente scritto prima della famosa pandemia) Rifkin descrive il crollo della civiltà dei combustibili fossili e delinea, come recita il sottotitolo del libro, un audace piano economico per salvare la terra. Il tema non è nuovo, come ben si sa; e anche alcune delle soluzioni che Rifkin prospetta circolano da tempo; ma il merito di Rifkin è quello di farne un disegno sistematico che coordina issues di natura tecnologica (l’infrastruttura intelligente su scala globale per una generalizzata e indilazionabile de-carbonizzazione) con quelle economico-strutturali (i modelli concessori e i cd performance contracting) e di supporto finanziario (il nuovo capitalismo sociale). Naturalmente gli scenari geo-politici che sottostanno a questo tipo di macro-disegno restano affidati ai ragionati auspici dell’autore ma anche alla documentata coscienza del problema sia negli USA che in Europa ed in Cina. Un libro molto interessante, per quanto distratti si possa essere dalla famosa pandemia e dagli inquieti andamenti del mondo.

Infine una terza segnalazione: si tratta, stavolta, di un breve testo (di Massimo Recalcati, La tentazione del muro, Feltrinelli 2020) scritto in una chiave dominante molto estranea alla mia cultura (l’approccio psicoanalitico) ma centrato su alcuni cardini del vivere civile di palpitante interesse culturale ed anche etico. In realtà i cinque capitoli di questo piccolo volume (il confine, l’odio, l’ignoranza, il fanatismo e la libertà) riflettono i temi trattati dall’autore (un eminente psicoanalista) qualche mese fa per una breve serie televisiva (Lessico civile) andata in onda su Rai3 (che ovviamente non avevo visto, essendomi precluso, per ragioni epato-protettive, l’uso della televisione, fatta eccezione per i tre sport che seguo – calcio, golf e snooker – e per qualche trasmissione di storia); sono però sicuro che l’edizione scritta delle brevi trattazioni di Recalcati guadagna efficacia e profondità sull’edizione televisiva, come del resto quasi sempre accade. Inutile dire che, dei cinque capitoli, quello che mi ha catturato di più è quello sui confini, tema culturale – come sanno i lettori di questo blog fin dal suo inizio – per me estremamente affascinante. Tutti e cinque i testi però (compreso quello che mi è piaciuto di meno) sono colti, suggestivi e gradevoli da leggere. Un libro che consiglio e che chi è più versato in questioni di psicoanalisi apprezzerà anche più di me.

Roma  3 giugno 2020

lunedì 1 giugno 2020

2 giugno 2020

La festa della Repubblica

(di Felice Celato)

Eccoci qua, quasi alla metà dell’ annus horribilis, a “festeggiare” la nostra cara repubblica, subito dopo aver festeggiato (noi cattolici) l’eterna e potente Pentecoste. [Avrei voluto ricordarcela vicendevolmente, questa festa natale della Chiesa e del terzo e definitivo tempo della Rivelazione (quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, Gv, 16, 13); ma non avrei trovato parole migliori – soprattutto quest’anno –  di quelle dell’inno che si recita a messa (Veni Sancte Spiritus et emitte coelitus lucis tuae radium…), che però, quasi certamente, tutti sappiamo a memoria, in italiano o in latino.]

Dunque, fra strisce tricolori e retoriche più o meno bolse, eccoci a celebrare – sperabilmente in maniera civile – quel lontano 2 giugno del 1946, quando l’89% dei cittadini Italiani che ne avevano diritto, votò per scegliere la “forma giuridica” dello stato e, con esigua maggioranza, scelse in favore della forma repubblicana, liquidando la putrefatta monarchia che aveva affidato, per più di vent’anni, le sorti del paese all’uomo forte del tempo, anche assumendone in proprio le nefaste conseguenze. 

Difficile negare che questa festa meriti la primazia che gli è riservata fra le solennità civili del nostro paese; anzi, sarebbe addirittura sciocco farlo, considerati i precedenti storici ed i frutti che lo stato repubblicano ha prodotto per tanti anni nel nostro paese. Eppure, mi pare, quest’anno, la celebrazione della Festa della Repubblica si tinge di un senso affannato, forse ansioso, stanco o depresso. Non certo – credo e spero – perché siano venuti meno i valori repubblicani che la incarnano ma perché – così, sempre, mi pare – si è appannato il nesso di concordia (tornerò fra poco sul termine) che, esiguo al momento della scelta (come abbiamo già ricordato), si era però nel tempo irrobustito attorno ai valori repubblicani, pur in mezzo a tensioni e appassionati dibattiti (si pensi solo alle divisioni politiche del periodo della guerra fredda), a mano a mano che si veniva facendo robusto il “successo” del nostro paese; un relativo ma innegabile successo economico, sociale  e sociologico ed anche politico, se l’Italia era entrata a far parte, da fondatore, di quell’ambizioso progetto di pace e di progresso che è stato l’Unione Europea (e che è tuttora l’architrave della nostra speranza civile e l’orizzonte del nostro futuro).

Si è però via via appannato, dicevo, il nesso di concordia o, per meglio dire, quella forma di coesione, di collettiva comunanza macro-valoriale, che dà il senso ad una collettività; hanno preso campo la tentazione all’inerte decostruirela società molecolare o addirittura la società mucillagineun incedere sciancato del paese, il rancore di una società dissociativa, di una moltitudine sciapa e infelice, che ha paura della dialettica e che fa fatica a dominare i propri istinti verso la divaricazione, anche radicale (si pensi solo al nostro divisivo senso di cittadinanza europea, sul quale si puntellano gli scardinatori). 

Se avessi avuto la pazienza di ricercare i “tempi” di queste parole rubate al Censis, si sarebbe visto chiaramente che esse precedono di qualche anno l’incubo recente della pandemia. E dunque nessuna “colpa” (aggiuntiva rispetto agli oltre trenta mila morti!) può essere "addebitata" al Coronavirus per queste involuzioni della nostra convivenza civile; tuttavia mi pare che questo tempo aggiunga anche un’inquietudine nuova: da un lato la solida percezione (credo a prescindere dalle nostre opinioni politiche, se non fanatizzate) dell’inusitata sproporzione – non nuova ma ora aggravata dalla inesplorata dimensione e dalla profondità delle azioni necessarie –  fra le risorse (culturali, politiche e sociologiche, prima che semplicemente finanziarie) di cui disponiamo e la gravità e la complessità dei problemi che dovremo affrontare; dall’altro una nuova e più intensa paura (non solo sanitaria ma, più profondamente, forse esistenziale) che può trasformare l’ansia in agitazione, anche socio-motoria.

Come ogni festa, anche quella della repubblica, non è destinata a medicare degenerazioni a lungo trascinate; e non basta un giorno di misurata festa per curare un malessere lungo, specie se a questo si è aggiunta la paura. Eppure la Festa della Repubblica va celebrata, con fiducia forse antica, con misura di parole, con trepidazione inevitabile ma anche con ferma memoria di radici e passione di orizzonte.

Roma 1° giugno 2020