venerdì 28 dicembre 2018

Dal 2018 al 2019

Annus nigro signandus lapillo 
(di Felice Celato)
Giusto un anno fa, facendoci gli auguri per l’anno che arrivava (post: Dal 2017 al 2018 del 28 dicembre 2017), avevamo definito futile il 2017; avevamo anche – saggiamente – rinunciato a fare altrettanto futili previsioni per 2018, affidandoci alle aspettative del cuore. 
Direi che il decorso del tempo ha smentito anche queste e che il 2018 non sarà certo un anno da ricordare per le buone cose che ci ha portato (almeno a me). Lo lasciamo quindi alle nostre spalle segnandolo con un sassolino nero (nigro lapillo) come i Latini facevano con un sassolino bianco (albo lapillo) per i tempi lieti.
Se vogliamo dimenticarlo, meglio non fare l’elenco delle dure lagnanze che possiamo avere sull’anno decorso; e ancora una volta affidarci al cuore per disporci al cammino dell’anno che viene.
E che cosa il cuore mi suggerisce di desiderare per il 2019?
Bene: all’anno nuovo auguro di rivelarsi, per tutti, un anno di verità; una verità che faccia pulizia dei mille inganni di cui incoscienti ci nutriamo, dei travisamenti più insensati, delle menzogne che addirittura coltiviamo come fossero il cibo vero della nostra convivenza civile, delle fughe dalla realtà con le quali esorcizziamo le nostre difficoltà, come se, negandole, potessimo risolverle; che renda giustizia alle istanze che la meritano, che dissipi la nebbia che ci avvolge ed appesantisce. 
Dicevo che il cuore – dove immaginiamo abbia sede la bontà, l’amore che noi cattolici chiamiamo anche carità – mi suggerisce di desiderare per sé un anno di verità; e inevitabilmente mi tornano in mente (i miei lettori conoscono bene questo mio continuo tornare) le parole straordinarie che su questa mirabile relazione fra verità e bontà ha scritto il Sommo Pontefice Benedetto XVI: la verità è luce che dà senso e valore alla carità [all’amore, alla bontà]. Questa luce è, ad un tempo, quella della ragione e della fede, attraverso cui l’intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione. Senza la verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. E’ il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta fino a significare il contrario. La verità libera la bontà dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali e di un fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità [l’amore, la bontà] riflette la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico, che è insieme Agàpe e Logos: Carità e Verità, Amore e Parola….Senza la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni. E’ esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività.
Credo non serva altro per auguraci con forza di vivere un 2019 sperando, desiderando, anzi volendo che sia un anno di verità a riempirci il cuore. Nessuna più completa aspettativa, nessun migliore augurio mi viene da formulare a ciascuno di noi per l’anno che arriva.
Roma 28 dicembre 2018

mercoledì 26 dicembre 2018

Divagazioni post-prandium

Gravitas
(di Felice Celato)
In un lungo articolo che Yascha MounK (docente alla Harvard University) dedica, sul NYT, alla recensione di un libro sulla caduta della Repubblica Romana (di Edward J.Watts: Mortal Republic – How Rome fell into tyranny), Donald Trump viene paragonato – senza mezzi termini –  a Tiberio Gracco, il populista che, insieme al fratello Caio, scosse per primo le fondamenta della Repubblica sfidando il Senato Romano, solo due generazioni prima che l’antica Roma, dopo varie peripezie, cadesse nella guerra civile dalla quale prese origine l’autocrazia di Augusto.
Da questa lettura hanno preso le mosse le oziose divagazioni che seguono e che hanno occupato il silenzioso pomeriggio di Natale, lungo un filone che, dalla storia del diritto romano e della cultura latina, conduce ai dì nostri.
Gravitas è una parola latina che significa, fra l’altro, serietà, dignità, autorevolezza, autorità. I latini consideravano la gravitas una essenziale virtù civica, specie dei loro capi, insieme alla pietas, intesa come senso del dovere, dedizione, rispetto (diceva Cicerone: pietas, quae erga patriam….officium conservare monet, il senso che insegna a rispettare i doveri nei confronti della patria); ed insieme alla dignitas, intesa come onore, eccellenza, dignità e decoro (sempre Cicerone: dignitas est et cultu et honore et verucundia digna auctoritas, la dignità è l’autorevolezza degna di venerazione, onore e rispetto).
Gli inglesi si sono “appropriati” della parola gravitas, che ora figura nel dizionario inglese nel senso di serietà e importanza del contegno, che suscita sentimenti di rispetto e di fiducia negli altri (seriousness and importance of manner, causing feelings of respect and trust in others, recita il Cambridge Dictionary). 
Nelle banche d’affari, che come si sa “parlano” inglese, i senior bankers sono chiamati periodicamente a valutare i loro colleghi di più elevata esperienza avendo di mira, accanto alle loro competenze tecniche e al loro judgement (capacità di giudizio e di discernimento), la loro gravitas, come percepibile segno di serietà e autorevolezza.
Credo bastino, questa piccola ricerca lessicale e questo piccolo esercizio di memoria del mondo, per cogliere l’importanza della gravitas, la sua essenzialità  nell’esercizio del potere (politico o economico) e nella giusta percezione di esso; e anche per colorare di nostalgia lo sguardo col quale ogni giorno fatichiamo a “leggere” il nostro presente. 
Si dirà che, in questi nostri tempi di parole grossolane, di frenetici quanto ruvidi  twitters, di volti deformati nei video-selfie, di messaggi indossati come cartelli  per essere visti piuttosto che capiti, di strepiti come forme di consenso o di dissenso, gravitas, pietas dignitas sono diventati orpelli di un mondo passato; e che il potere ha bisogno di essere percepito vicino ai modi che sommariamente  si attribuiscono al popolo inteso come plebe, di riflettere umori ed emozioni estreme fragorosamente visibili sui social network; e che, quindi, la nostalgia è un sentimento fuori luogo, superato dai tempi e dai nuovi modi di comunicare.
E, probabilmente, c’è – tristemente – del vero in siffatte obbiezioni ad ogni sterile forma di nostalgia. 
E’ anche possibile che l’imbagascimento dello stile e del linguaggio politico (uso qui l’efficacissimo termine che De Rita ha ereditato da Gadda, cfr. post Babele/2 del 21 marzo 2017) sia una conseguenza indiretta della percepita indistinzione dei politici (per metà degli italiani, nota il Censis, tutti i politici sono uguali): e, dato che l’indistinzione è una patologia contagiosa che colpisce tutti coloro che entrano a far parte della politica, ecco che, per sfuggire al rischio dell’indistinzione, organismi e personale politico rinunciano ad ogni pratica mediatoria, radicalizzando, almeno verbalmente, quel che può distinguerli, o almeno renderli visibili e più duraturi nel ruminare impietoso del circo mediatico (Rapporto 2018, pg 23).
Tuttavia la nostalgia resta…. nient’affatto mitigata dallo spunto analogico americano; anzi da questo spinta verso la conclusione inquietante che chiude il capitolo del Rapporto Censis da cui ho attinto (pag. 28): L’erosione del significato ultimo della politica – la sua efficacia nel comporre interessi diversi e così migliorare la società – spiega perché ormai quasi 4 italiani su 10 si mostrano indifferenti o, in alcune circostanze, favorevoli ad un governo autoritario in luogo di uno democraticoCosì, in fondo alla strada della demonizzazione di ogni mediazione competente ci può essere la non originale riscoperta delle virtù salvifiche del coup d’etat.
Non ho capito se l’analogia fra Trump e Tiberio Gracco sia interamente dell’autore del libro o del recensore; fatto sta che l’articolo si conclude così: if the central anlaogy that animates “Mortal Republic” is correct, the current challenge to America’s political system is likely to persist long after its present occupant has left the White House.
Roma 26 dicembre 2018 (ore 0,45)
PS: Ammetto che il pranzo Natalizio possa essere stato greve; lo testimonia anche la lunghezza del post.





lunedì 24 dicembre 2018

Natale 2018

Natale 2018
Auguri
(di Felice Celato)
Anche gli anni bui, hanno (per fortuna) il loro Natale; e ogni Natale ha i suoi auguri vicendevoli, che quasi sempre usiamo farci meccanicamente, con parole abituali, sempre uguali e del tutto consunte dall’uso. 
Per noi cristiani (per i quali questa festa ha un preciso  senso, il senso del Verbo, del Logos, del Senso che si fa carne) vale la pena di riandare con la mente e con l’anima al rigenerante significato dell’Evento che celebriamo, per attingere da esso proprio quel senso che ha cambiato la storia dell’uomo e che ogni giorno potrebbe cambiare la nostra esistenza.
Come augurio di questo nuovo ri-attingimento, invio ai miei lettori alcune parole tratte da un’omelia di Benedetto XVI nella Notte della Natività del Signore del 24 Dicembre 2008.

Colui al quale nessuno è pari, che "siede nell’alto", Questi guarda verso il basso. Si china in giù. Egli vede noi e vede me. Questo guardare in giù di Dio è più di uno sguardo dall’alto. Il guardare di Dio è un agire. Il fatto che Egli mi vede, mi guarda, trasforma me e il mondo intorno a me….Con il suo guardare in giù, Egli mi solleva, benevolmente mi prende per mano e mi aiuta a salire, proprio io, dal basso verso l’alto. Dio si china …Il Creatore che tutto tiene nelle sue mani, dal quale noi tutti dipendiamo, si fa piccolo e bisognoso dell’amore umano. Dio è nella stalla… Ora – ci dice quel Dio che si è fatto Bambino – non potete più avere paura di me, ormai potete solo amarmi.
Il mio augurio per tutti noi è che - nonostante tutto - non abbiamo più paura, perché Dio benevolmente ci prende per mano e ci aiuta a salire; e perché se il Senso si è fatto carne (anche queste sono parole di Benedetto XVI, del 17 dicembre 2008) sì, esiste un senso, ed il senso non è una protesta impotente contro l’assurdo. Il Senso ha potere: è Dio. Un Dio buono…che si è fatto prossimo e ci è molto vicino, che ha tempo per ciascuno di noi, e che è venuto per rimanere con noi.
Roma 24 dicembre 2018





sabato 22 dicembre 2018

Ancora letture

Autunno tedesco
(di Felice Celato)
Ancora un bel libro, in questo fortunato scorcio dell’anno (fortunato in quanto a letture, intendo!), da segnalare ai miei amici, soprattutto per le (istruttive) riflessioni che forse suggerisce.
Si tratta di una serie di reportages (raccolti sotto il titolo Autunno Tedesco) che riemergono da tempi ormai dimenticati (ma certo non lontani) e scritti da un (allora) giovane intellettuale svedese, Stig Dagerman (1923-1954), che visitò la Germania nel 1946, a poco più di un anno dalla fine della guerra, mentre il Paese, ancora in macerie, si affannava a percorrere la strada della purificazione e della rifondazione in forma democratica dei brandelli di uno stato travolto dalla catastrofe nazista.
La Germania, che solo qualche anno prima viveva celebrando le infauste glorie del regime e che ora faticava a calpestarne i ruderi, vi appare nella sua cruda realtà di paese non solo vinto ma distrutto nei beni e nell’anima, oggetto di un odio secondo solo a quello che esso stesso aveva seminato nel mondo. Macerie, dicevo, fra le quali la miseria e le enormi difficoltà materiali del ritorno alla pace, seminavano sentimenti di rimpianto del benessere perduto, rimorsi dolorosi e profonde insicurezze sulla via, forse, più che intrapresa, imposta dalle esigenze della nuova pace.
Dagerman indugia sulla realtà materiale ed umana della Germania sconfitta con l’occhio pietoso di chi sa che la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata e che la fame e gli stenti non sono certo buoni maestri di democrazia, specie quando necessariamente si confrontano coi (relativi) agi degli occupanti o, magari, come talora avviene, coi minori disagi dei nazisti fortunosamente scampati al crollo del loro stesso regime. Le “istantanee” che la penna del giovane svedese (aveva circa 23 anni all’epoca del suo viaggio) scatta in giro per le città più distrutte sono tutte desolate e pervase da una miscela di sentimenti che comprendono anche la rabbia, magari confusa e al tempo stesso consapevole della storia che ha partorito la rovina. Ma non è il filone estetico-narrativo, a mio parere, il pregio maggiore del libro, che pure non è privo di pregi letterari. Mi pare piuttosto che il senso più profondo di Autunno tedesco (non necessariamente in linea con le convinzioni dell’autore) sia di natura filosofica, perché chiama in causa il concetto di collettiva responsabilità degli uomini verso i destini della loro storia. Un concetto che, se vale certamente per i popoli che si governano in regime democratico, vale anche, secondo me, per quelli che accettano i loro stessi tiranni, magari dopo averne promosso o permesso la tirannia.
Mi spiego meglio facendo ricorso ad una mia convinzione che credo di aver qui enunciato altre volte: i popoli pagano sempre fino in fondo le colpe dei loro capi, siano essi democraticamente (e quindi temporaneamente) designati a governarli o autocraticamente insediatisi quali loro reggitori, anche se non sempre necessariamente dissennati. E ciò per una “giusta” ragione: nel primo caso, per non averli saputi scegliere o revocare quando era opportuno o necessario farlo; nel secondo caso per averli tollerati quando l’esercizio di una desta vigilanza poteva leggerne chiaramente l’indirizzo scellerato.
Ciò che più mi interroga della storia del primo novecento europeo è come sia stato possibile che – pur fomentato dalle colpe accumulate dai vincitori della prima guerra mondiale – un popolo ricco di cultura e di umanità come quello tedesco abbia potuto, così a lungo e fino alla feccia, abbeverarsi alla coppa di aceto che il folle imbianchino gli propinava, facendogli credere che si trattasse di un elisir di superba invincibilità del loro lignaggio. 
Si dirà che non solo ai tedeschi, tutto ciò è capitato (anche la più rozza e meno feroce Italia in quegli anni si assoggettò plaudente all’inganno e alla demagogia più insensata); e che – anche – la fatica del loro lento ritorno alla civiltà potesse in fondo essere “giustificato” dall’odio sparso nel mondo a prezzo di immani perdite di vite e di beni. E tuttavia Stig Dagerman getta uno sguardo inquieto su questo spietato bilancio, domandando a se stesso e ai suoi lettori se il male può essere compensato da altro male (che è, in fondo, la domanda che suscita ogni pena, specie se collettiva) . La mia inquieta risposta sta tutta in quel principio di responsabilità che prima tentavo di formulare; un principio che richiama sempre il cittadino, in ogni tempo, alla vigilanza critica sul reggimento della sua comunità, nella certezza storica che, prima o poi, la responsabilità oggettiva di ogni comunità prende su di sé  le colpe dei suoi capi.
Roma  22 dicembre 2018

venerdì 14 dicembre 2018

Letture

La conoscenza e i suoi nemici
(di Felice Celato)
Eccomi qua, complici molte ore di pioggia, a segnalarvi una lettura appena ultimata che vi risulterà, ad un tempo, interessante, piacevole e saggia (e quindi utile, in un tempo in cui di saggezza ne circola proprio poca). Si tratta del libro La conoscenza e i suoi nemici – L’era dell’incompetenza ed i rischi per la democrazia, di Tom Nichols, edito dalla LUISS University Press (2018).
Provare a sintetizzare, nelle consuete 700 parole di questi post, un denso libro di 240 pagine sarebbe sciocco; però un’idea dei suoi contenuti mi proverò a trasmettervela. Il contenuto del libro si può sezionare in tre diversi strati: il primo (che comprende i primi due capitoli, i più densi concettualmente) è dedicato all’analisi della dura vita della competenza e alle estenuanti difficoltà di interazione fra competenza ed incompetenza; il secondo (i tre successivi capitoli) alla dilagante illusione di competenza generata dalla straordinaria diffusione di informazioni e dalla perversa commistione fra informazione e intrattenimento (dove, la prima è intesa come semplice – e certamente di per sé insufficiente – base della conoscenza; ed il secondo come il dissennato... uso ludico di informazioni, assai spesso nemmeno padroneggiate da chi le propone con l'autorità dell'audience); il terzo strato (il capitolo sesto), invece, agli errori dei competenti – che tanto conforto arrecano ai loro dispregiatori –  e all’esigenza di “ricucitura” della distanza fra esperti e profani. La conclusione, infine, svolge, non senza venature pessimiste, alcune considerazioni sulla sorte delle democrazie liberali se lo spirito di quella “ricucitura” non trova la forza sufficiente per radicarsi nei rapporti fra competenza e politica.
Tutte materie, come si vede, altamente… contemporanee, con riferimento certamente alla realtà Statunitense (del resto l’autore è un professore di materie sociologico-politiche che insegna in università americane); ma anche perfettamente applicabili, in toto,  al milieu nazional-popolare Italiano di questi tempi faticosi. 
Proprio in ragione della loro attualità e della loro applicabilità a tanti argomenti polemici che spesso serpeggiano da noi, mi soffermerò brevemente sulle considerazioni che più mi hanno preso: gli (inevitabili) errori dei competenti.
I competenti, dice Nichols, sbagliano, come tutti: perché la loro competenza patisce i limiti propri della conoscenza (che, direbbe Popper, procede per congetture e confutazioni); perché spesso cadono nella trappola dell’arbitraria estensione della loro specifica competenza (specie quando non sanno usare le tre magiche parole: non lo so, che sarebbero proprie, per esempio, di un matematico chiamato a parlare con competenza di teologia); perché, scientemente o non scientemente, falsificano i dati delle loro conoscenze, magari in vista di (immeritati) successi di pubblico; o, infine, perché si lasciano attrarre nell’impervio campo delle predizioni (la conoscenza spiega, non predice, perché l’incertezza è una condizione permanente del vivere umano). 
La “ricucitura” del loro sapere con l’incompetenza del profano esige, oltreché la moralità degli esperti, anche uno sforzo del profano, lungo le linee segnate da una sana miscela di scetticismo e umiltà. Lo dice benissimo Bertrand Russell (citato nel libro): lo scetticismo che io auspico si riduce soltanto a questo: (1) che quando gli esperti concordano nell’affermare una cosa, l’opinione opposta non può più essere ritenuta certa; (2) che quando essi non sono d’accordo, nessuna opinione può essere considerata certa dai non esperti; (3) che quando concordemente gli esperti affermano che non esiste alcun motivo sufficiente per un’opinione positiva, l’uomo comune farebbe bene a sospendere il suo giudizio.
Ma l’umiltà del profano, argomenta lungamente Nichols, è, ahi noi!, potentemente insidiata da quella parodia di preparazione che la pura informazione propalata senza vera competenza trasforma inevitabilmente in un nuovo modello di ignoranza.
Spero che da questi pochi cenni si colga il valore di questo libro, fra l’altro anche piacevole da leggere, specie per l’ampiezza e la curiosità delle esemplificazioni. Una lettura altamente raccomandata; non necessariamente ottimista, peraltro.
Roma, 14 dicembre 2018

venerdì 7 dicembre 2018

Dal rancore alla cattiveria

52°Rapporto Censis
(di Felice Celato)
Come ogni anno, il primo venerdì di dicembre è dedicato al Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato dal Censis: a mio giudizio – lo sanno i lettori di questo blog – l’evento più intelligente (in senso letterale) della nostrana ricerca sociale. Quest’anno mancava Giuseppe De Rita (e non è poco); ma – mi pare – non sono mancate le sue parole-chiave che danno il senso di fondo alla corposa ricerca (oltre 500 pagine) che, ovviamente, vale la pena di sfogliare con calma. Provo allora a ripercorrere, sottolineandone appunto le parole-chiave, alcuni passi delle presentazioni (svolte da Massimiliano Valerii e Giorgio De Rita), come mero stimolo alla lenta digestione del Rapporto
Nell'ultima parte dell'anno scorso e nella prima parte di quello che si va chiudendo, il miglioramento dei parametri economici, la fiducia delle famiglie e delle imprese, le positive dinamiche industriali e dell'occupazione facevano percepire la possibilità concreta di vedere completato il superamento della crisi e dei dubbi sul nostro modello di sviluppo. La ripartenza poi non c'è stata…e [gli Italiani]…si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall'esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d'ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l'altrove vincesse sull'attuale. 
È una reazione pre-politica molto più lucida di quanto in genere si sia pronti a riconoscere e ha profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. 
“Cattiveria”, in questo senso, è una parola tutt’altro che banale, perché ricca di significati e densa di contenuti sociali. Su questo piano, per quanto paradossale possa apparire, la politica e le sue retoriche rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo che si è installato nella testa e nei comportamenti degli Italiani.
Il sistema sociale, attraversato da tensioni, paure, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l'empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell'idea di una nazione sovrana supponendo, con una interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell'ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale. I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore, e alla nazione sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito il consenso elettorale e sono alla base del successo nei sondaggi politici in Italia come in tante altre democrazie del mondo.
L'errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso e diseguale. Bisogna prendere coscienza del fatto di avere di fronte un ecosistema di attori e processi. C'è bisogno di un dibattito sull'orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi. Ritorna il tema dell'egemonia e del ruolo delle élite. Serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi.
Come impressione generale ho ricavato l’idea che il Rapporto di quest’anno – pur intessuto di temi sui quali abbiamo nel tempo esercitato le nostre grezze intuizioni (la pervasione del rancore, le responsabilità delle élites, la continuità delle responsabilità nella discontinuità della reazione, etc) – sconti una difficoltà interpretativa in più, rispetto a quelle tipiche di ogni lettura sociologica di società complesse: l’Italia vive una fase di crisi di lungo corso e di natura complessa; nella quale, paradossalmente, si vorrebbero medicare le debolezze del suo passato (culturali, sociali e politiche) con una “medicina” politica che, in fondo, è assai più radicata nelle conseguenze di quelle debolezze che su un autentico disegno “nuovo”; un annuncio – per usare le parole del Rapporto – che, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al proprio progetto politico, da profetico si fa epigonale: una sbiadita e superficiale imitazione di un illustre precedente, un richiamo a spiriti che furono e che non sono più. Di utopie comunitarie, teologiche liberazioni, retrosguardi rivoluzionari o salvifiche politiche pubbliche non si avverte la mancanza.
Roma 7 dicembre 2018


mercoledì 5 dicembre 2018

Voces

Nostalgia degli esseni
(di Felice Celato)
Non so se stia succedendo solo a me, ma, da qualche tempo, mi cresce ogni giorno una nausea profonda per l’orgia insensata delle parole. Pensate, solo per fare un esempio, alla ridda di voces sulla cosiddetta manovra economica: si cambia, non si cambia; numeri, numerini e numeretti che si possono cambiare senza cambiare la sostanza (?); oppure si può cambiare la sostanza senza cambiare i numeretti (?); è espansiva o recessiva; no, è per la crescita, ma c’è poca crescita, anzi c’è solo decrescita (felice o infelice?); è credibile (?) o non credibile (?), da riequilibrare in meglio (?) o da confermare nel giusto (?); c’è stato persino chi ha detto che un conto è quanto si mette a bilancio, un conto quanto si spende (lasciando intendere che l’intera manovra è un cosciente inganno); e si potrebbe continuare nella galleria delle parole senza più significato, di meri flatus vocis utili, tutt’al più, se fa freddo ed è umido, a far comparire una nuvoletta di vapore davanti alla bocca e non certo a veicolare significati; e ciò,  per la verità, non solo nell’ambito di coloro che la famosa manovra dovrebbero disegnarla.
Una nausea, dicevo, che mi parte dal cervello ogni volta che mi accosto alla lettura o all’ascolto di notizie, di discorsi, di commenti riferiti al reale (o meglio: alla nostra rappresentazione del reale), ogni volta che cerco di entrare nel circuito dei significati che dovrebbero aleggiare nel rumore delle voci. Non sono un linguista ma questo vecchio concetto della filosofia del linguaggio mi pare di ricordarlo abbastanza bene: voces significant res mediantibus conceptis; e io – sempre più spesso – fatico ad intravvedere le cose (res) al di là delle parole (voces) e proprio mi perdo alla ricerca vana dei sottostanti concetti.
Si dirà – a ragione – che questa non è una notizia: qui, del resto, più volte abbiamo discusso della irreparabile faglia che sembra essersi aperta – complici i media! – fra significati e significanti del nostro parlare. Oppure si potrà ironizzare sulla mia (conseguente?) maniacale ricerca di rifugio nei numeri (senza diminutivi o vezzeggiativi), che, però, sono solo significanti quantitativi e non certo, di per sé, significati. 
Ma tutto ciò prova solo che la nausea è montata lentamente, si è attestata sull’epigastrio come il lento progredire di un profondo mal di mare, e si è poi trasformata – magari ratione aetatis – in disgusto vero e proprio, una specie di ripugnanza per il cibo mentale che le parole non riescono più a veicolare: non è una pura coincidenza che abbia cominciato ad annullare i rinnovi automatici di diversi abbonamenti a giornali e riviste delle quali da tempo ero tenace lettore. Non serve molto cibo quando l’epigastrio sembra rinserrarsi ermeticamente.
Dunque, nuova o lentamente progredita, la nausea è nausea, e per curarla ci vuol altro che acqua e nux vomica. E francamente mi pesa molto perché le parole sono il veicolo essenziale della nostra umanità, col quale mi sono abituato, anche con qualche intellettuale compiacimento, a “viaggiare” nella vita e nella cultura.
Un brano del drammatico capitolo 12 del Vangelo secondo Matteo, da questo punto di vista (anzi, da quello morale), fa molto effetto: Gesù si confronta duramente con gli scribi e coi farisei sull’osservanza del sabato (le spighe còlte, il paralitico guarito, la richiesta del segno, etc.) e, alla fine, “sbotta” in una delle Sue rare invettive (i vv.34-37, che gli esegeti chiamano una teologia della parola): Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori cose cattive. Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato.
Forse, come scrive un esegeta tedesco (E. Stauffer, citato da O. da Spinetoli, in Matteo, Cittadella, 1983) il brano fa parte della paideia stomatos, cioè dell’educazione della bocca, tanto importante nella disciplina monastica dei taciturni esseni. E nessuno, beninteso, si illude di poter raccomandare ai politici (e a certi loro vacui commentatori) di coltivare la spiritualità del deserto; ma nemmeno la totale dispersione dei significati può essere loro consentita; nemmeno se serve a non avere nessun obbligo morale rispetto alle conseguenze di ciò che si dice (G. Antonelli, Volgare eloquenza, Laterza, 2017), solo perché tutto si dice senza nulla voler o saper significare.
Roma, 5 dicembre 2018

lunedì 3 dicembre 2018

Il Ministero della Solitudine

Moltitudini di soli
(di Felice Celato)
Forse a qualcuno dei miei lettori non era sfuggita la notizia (da me invece completamente mancata) che la Premier conservatrice dell’UK, Teresa May, dal gennaio di quest’anno, ha istituito un Ministry for Loneliness, per farsi carico dei problemi di social isolation che affliggono – così pare – una parte significativa dei cittadini del Regno Unito. Come nota Quartz – il news website che distribuisce la newsletter Obsessions”dalla quale ho appreso la notizia, qualche giorno fa – può apparire curioso che il nostro mondo iper-connesso soffra di un problema tanto grave di social isolation da doverlo considerare una sorta di “malattia”, tanto diffusa e grave da determinare, nella popolazione, un incremento del tasso di suicidi e del consumo di oppiacei: pare che il 75% dei medici inglesi dichiari di ricevere ogni giorno fra uno e cinque pazienti il cui principale disturbo sia la loneliness, la solitudine, appunto. E pare anche – leggo sempre su Obsessions– che in molti altri paesi (dall’Australia al Giappone, dagli Usa alla Danimarca) stiano prendendo sul serio il problema. 
Anche se, per istinto, mi fa venire l’orticaria solo l’idea che la solitudine del cittadino possa essere oggetto dell’attenzione di uno stato come il nostro (già mi vedo, chessò, le certificazioni necessarie per ottenere l’attestazione “SNV” – cioè di Solitudine Non Volontaria– alla quale sarebbero sicuramente connessi i benefici più disparati, magari anche l’esenzione dal canone Rai,  che tanto piacerebbe agli elettori), mi viene invece spontaneo credere che l’isolamento e la solitudine esistenziale come fenomeni sociologici sarebbero da prendere sul serio anche in Italia (ove mai fossimo capaci di prendere sul serio qualcosa di serio); magari non dallo Stato ma da un “corpo intermedio” (chiamatelo come volete, forse anche common collaborativo,alla Rifkin) che sappia rendersi sensibile a questo male oscuro del nostro vivere sociale; che, in fondo, si medica anche con un supplemento di umanità. 
[Il Rapporto annuale 2018 dell’Istat dedica molte pagine (buona parte del lungo capitolo 3) all’analisi di reti e relazioni sociali nell’Italia di oggi; può essere interessante sfogliarle per farsi anche un’idea (per qualche aspetto consolante) di quegli “ammortizzatori” della solitudine costituiti dalle reti relazionali, parentali e amicali].
Come che sia da inquadrarsi il fenomeno della solitudine nei suoi profili sociologici (anni fa mi colpì molto una DeRitiana definizione della nostra società come moltitudine di soli), mi pare probabile che essa affondi le sue radici nell’intreccio fra due dinamiche per natura assai diverse: da un lato, lo sfarinamento economico della nostra società (è fatale che di solitudine soffrano maggiormente le classi economicamente più deboli, presso le quali la social isolation si colora spesso di solitudine materiale, fatta di difficoltà economiche e di fatica del vivere quotidiano); dall’altro lato, su un piano più profondo, mi pare operi lo smottamento valoriale centrato sul sé e sui suoi desideri, sulla ricerca instancabile ...di novità, ostentata come realizzazione della libertà (una specie di selfie esistenziale che porta sempre in primo piano, molto ingrandito, il nostro volto sorridente, escludendo ciò che, prima di metterci in posa, ci stava davanti); uno smottamento del quale può apparire più difficile cogliere la relazione causale con la solitudine ma che, invece, mi pare proprio alla sua radice: in fondo la solitudine (sia essa cercata o subita) si nutre del rinserramento in sé stessi (sia esso scontroso o – temporaneamente – sereno).
Per un caso fortuito, proprio mentre mi accingevo a scrivere queste righe, mi è capitato sott’occhio un articolo del Corriere della sera di ieri: La solitudine dell’impresa (di Dario Di Vico)….Tempi di solitudini, individuali e collettive. Per fortuna ci sono…gli Esercizi di compagnia (de amicitia o de senectute?) di cui abbiamo già parlato qualche anno fa (post del 25 ott 2015).
Roma 3 dicembre 2018