venerdì 7 dicembre 2018

Dal rancore alla cattiveria

52°Rapporto Censis
(di Felice Celato)
Come ogni anno, il primo venerdì di dicembre è dedicato al Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato dal Censis: a mio giudizio – lo sanno i lettori di questo blog – l’evento più intelligente (in senso letterale) della nostrana ricerca sociale. Quest’anno mancava Giuseppe De Rita (e non è poco); ma – mi pare – non sono mancate le sue parole-chiave che danno il senso di fondo alla corposa ricerca (oltre 500 pagine) che, ovviamente, vale la pena di sfogliare con calma. Provo allora a ripercorrere, sottolineandone appunto le parole-chiave, alcuni passi delle presentazioni (svolte da Massimiliano Valerii e Giorgio De Rita), come mero stimolo alla lenta digestione del Rapporto
Nell'ultima parte dell'anno scorso e nella prima parte di quello che si va chiudendo, il miglioramento dei parametri economici, la fiducia delle famiglie e delle imprese, le positive dinamiche industriali e dell'occupazione facevano percepire la possibilità concreta di vedere completato il superamento della crisi e dei dubbi sul nostro modello di sviluppo. La ripartenza poi non c'è stata…e [gli Italiani]…si sono resi disponibili a compiere un salto rischioso e dall'esito incerto, un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d'ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l'altrove vincesse sull'attuale. 
È una reazione pre-politica molto più lucida di quanto in genere si sia pronti a riconoscere e ha profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria ‒ dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. 
“Cattiveria”, in questo senso, è una parola tutt’altro che banale, perché ricca di significati e densa di contenuti sociali. Su questo piano, per quanto paradossale possa apparire, la politica e le sue retoriche rincorrono, riflettono o semplicemente provano a compiacere un sovranismo che si è installato nella testa e nei comportamenti degli Italiani.
Il sistema sociale, attraversato da tensioni, paure, rancore, guarda al sovrano autoritario e chiede stabilità, rompe l'empatia verso il progresso, teme le turbolenze della transizione. Il popolo si ricostituisce nell'idea di una nazione sovrana supponendo, con una interpretazione arbitraria ed emozionale, che le cause dell'ingiustizia e della diseguaglianza sono tutte contenute nella non-sovranità nazionale. I riferimenti alla società piatta come soluzione del rancore, e alla nazione sovrana come garante di fronte a ogni ingiustizia sociale, hanno costruito il consenso elettorale e sono alla base del successo nei sondaggi politici in Italia come in tante altre democrazie del mondo.
L'errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso e diseguale. Bisogna prendere coscienza del fatto di avere di fronte un ecosistema di attori e processi. C'è bisogno di un dibattito sull'orientamento del nostro sviluppo e sulla capacità politica di definirne i nuovi traguardi. Ritorna il tema dell'egemonia e del ruolo delle élite. Serve una responsabilità politica che non abbia paura della complessità, che non si perda in vicoli di rancore o in ruscelli di paure, ma si misuri con la sfida complessa di governare un complesso ecosistema di attori e processi.
Come impressione generale ho ricavato l’idea che il Rapporto di quest’anno – pur intessuto di temi sui quali abbiamo nel tempo esercitato le nostre grezze intuizioni (la pervasione del rancore, le responsabilità delle élites, la continuità delle responsabilità nella discontinuità della reazione, etc) – sconti una difficoltà interpretativa in più, rispetto a quelle tipiche di ogni lettura sociologica di società complesse: l’Italia vive una fase di crisi di lungo corso e di natura complessa; nella quale, paradossalmente, si vorrebbero medicare le debolezze del suo passato (culturali, sociali e politiche) con una “medicina” politica che, in fondo, è assai più radicata nelle conseguenze di quelle debolezze che su un autentico disegno “nuovo”; un annuncio – per usare le parole del Rapporto – che, senza la dimensione tecnico-economica necessaria a dare seguito al proprio progetto politico, da profetico si fa epigonale: una sbiadita e superficiale imitazione di un illustre precedente, un richiamo a spiriti che furono e che non sono più. Di utopie comunitarie, teologiche liberazioni, retrosguardi rivoluzionari o salvifiche politiche pubbliche non si avverte la mancanza.
Roma 7 dicembre 2018


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