domenica 22 novembre 2020

Prospettive post-pandemiche

 Cosa c’è dietro l’angolo?

(di Felice Celato)

Molti commentatori dell’attuale vicenda pandemica indugiano spesso sui fall-out (per così dire) “benefici” di questa dolorosa esperienza che tutto il mondo sta vivendo, riferendosi – ovviamente – al dopo della sperata, prossima archiviazione definitiva della stessa (Fareed Zakaria ha addirittura dedicato un intero, corposo volume, Ten lessons for a post-pandemic world, Norton & Co, 2020, all’analisi di queste ricadute, potenzialmente “benefiche”): ci avrà insegnato – quando sarà finita, questa dolorosa esperienza – qualcosa in più della nostra reciproca interdipendenza? Ci avrà aiutato a fruire con intelligenza e saggezza delle grandi opportunità che la tecnologia ci offre per meglio organizzare la nostra convivenza? O a gestire con maggiore responsabilità il patrimonio di rischi ed opportunità del vivere contemporaneo? Ad avere più fiducia nella conoscenza (e nella competenza) e anche a valutare con maggiore consapevolezza le straordinarie conquiste che il nostro modo contemporaneo ci ha consentito di toccare con mano?

Difficile dire, ovviamente; perché, come osserva Zakaria, nonostante tutto nella storia dell’uomo nothing is written. Non ostanti le evidenze di certe lezioni (almeno per chi abbia la mente sgombra per cercare di apprenderle), tutto è ancora ambiguamente in mano (e alla portata) dell’umanità, della sua straordinaria vitalità e reattività, da un lato; ma anche delle sue capacità di commettere tragici errori di valutazione, dall’altro lato. Ma ci sono ragioni per sperare (anche secondo me, non sempre proclive alle speranze intra-mondane) che l’ormai prossimo numero di un milione e mezzo di morti in tutto il mondo non resti privo di significato per ciascuno di noi e per le nostre comunità; e di un seguito di riflessione (al riparo da ogni intento ideologico) per tutti quelli che restano, così stretti l’uno all’altro, a popolare il nostro sempre più piccolo pianeta. 

Bene: in questo contesto che vogliamo vigorosamente definire speranzoso (per quanto doloroso sia stato il death toll che tutto il mondo sta pagando) c’è un aspetto che specificamente mi preoccupa: la panoplia di interventi (dico subito: in principio necessari ed inevitabili) che, a vario titolo, con varia intensità (e anche con differenziate intelligenze), tutte le comunità organizzate hanno dovuto (e voluto) porre in essere per arginare la frana delle rispettive economie, sembra aver riportato in auge una sorta di negazionismo debitorio: il debito (sia nella sua manifestazione privata che – ancor più – in quella pubblica) ha cominciato ad apparire (come il famoso salario degli italiani anni ’70) una variabile indipendente, sia che si tratti (per dirla con Draghi) di debito buono o di debito cattivo

Ripeto: non sto qui a negare la necessità (congiunturale, si sarebbe detto una volta) di sostenere (anche ampiamente) con finanza pubblica le economie (domestiche, nazionali e comunitarie) traballanti per effetto della pandemia; temo però che all’interno di queste politiche si inasprisca la virulenza di un altro morbo che da tempo ci assedia (noi Italiani soprattutto) e per il quale non sono alle viste vaccini di sorta: il virus statolatrico; soprattutto quello della specie mercatofobica. Fateci caso: la pandemia si sta portando via ogni (da noi pur gracile) paratia fra stato e mercato, ovunque aleggia la soluzione nazionalizzatrice di crisi vecchie e nuove (sia che si tratti di acciaierie, di autostrade, di antiche banche, di compagnie aeree, di fabbriche di elettrodomestici o di altro).

Per ragioni che posso anche capire, vengo spesso trascinato in estenuanti distinzioni ed esemplificazioni miranti a spostare quelle paratie in considerazione delle più disparate e contingenti impostazioni di politica economica (e di non meglio chiariti interessi strategici): ho scelto da tempo di sottrarmi a questo tipo di disquisizioni di principio e di impostare la questione in termini sociologici: finché la selezione della classe politica rimane della qualità che abbiamo sott’occhio, inutile discuterne: meno stato e più mercato, restringere lo stato alle sue proprie funzioni (che non sono affatto di poco momento)!

Qui mi viene in mente una citazione dal bel libro che sto leggendo (di Alberto Mingardi, Contro la tribù – Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna, Marsilio 2020): E’ l'eterna cronaca del nostro presente: lo Stato interviene, aggrava il problema che doveva risolvere  e per questo gli si chiede di intervenire di nuovo. Da nessuna parte ciò è chiaro come in Italia, paese la cui opinione pubblica è convinta nello stesso tempo che la classe politica sia composta esclusivamente da truffatori e la burocrazia solo da ignavi di professione, ma non c'è problema che l'intervento pubblico, che tipicamente è disegnato dai politici e messo in atto dai burocrati, non possa risolvere. Questa schizofrenia non appartiene soltanto a persone che, per loro fortuna, hanno un’esperienza superficiale e distante dalle decisioni della politica, ma è propria anche, forse soprattutto, di coloro che vi sono più prossimi: intellettuali, docenti universitari, esperti di ogni risma, giornalisti. 

Roma  22 novembre 2020 (festa di Cristo Re, fine dell’anno liturgico)

 

 

sabato 14 novembre 2020

Giorni nervosi / 3

Aspettando un amico malato

(di Felice Celato)

Che questi giorni siano (almeno) nervosi, ce lo siamo già detti: la ripresa violenta della pandemia (che solo qualche settimana fa credevamo in via di rapida attenuazione), il fatto che alcuni pesanti affanni da Covid abbiano toccato amici fraterni fra i più cari (e uno anche pesantemente), il perdurare della confusione istituzionale che ci caratterizza, l’angosciante senso di inadeguatezza dei nostri policy makers e (ancor più) dei loro avversari, l’assenza di ogni prospettiva meta-emergenziale, anzi l’avvitarsi su se stessi dei tic statolatrici di sempre (per i quali tutto si risolve in bonus, ristori, rinvio di tasse, provvidenze disordinate, assunzioni statali, sforamenti di bilancio, crescita del debito e via cantando “allegramente”); tutto coopera per mettermi in uno stato ansioso e catatonico che mi ostacola persino nella coltivazione dei miei interessi di sempre. Faccio fatica persino a concentrarmi sulle letture più amate (e dire che ho sul tavolo due o tre libri che in altri tempi avrei divorato!). In questa agitazione psicomotoria, vado persino ansiosamente avanti nella lettura delle pericopi delle liturgie quotidiane; sicché ho letto ieri già la pericope evangelica che udremo (coloro che vanno a messa) leggere in chiesa domani (Mt. 25,14-30). Anzi , per distrarmi, ne ho cercato il testo nella chiave sinottica che i miei lettori “paolotti” conoscono bene, per esplorare meglio qualcosa che mi pareva di ricordare anche nella versione di Luca (Lc. 19, 11-27); e in effetti ho trovato anche la piena concordanza dei testi! 

Dunque riassumo per i laici ostinati: la parabola è quella (del resto nota a tutti) cosiddetta dei talenti, cioè del padrone che parte in viaggio e, prima di partire, affida a ciascuno dei suoi servi, secondo le capacità di ciascuno, i suoi beni da custodire, sotto forma, appunto di talenti (antica moneta di ingente valore); parabola – è di tutta evidenza – da leggere in chiave escatologica ed esistenziale, sia nella versione di Matteo che in quella di Luca (la vita come luogo per la messa a frutto dei talenti che ci sono stati donati, in vista del “rendiconto” finale). Ma in ragione dell’agitazione psicomotoria che mi pervade, la mia disordinata attenzione si è soffermata su una banalità del tutto impertinente (in senso etimologico, cioè non proprio pertinente al testo; non quindi – spero – nel senso di insolente!). Dunque, al suo ritorno, il padrone chiede conto dei talenti affidati a ciascuno dei suoi servi e si compiace con quelli che – in misura diversa secondo le capacità di ciascuno – in sua assenza li hanno messi a frutto e sono stati in grado di restituirli accresciuti, appunto, del frutto; ma si adira col servo pigro (anzi: malvagio, dicono gli evangelisti!) che, per paura di perderlo, ha nascosto sotto terra il talento ricevuto in amministrazione e l’ha quindi restituito senza frutto alcuno.

Ciò che mi ha colpito (ripeto: in maniera impertinente!) è come, per entrambi gli evangelisti più o meno con lo stesso testo, il padrone ha argomentato il suo aspro rimprovero: “bisognava che tu avessi depositato i miei denari dai banchieri e io venendo avrei recuperato il mio con l’interesse” dice Matteo; “e perché non hai dato il mio denaro ad una banca? Ed io venendo l’avrei riscosso con l’interesse” dice Luca.

Bene. Per antica professionale consuetudine col commercio del tempo (e che cos’è la finanza se non commercio del tempo; e l’interesse, cos'altro se non il prezzo che rende i valori monetari comparabili nel tempo? e cos'è il mercato finanziario se non il luogo dove questi valori si scambiano?) ho trovato un impertinente conforto ai tanti anni spesi occupandomi (anche) di questo!

Confesso che qualche lettura o qualche espressione anche di ambiente ecclesiale, mi aveva cagionato qualche rimorso per il mio passato professionale, in varie fasi speso all’interno di questo piccolo o grande mercato (della cui frequentazione temevo dovessi eternamente vergognarmi); e come al solito la lettura del Vangelo mi è stata di conforto, stavolta con una notazione del tutto incidentale all’interno del suo ben altro insegnamento perenne.

Per tornare ai nostri giorni nervosi, come si vede la propensione a distrarsi indotta dalla loro agitazione può cagionare vaste defocalizzazioni, di solito – di questi tempi – ulteriormente ansiogene; stavolta, invece, è andata meglio! Forse solo perché il mio amico malato comincia a stare un po' meglio e già si intravvede l’ora in cui tutti coloro che gli vogliono un gran bene potranno riabbracciarlo (con mascherina, s’intende!)

Roma 14 novembre 2020 

domenica 8 novembre 2020

Giorni nervosi /2

 Trump & Trumpeters

(di Felice Celato)

1.

Temo che abbia ragione il Direttore del Foglio che, qualche giorno fa, ammoniva che, finito Trump, non è però finito il trumpismosi commetterebbe un grave errore – scriveva fra l’altro Claudio Cerasa –  ad archiviare la stagione trumpiana pensando che negli ultimi quattro anni il virus del trumpismo sia stato un qualcosa che ha infettato solo il dibattito pubblico americano. Il virus del trumpismo, che in attesa di un rigetto globale continuerà a esistere anche con Trump lontano dalla Casa Bianca, è stato molto altro e, più che con una certa idea di come orientare la destra, c’entra con una certa idea di come orientare il mondo.  È stato questo il dramma del trumpismo, contro cui, con fatica, la società americana ha reagito. È stato quello di aver intossicato il dibattito pubblico. E’ stato quello di aver alimentato la retorica xenofoba. È stato quello di aver giocato con il complottismo. È stato quello di aver avallato il cospirazionismo. È stato quello di aver trasformato gli esperti in una casta di nemici del popolo. È stato quello di aver flirtato con i nemici della società aperta. È stato quello di non aver fatto tutto ciò che un presidente avrebbe potuto fare per combattere il suprematismo. È stato quello di aver dato un contributo cruciale alla diffusione di teorie antiscientifiche. È stato quello di aver trasformato l’America first non nel simbolo di un riscatto americano ma in un tentativo progressivo di lasciare con le spalle scoperte i difensori della democrazia liberale. È stato quello di aver strizzato gli occhi a tutti i politici decisi a trasformare l’Europa in un sogno da distruggere. È stato quello di aver trasformato, a colpi di dazi, la libera circolazione delle merci in un feticcio da abbattere. È stato quello di aver messo la democrazia della conoscenza sullo stesso piano della democrazia dei creduloni. È stato quello di aver messo il conservatorismo al servizio di una ideologia antisistema. È stato quello di aver applicato con costanza, per anni, una dottrina magnificamente sintetizzata dal sociologo Gérald Bronner come l’effetto Otello: non importa quanto una teoria sia accurata, anche una teoria palesemente falsa può avere successo se invade il dibattito pubblico e instilla il dubbio nella mente delle persone. “Nel libro terzo della Guerra del Peloponneso – ha ricordato Mark Thompson nel suo magnifico saggio sulla ‘Fine del dibattito pubblico’ dedicato a un’America trumpiana non così diversa dall’Italia sovranista – Tucidide sostiene che un fattore importante del declino di Atene da democrazia disfunzionale fino a tirannide e anarchia passando attraverso la demagogia fu una particolare mutazione nel linguaggio, quando cioè la gente cominciò a definire le cose in modo casuale, senza ordine, facendo perdere alle parole il loro vero e accettato significato”. In questo senso, il guaio del trumpismo non è quello di essere stato un veicolo di bugie eccessive, non è quello di essere stato un simbolo di un’etica tradita, non è quello di essere stato il simbolo di come si eludono le tasse. Ma è stato molto altro. Ed è stato quello di aver allegramente contaminato i pozzi del dibattito pubblico mettendo in circolo un veleno con cui le democrazie liberali dovranno fare i conti chissà quanto a lungo

Fin qui la citazione [della cui lunghezza chiedo scusa], con qualche mia sottolineatura.

2.

Direi io che, passato Trump (la tromba, in inglese, ma anche la briscola; un gioco che, in Italia, dà quasi sempre luogo ad interminabili contese alto-vocali, sull’efficacia di come vengono giocate le singole carte), restano però, per esempio da noi, i trumpeters (i trombettieri del gergo militare, non certo eccelsi artisti della tromba ma utili, nei campi di battaglia e negli accampamenti, per suonare sveglie, adunate, cariche e… ritirate).

In questi giorni nervosi e inusitati, mentre ci torna in mente la tragica poesia della nostra adolescenza [il morbo infuria…il pan ci manca…sul ponte sventola bandiera bianca], ci verrebbe voglia di sentirli suonare – i trombettieri – solo le note solenni del Silenzio fuori ordinanza; ma il silenzio, da tempo, non è più fra gli spartiti che circolano nel nostro rabbioso paese. E sul dolore e l’ansia di tutti, temo seguiteremo ad ascoltare incongrue adunate (o, peggio, cariche dissennate).

Roma 8 novembre 2020

 

 

lunedì 2 novembre 2020

Giorni nervosi

 Pensieri sparsi

(di Felice Celato)

Non so se, anche ai miei corrispondenti (in senso Ungarettiano), questa cappa pandemica fa lo stesso effetto che fa a me: i pensieri faticano ad addensarsi ordinatamente su qualcosa che valga la pena di discutere fra noi; i numeri ribelli del morbo, gli amici più cari sfiorati e magari anche colpiti da qualche forma di infezione, l’allarme sociale, il vociare più confuso che mai dei nostri soverchiati “politici”, la preoccupata omogeneità degli argomenti di cui si finisce inevitabilmente a parlare (o a leggere) ovunque; tutto insomma coopera per interrompere il fluire ordinato di ragionamenti non del tutto condizionati dalla "peste". E tuttavia  – per non perdere l’abitudine alle nostre conversazioni asincrone – eccomi qua a riversarvi comunque i frammenti degli sparsi pensieri di questi giorni inusitati.

 

Il Giorno dei Morti: da quando se ne sono andati i miei amati genitori, il Giorno dei Morti mi è diventato più triste e più dolce: mi fa piacere ritrovarmi a conversare col loro cenere muto e mi commuove il flusso dei rimpianti. Quanto cose vorrei che ci fossimo detti e invece ci siamo taciuti o ci siamo detti con parole sbagliate! Oggi, però, mi pare di riprendere con loro lo spazio dei sentimenti che ci siamo nascosti pur provandoli con un’intensità che, ora, il tempo dilata.

 

I bambini nella pandemia: per un vecchio qual sono, dati i tempi, potrebbe essere quasi pericoloso confessare la sua passione per i bambini: li vedo, coi loro genitori, a spasso per qualche giardino, ignari dell’ambiente e concentrati sulla loro curiosa vitalità; per loro il Covid non esiste e sorridono come sempre o piangono per cose che ci fanno sorridere. Osservandoli, credo di aver capito perché i bambini sono gli umani maestri del regno dei cieli (se…non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli…perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli,…perché …i loro angeli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli; Mt. 18, 3-4, 10).

 

Satura tota nostra est, scriveva Quintiliano (la satira è totalmente latina). E in effetti pare che i Greci – che pure quanto a civiltà del pensiero furono maestri dei romani – non praticassero, per lo meno con la passione dei romani, questo genere letterario che, oggi, sembra diventato totemico (anche quando è puro sghignazzo). Bene: ma, mi chiedo, perché nell’irrinunciabile diritto alla satira (rivendicato da ogni laico che si rispetti, quasi che essa sia il simbolo più sacro della libertà di espressione) non funziona nessuno dei “limiti” che (giustamente) ci siamo autonomamente dati al nostro linguaggio? In fondo ci censuriamo se ci viene in mente di definire negro  un nero di pelle (eppure niger, -a, -um, nella nostra lingua madre, vuol dire, appunto nero) o condanniamo (e giustamente!) chi apostrofa, con parola rubata alla suburra, come finocchio un omossessuale, o chi definisce sordo un non-udente o cieco un non-vedente, o minorato un diversamente abile; ci preoccupa, insomma, l’essere in qualche modo, anche solo lessicalmente, irrispettosi dell’altrui “diversità”, meritevole – come è ovvio – di ogni nostro riguardo (lo dico da convinto eterofilo, non solo per inclinazioni sessuali ma anche per passione intellettuale verso l’altro, il diverso). E, invece, per quanto riguarda le (altrui) convinzioni religiose ci sentiamo in diritto di beffeggiarle senza alcuna auto-censura, quasi che il panottico del politically correct arresti il suo occhio severo di fronte alla diversità religiosa (o proprio alla religione?). [N.B.: (1)  Per un liberale radicale come chi scrive è veramente difficile questo discorso che sembra porre in questione un aspetto della libertà di espressione; ma quella che pongo è una questione di pura autolimitazione, non una rivendicazione normativa; (2) a qualche laico un po' fesso – che fa finta di credere che il rispetto rivendicato sia verso il Dio di ciascuno anziché verso il singolo credente – mi sento di garantire, da credente, che il buon Dio, delle nostre parole più corrive, per nostra fortuna non tiene alcun conto; Egli è abituato a guardare oltre le parole; (3) mi viene assai difficile ritenere che il diritto alla blasfemia (rivendicato con fierezza da alcuni) sia solo una manifestazione di laica indifferenza ai credi religiosi e non anche una forma di incivile spregio per le convinzioni religiose; (4) solo un fesso al cubo potrebbe ritenere questo discorso in qualche modo assolutorio verso ogni e qualsiasi forma di violenza del tipo di quelle che si sono scatenate in Francia in questi giorni].

 

Misure di contenimento del virus: attendiamo le nuove misure col senso di trepidazione che ci crea ogni azione normativa di questa nostra affannosa politica annunziante.

Certo mi peserebbe assai dover rinunciare – solo perché ho compiuto i 70 anni – al piacere di immergermi ogni sera nella famosa movida fino a tarda ora.

Roma 2 novembre 2020