Popoli e storie
(di Felice Celato)
La progressiva dissoluzione del famoso lockdown ci restituisce le abitudini cui eravamo affezionati. Fra queste, per me c’è senz’altro il piacere di appassionati dibattiti fra amici (quelli dei quali nel tempo abbiamo coltivato, con accurata selezione, l’affetto, la stima e l’indulgenza) che anche precede, in ordine di gradimento, la recuperata pratica delle cosiddette passeggiate golfistiche (vaga allusione alla pratica tecnica del golf).
In quel rinato àmbito, è sorta – con effetto rigenerante – una discussione su un antico tema che è andato via via - direbbe un politico della sinistra democratica - ponendosi al centro delle mie convinzioni sull’attuale stato del nostro paese (convinzioni sintetizzate nel ritornello “le colpe degli elettori superano largamente quelle degli eletti”). Credo che, nei moderni contesti democratici, non possano esserci dubbi seri su questo semplice enunciato (del resto, l’art. 1 della Costituzione Italiana, secondo comma, recita: La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione); ma sono quasi certo che – sul piano del tempo – il “principio” troverebbe ampie convalide anche risalendo indietro, almeno di più di due secoli e magari – sul piano delle diverse realtà culturali – applicandosi ad ambienti storici nei quali il concetto e la pratica effettiva della democrazia non sono maturate o sono maturate in forma altamente pregiudicata (lo spunto della discussione era giustappunto il contesto mediorientale e l’eterna cosiddetta questione palestinese).
Il tema è dunque quello delle responsabilità dei popoli verso la loro storia (quella cioè di cui possono essere gli "artefici"). Nessuno vorrà negare, tanto per fare qualche esempio tratto dalla storia più recente, la responsabilità del popolo italiano per l’avvento del Fascismo; o di quello tedesco per l’avvento del Nazismo; e di entrambi i due popoli per l’adozione e la pratica delle politiche razziali; o, per venire allo spunto, quella del popolo palestinese nell’essersi scelto (e tenuto) dei leaders che da troppi anni ne hanno coltivato la violenza (non a caso, credo, Benny Morris ha dato il titolo di Vittime alla sua straordinaria storia del conflitto arabo-sionista fra il 1881 e il 2001; e il dopo è cronaca tragica).
Si dirà che ai popoli non possono essere addebitate solo le responsabilità “negative”; e che, di molti popoli, si possono giustamente rivendicare anche i meriti storici di straordinarie “lotte” per l’affermazione della loro dignità civile, che li fa, in buona misura, padroni dei propri destini (Praga, Budapest e Danzica ne sono, per esempio, i luoghi memorabili, tanto per restare in Europa). Ma l’obiezione – credo – non infrange il principio di responsabilità, anzi (in positivo) lo conferma.
Se dunque, per venire al nostro hic et nunc, i popoli sono – come credo – i definitivi responsabili delle proprie storie (e spesso le potenziali vittime dei propri errori), occorrerà porsi seriamente la domanda sul grado di autocoscienza della nostra generazione. Temo che sarà sconsolante, partendo dai risultati prodotti dagli eletti, valutare il grado di responsabilità espresso dal “popolo elettore". E a nulla servirà – sul piano della coscienza – invocare la dissoluzione del voto individuale nel mare magnum del voto di popolo; perché l’esercizio della cittadinanza non si esaurisce nel momento del voto ma si perfeziona nella coltivazione dei propri doveri di cittadino; fra i quali rientrano quello di informarsi da fonti appropriate – e fra queste, da noi, non figurano telegiornali e talk show –, di esercitare accuratamente il proprio senso critico, di "nutrire" le proprie meditate opinioni e di porle sempre a base di quel momento. Il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, scriveva Karl Popper (citato nel libro Elogio della mente critica, di Enzo Di Nuoscio, Laterza 2016)
Roma 15 giugno 2020
Nessun commento:
Posta un commento