mercoledì 28 giugno 2017

29 giugno

Pietro e Paolo
(di Felice Celato)
Forse i lettori di questo blog l’avranno già intuita da un pezzo; ma oggi, festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo (“grata memoria dei grandi testimoni di Gesù Cristo e una solenne confessione in favore della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”, per dirla con Benedetto XVI) mi fa piacere ripetere la mia grande simpatia per l’apostolo Paolo.
Va da sé – se avesse senso una considerazione del genere – che a San Pietro va tutta la devozione che si deve (meglio: che noi fedeli dobbiamo) al testimone diretto della vita di Cristo, al discepolo scelto come pescatore di uomini (Lc. 5,10) per la generosità e la forza del suo amore, al confermato con lo sguardo nonostante il paradigmatico triplice rinnegamento (…un gallo cantò. E voltatosi, il Signore fissò lo sguardo su Pietro e Pietro si ricordò…e pianse amaramente, Lc. 22,61-62), al triplice “confessore” (Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di costoro?...Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene, Gv. 21,15), al primo affidatario della promessa di cui viviamo noi fedeli anche in questo tempo così confuso (et portae inferi non preaevalebunt adversus eam).
Ma a San Paolo, vaso di elezione (Dante, Inf. 2, 28), fariseo figlio di farisei (Att. 23,6) e apostolo dei gentili (Rm. 11, 13), ghermito da Cristo (Fil.3,12), apostolo per vocazione (Rm. 1,1), apostolo per volontà di Dio (2Cor 1,1), desideroso di farsi tutto a tutti (1 Cor. 9,22), persecutore inorridito del suo stesso operato e infaticabile viaggiatore per la diffusione della Parola e la crescita del popolo di Dio, a san Paolo va una mia speciale affezione quale primo interprete e predicatore dello Spirito del Signore (è noto che la redazione del testo di Giovanni segue di almeno una generazione la predicazione di Paolo, morto a Roma, secondo la tradizione, giusto 1950 anno fa, nel 67 d.C.).
All’Apostolo dei gentili la nostra cultura giudaico-cristiana deve mirabili intuizioni teologiche nelle quali si scorge l’impronta dell’ispirazione divina e l’orma dell’innamorato di Dio. Come san Giovanni Battista regge il cardine della porta che spalanca il Vecchio sul Nuovo Testamento, così San Paolo, vero titano della storia della nostra fede, regge il cardine della porta che spalanca il tempo del Cristo su quello del Suo Spirito Santo; lui, controverso scardinatore del recinto della salvezza del suo popolo.
In questi tempi di eloquenze ruffiane e mollicce, Paolo di Tarso rappresenta per me anche il modello di un parlare aspro e netto, chiaro persino nella complessità del suo argomentare, spesso travolgente, talora duro.
A chi condividesse il senso di questa “simpatia” per l’Apostolo dei Gentili, tornerei a raccomandare la lettura di un libro di straordinario interesse e di piacevole lettura, scritto da un romanziere ebreo del secolo scorso (Sholem Asch: L’Apostolo, Castelvecchi 2013), già segnalato qui, con un post del 3 settembre 2013.
Roma 28 giugno 2017
Dimenticavo: auguri a tutti i (tanti) Pietro/Piero/ Piera e Paolo/Paola!




sabato 24 giugno 2017

All'apparir del vero

Il principio di Goebbels
(di Felice Celato)
Anche noi Italiani (che ci crediamo furbi) se ci sentiamo ripetere 100 volte una bugia, dopo un po’ ci convinciamo fermamente che è verità (secondo il noto principio di Goebbels). Si direbbe, anzi, che il lessema post-verità (la dissolvenza del vero nell’emotiva accettazione del non-vero, spesso strumentalmente fabbricato) sembri proprio calzare a pennello con le nostre più diffuse “inclinazioni” contemporanee; anche quando la nostra (innegabile) intelligenza ci fornirebbe tutte le strumentazioni necessarie per discernere (qui ci vuole!) la post-verità dalla sua alterata scaturigine.
Prendete il caso delle banche.  Per mesi ci siamo sentiti proclamare (ai massimi livelli di autorevolezza) che il sistema bancario Italiano era in ottime condizioni e che, perciò, nessuno venisse ad insegnarci quel che (anche in Italia) era urgente fare.
Eppure non era difficile capire (e quindi far capire) che, crisi del 2008 a parte, un sistema economico in grave e prolungata crisi non poteva che generare un sistema bancario in crisi: gli attivi delle banche (lo sa anche uno studente del 1° ragioneria) sono le passività delle imprese (e dei cittadini); e se molte imprese “ristrutturano” le proprie passività (cioè chiedono di dilazionarne il rimborso e/o di tagliarne l’entità e/o, addirittura, di cancellarle), o se i cittadini non ce la fanno più a pagare i loro mutui, chi tali passività detiene come suoi attivi certamente non può passarsela bene. Tant’è che le banche hanno seguitato a riempirsi di investimenti in titoli di stato per non assumersi (per ora) altri rischi in crediti deteriorabili.   sarebbe difficile capire che, se vengono meno le condizioni di esigibilità dei crediti delle banche, qualche cosa di analogo si verifica anche a carico dei corrispondenti debiti delle banche (cioè i soldi che le banche si sono fatte prestare dai cittadini per prestarli alle aziende o ad altri cittadini).
Dunque, anche senza entrare nei meandri dei tecnicismi, non sarebbe stato difficile, anche per il cittadino digiuno di finanza, comprendere che un “problema banche” dovevamo averlo per forza anche noi, al di là – se ci sono stati – di sempre possibili comportamenti irregolari (che saranno semmai valutati nel tempo).
Del resto – credo e spero – nell’attuale dimensione, il problema è tuttora gestibile; come al solito, s’intende, con un po’ di debito pubblico aggiuntivo e, forse, con l’esercizio di ulteriore “flessibilità” Europea nei confronti della nostra “interpretazione” delle regole, ma senza ulteriori, gravi sconvolgimenti. Ripeto: credo e spero.
Ora però che è ripetutamente esploso (Monte Paschi, Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Banca Marche, CaRiFe, CaRiChieti, Etruria, etc); ora che siamo forse giunti all’apparir del vero (come direbbe Leopardi), ci si può legittimamente domandare perché il “problema banche” in Italia sia stato a lungo negato.
E’ fin troppo evidente che ciò che avrebbe capito un ragazzo del 1° ragioneria è stato perfettamente compreso da chi ha (o ha avuto) responsabilità di governo; e so bene che di una crisi bancaria non è mai il caso di straparlarne a lungo (anche se così sono anni che ne parliamo, sia pure confusamente!). Certo, mentre ci arrabattavamo ad invocare “flessibilità” e deroghe alle regole europee sullo stock di debito pubblico, non sarebbe stato “utile” prospettare l’esistenza di un altro problema che, come dicevamo, altro debito pubblico con ogni probabilità genererà. Però, queste spiegazioni ”tecniche” non mi convincono perché chi doveva valutare le conseguenze di una crisi bancaria inevitabile (l’Europa, per esempio) non aveva certo orecchie per infantili negazioni del problema.
No; temo, ancora una volta che la negazione del problema banche affondi le sue radici nel  timore per la verità divenuto ormai regola nell’amministrazione del Paese. C’è una sorta di minorità mentale in cui si assume gli Italiani debbano restare; una minorità da alimentare ogni giorno con mezzi espliciti (i talk-shows, per esempio, dove si fa rumoroso spettacolo delle opinioni, quando ci sono) o subdoli (la propagazione di pseudo-valori in cui indurre gli Italiani a riconoscersi), affinché gli Italiani restino quel popolo incolto e suggestionabile che in fondo conviene ad una classe politica che ha da proporre solo incolte suggestioni. Il fatto è che a questo stato di minorità ci si abitua.
Esagero? Forse. Spero.
Roma, 24 giugno 2017 (san Giovanni Battista, santo scorbutico e protettore dei metalmeccanici)



venerdì 23 giugno 2017

La giornata del rifugiato

“Le porte nere”
(di Felice Celato)
In questi giorni in cui la nostra vana agitazione si sofferma (meritoriamente) a celebrare “la giornata del rifugiato”, vale la pena di segnalare un bellissimo (e breve) romanzo sull’argomento, che, guarda caso, ho letto proprio stanotte a causa di un…risveglio molto mattutino.
[Mi si consenta un momento di auto-esaltazione: anche a causa dell’età, io mi sveglio presto e – quando posso – mi alzo tardi; il costume nazionale, da qualche tempo, è diventato di alzarsi magari presto, alcuni prestissimo, ma di svegliarsi tardi, talora molto tardi, spesso poco prima di andare di nuovo a letto! I sonnambuli, appunto; come dicevamo qualche tempo fa e come ci appare chiaro appena apriamo il giornale].
Dunque, bando alle celie (quand’anche amare): Exit west (Einaudi, 2017) è il romanzo breve di Mohsin Hamid, già autore, qualche anno fa di un altro bellissimo romanzo (Il fondamentalista riluttante, Einaudi, 2007) dedicato ai professional americani di origine islamica che ritornano nei paesi d’origine. Qui, invece, siamo ancora nel mondo dell’esodo, della fuga dalla guerra, verso un Occidente preoccupato e in fermento nativista; il tempo è fuori del tempo, i luoghi quasi un’allusione (Myconos, Londra, San Francisco), le vie e le modalità della fuga (“le porte nere”) simboliche (solo il prezzo appare concreto), le pene del tragitto totalmente sottaciute, le lunghe soste nel percorso verso Ovest anch’esse senza tempo; in un certo senso il racconto sembra una profezia sul prossimo futuro del mondo o forse già una finestra sul presente. Resta solo lo sradicamento, il confine fatto esistenza e vissuto al di là dei confini, lo spaesamento fronteggiato da un’indomabile forza di adattamento, una drammatica resilienza umana destinata a sopravvivere, magari fuori del tempo ma per virtù propria.
Sintesi: una lettura eccellente.
Roma 23 giugno 2017





Spigolature elettorali

Auguri Italia!
(di Felice Celato)
Ieri sera - per una ragione del tutto casuale, perché di solito non ascolto chiacchierumi - mi sono trovato ad ascoltare per 5 minuti una trasmissione radiofonica nella quale si fronteggiavano (diretti da una affannata giornalista)  i candidati al ballottaggio in una città del centro Italia ( non ho capito quale, ma dall’accento i candidati sembravano laziali).
Il tema, ovviamente, era quello delle “misure” che ciascuno dei candidati “prometteva” agli elettori a supporto della propria candidatura.
Cinque minuti, non più, di ascolto; peraltro guidando, quindi senza la possibilità di annotare gli elementi della improvvisata statistica volante che subito (conoscete le mie ossessioni numeriche!) mi è venuto in mente di imbastire (quindi i dati possono risultare imprecisi….per difetto, penso): avrò ascoltato una decina di promesse (più probabilmente:  “di promesse di richieste” da fare al Governo o al Parlamento, date le materie) di diversi tipi di “bonus” o di diverse forme di de-tassazione per sorreggere questa o quella iniziativa (per esempio: il reinsediamento di alcune categorie di commercianti nel centro della cittadina in questione); una mezza dozzina di promesse/richieste di nuove opere pubbliche o di assunzioni per temperare questa o quella carenza di strutture (per esempio: nella sanità o nella scuola). Messe insieme, diciamo, 15 o 16 promesse/richieste di nuova spesa pubblica in, diciamo, 300 secondi di ascolto…circa una ogni 20 secondi.
Auguri Italia!

Roma 23 giugno 2017

lunedì 19 giugno 2017

Segnalazioni letterarie

Ponzio Pilato
(di Felice Celato)
Dopo le polemiche sul patriottismo, torniamo alle nostre (spero più pacifiche) segnalazioni letterarie. Stavolta tocca ad un romanzo (perché di questo si tratta, non ostante il titolo) che ha il pregio, secondo me, della intensità e della profondità (oltre a quello, raro, della brevità). Si tratta di Ponzio Pilato di Roger Caillois, edito da Sellerio nel 2017. L’autore è un francese (nota pedante: si pronuncia Kaiuà, come ho dovuto verificare, appunto per pedanteria) studioso del sacro e dei miti, confesso a me totalmente sconosciuto prima di averne letto questo eccellente racconto.
Come si capisce dal titolo, il libro è incentrato sull’affascinante attore della Passione di N.S. Gesù Cristo e personaggio storico (minore) lui stesso, che deve la sua imperitura memoria, appunto, al ruolo giocato nella vicenda che ha “spaccato” la storia.
Il Pilato di Caillois è un personaggio tormentato ed enigmatico come quello dei racconti evangelici e dei diversi libri scritti anche da grandi autori su di lui; ma, stavolta, in qualche modo fattosi più o meno conscio di essere al più importante crocevia della storia, stretto fra i ruoli ambigui che la vicenda gli assegna (grigio tutore dell’ordine? scettico politico ai confini dell’Impero? ovvero, paradossalmente, persino co-attuatore della Volontà divina, sia pure al prezzo di un marchio infamante?), stavolta – dicevo – Pilato decide secondo un canone di umanesimo radicale del quale, per via di oscure divinazioni, pure coglie vagamente le possibili implicazioni. Come nota un critico (Giorgio Fontana) in un brevissimo saggio che accompagna la narrazione, il Pilato di Caillois risponde a modo di Horkheimer e Adorno alla sua stessa, fatale domanda (Che cos’è la verità?): “C’è solo un’espressione per la verità: il pensiero che nega un’ingiustizia”.
Al di là del romanzo, le cose andarono come sappiamo e il Cristianesimo nacque e crebbe come Altri (per nostra grazia) volle, con buona pace dei filosofi. 
La sua scaturigine storica passa per le mani (magari ignare) di uomini fatti come sono fatti, increduli, incapaci di comprendere, vigliacchi, pronti al compromesso, scialbi protagonisti di vicende delle quali spesso nemmeno intuiscono la portata; perché la Redenzione è stata fatta per essi, così come sono fatti; e non ci sono eroi nel suo svolgimento storico (se non Uno). Nemmeno quello (Pietro) che è diventato il primo custode umano  dei fatti, si sottrasse all’abominio della rinnegazione, che del resto gli stessi racconti evangelici, a lui e alla sua comunità affidati, né tacquero né  cercarono di nascondere (come, pure, sarebbe stato naturale), perché è nella nostra debolezza che si manifesta la Sua forza.
Tornando al romanzo (segnalatomi da un lettore molto attento), non posso che raccomandarne la lettura.
Roma 19 giugno 2017

domenica 18 giugno 2017

Come speravo

….il seguito delle spigolature lessicali
(di Felice Celato)
Come speravo (non si pro-voca, cioè non si chiama fuori qualcuno se non si  “desidera” ascoltarlo) il mio post di ieri sul patriottismo ha fatto fiorire qualche protesta; magari di amici che non vogliono prendere la penna (si fa per dire: mettersi alla tastiera) e comporre la loro lamentela; ma che (per fortuna) non si vogliono risparmiare le loro rimostranze vocali, il loro piccolo scandalo per l’opinione così poco “risorgimentale” che avevo espresso. E allora ecco fluire una serie di affinamenti.
Prima di tutto: io mi sento italiano? E poi: che vuol dire sentirsi Italiano?
Certo che mi sento Italiano! Come potrei non sentirmi tale, io nato da Italiani, nel centro dell’Italia, io vissuto a Roma per oltre cinquant’anni, io marchigiano di memorie e nostalgie, io appassionato della nostra lingua? Non più però (o non diversamente) di quanto mi senta Europeo; e non più di quanto mi senta un po’ cittadino del mondo occidentale al quale appartengono la mia cultura, i miei valori giudaico-cristiani, il mio amore per la libertà e per la libera iniziativa economica, la mia fiducia nella ragione. I miei studi giovanili e le mie passioni partono certamente da Dante, da Machiavelli, da Manzoni, da san Tommaso, da Croce, da Pirandello; ma anche da Omero, da Platone, da Aristotele, da Sofocle, da Ulpiano, da sant’Agostino, da Sant’Ignazio, da Ratzinger, senza che mi venga mai in mente di  pensarne la nazionalità. E sono arrivate a Shakespeare, a Pessoa, a Borges, a Freud, a Lorca, a Singer, a Roth, a Camus; tutti mi sembrano un pezzo del patrimonio della mia umanità. E così Roma, o Napoli, o Milano mi sembrano “i miei luoghi”, come del resto (in misura naturalmente diversa)  Gerusalemme, Lisbona, Atene, New York, Londra, Berlino, Parigi, Madrid. Siamo tutti, penso, un impasto di queste culture; e in questi luoghi abbiamo, un po’ tutti (chi più chi meno), pensieri, ricordi, emozioni, sentimenti (cumulativamente: la nostra cultura), anche quando opera qualche barriera linguistica (del resto ormai attenuata dalla nuova koinè) . E dunque, nel tempo, sono forse diventato….meta-italiano (cioè un italiano andato al di là della sua italianità).
Ma tutto ciò può forse impedirmi di vedere (credo con chiarezza) i gravami del nostro piccolo presente, i rantoli del luogo in cui siamo radicati, l’involuzione del nostro popolo più vicino, la sequenza della sua crisi ormai quarantennale? Certamente no! Anzi, proprio la finestra che il mondo moderno ci consente di mantenere aperta sul resto del “nostro sitz-im-Leben”, del nostro contesto vitale, acuisce il rimpianto per la perduta lena, per la faglia che si allarga e per (uso un termine gaddiano recentemente rispolverato dal Censis) l’imbagascimento del nostro Paese, non solo del suo linguaggio (che pure ne è lo specchio).
Esagero? Guardiamoci attorno, leggiamo i giornali (non solo uno, magari sempre quello); ascoltiamo i nostri politici (per esempio quando parlano di riduzioni di tasse ma non di debito pubblico); “ammiriamoli” al lavoro (per esempio, da ultimo l’altro ieri, quando si “parlava” di ius soli in Senato); guardiamo, magari vincendo il disgusto, un po’ di TV (quando “proclama” i valori “della gente”); giriamo per le strade (attenti a non farci male e schivando l’immondizia): non si vede dappertutto la “frana”, lo slittamento più o meno veloce di macerie di una società che pure, a fatica,  si era abbarbicata  alle pendici del mondo occidentale? E’ più “patriottico” negarlo o analizzare la situazione senza il “velo” di un pregiudizio di “italianità” del bello e del buono? Già – dice il mio amico, raffinato cultore della Grecità – ma l’epicedio (il canto dolente attorno al feretro) non rischia di “allontanare la reazione al degrado”?
Eh! amico mio: nessuna ”reazione” (ammesso che l’età la consenta!) può essere efficace se ci si nasconde la natura, l’estensione, la profondità del male, se si preferisce immaginarlo inesistente, o se lo si giudica con indulgenza.
Dici tu: “ma guarda che tutto il mondo occidentale è in sofferenza!”. E forse hai ragione, in fondo i drawbacks della globalizzazione ci sono sfuggiti, ne abbiamo succhiato solo i benefici illudendoci che ci spettasse il diritto di scelta (i benefici a noi, il resto agli altri). Mah! Come ci siamo detti altre volte, nella storia come nella vita, molte cose dipendono dalle dosi: un po’ di aceto sull’insalata può piacere, troppo può disgustare; un po’ d’acqua può innaffiare, un’alluvione può travolgere. E così un po’ di “sano amor di patria” (uso il tuo termine!) può anche essere comprensibile; troppo porta alla cecità; o alla follia (che cos’era il nazismo se non cieco amore della propria nazione e “della razza”?)
Buona settimana
Roma 18 giugno 2017 (Festività del Corpus Domini)