giovedì 29 agosto 2019

Stupi-diario di fine agosto

Bilancio (provvisorio, come tutti i bilanci)
(di Felice Celato)
Difficile fare un bilancio di quest’agosto Italiano; però tenterò, non foss’altro perché da sempre la fine del cosiddetto periodo delle vacanze mi suona come una specie di laicissima fine d’anno. Quest’anno, poi, particolarmente significativa: siamo alla nascita – ho appreso – di un nuovo umanesimo, una sorta di nuovo Rinascimento (decorrenza: settembre p.v.) che getterà alle nostre spalle le scorie di quello scamuffo che, senza nostra colpa (??), ci era capitato di incarnare (come paese, intendo) negli ultimi tempi ruggenti. E dunque vale la pena di soffermarsi – per una pausa ironica – su questa cesura agostana.
Dico subito che per me finisce la consueta ansia vacanziera: figli e nipoti sono tornati dai loro giri (più o meno insensati) sani e salvi; gli amici vaganti cominciano a programmare i loro ritorni, carichi di cose da raccontare con le gambe sotto il tavolo; l’ordinaria ansia quotidiana riprende i suoi ritmi ai quali da qualche anno – volente o nolente – mi sono reso avvezzo; e dunque un bilancio dell’agosto si può abbozzare (anche con due giorni d'anticipo), dividendo – come fa ogni buon bilancista – le cose buone che sono maturate al caldo (l’attivo del nostro bilancio, destinato a tramutarsi in sperati pingui incassi, forse già da settembre) da quelle cattive che sono fiorite sotto il sole e che non mancheranno di giuocare il loro nefasto influsso sui mesi a venire (le passività, si sa, inevitabilmente generano esborsi, finché la baracca si regge).
Ne menzionerò tre cattive e tre buone, lasciando ai lettori il giuoco di aggiungerne a loro piacimento nel personale bilancio agostano che ciascuno potrà fare.
Cominciamo dalle cattive: la cosa più inquietante, per me, è stato il pessimo calcio-mercato del Milan, battezzato da una amara sconfitta alla prima uscita ufficiale (ahimè contrappuntato da una sonante vittoria dell’Inter e da una – magari stentata –  della Juventus) ; poi c’è stata la morte di Felice Gimondi, l’omerico Ettore del ciclismo della mia gioventù (fuori da ogni ironia: una bella persona, prima ancora di essere stato un grande atleta!). Infine, forse la peggiore delle notizie: la Regina Elisabetta decreta la sospensione (temporanea) del Parlamento Inglese, per consentire un sereno non-dibattito sulla questione Brexit. Non vorrei – e capirete bene quanto la cosa mi preoccupa per l’amore che porto ai pp. Gesuiti! –  che i moderni loro confratelli inglesi possano concepire – oltre 400 anni dopo l’infausto tentativo di ben altra scaturigine – una nuova Congiura delle polveri!
Passiamo ora alle cose buone: per fare il buon nonno, ho spiegato accuratamente al mio nipotino di nemmeno cinque anni il basilare concetto (del quale nessun bambino dovrebbe fare a meno!) dell’utilità marginale del capitale. La saggezza e la prontezza del nipotino mi hanno colpito molto positivamente, da farmi temere che il Presidente della Repubblica potesse improvvisamente convocarlo al Quirinale, dato che – ci spiega un cripto-comico prestato alla politica – ora, col nuovo Governo di cui ho vagamente sentito parlare, i ministri saranno scelti - in omaggio alla discontinuità - tra personalità competenti (poi, pare, che oltre alla quota rosa, nel prossimo governo, ci sarà anche una quota verde, nel senso dell’età!). Poi, altra notizia da salutare come foriera di grandi sviluppi: pare che Greta abbia potuto gridare “Terra, terra!” davanti alla costa Usa, baldamente raggiunta in barca anziché in aereo (da tempo ormai detesto anch’io gli aerei, per ragioni che qui sarebbe lungo spiegare e comunque diverse da quelle di Greta). Infine, ultima buona nuova, pare che Wanda Nara stia per risolvere il giallo dell’estate, ponendo fine all’angoscioso rovello che ci ha rovinato l’estate: che fine farà Icardi?
Fin qui l’abbozzato bilancio agostano. Per sottrarmi all’angoscia delle passività appena elencate (e di altre che per brevità ho omesso di citare) mi sono avventurato nella lettura di un Trattato sull’anima (Castelvecchi 2014), scritto da uno scienziato francese (Philippe Lazar) in ottica esplicitamente materialista. Una lettura  colta che raccomando a tutti, soprattutto agli amici coi quali intesso quotidianamente quella rete di relazioni col mondo che costituiscono, per il materialista Lazar, l’essenza dell’anima che non muore col corpo.
Roma (finalmente!)  29 agosto 2019
P.S. Per meri fini scramantici, incrociamo le dita sugli esiti degli ulteriori 2 giorni di agosto che ci aspettano! Non si sa mai quali sorprese può recare ogni giorno!

giovedì 22 agosto 2019

Ri-letture

Initium ut esset
(di Felice Celato)
Initium ut esset, creatus est homoQuesta fondante citazione da sant’Agostino (De civitate Dei) l’ho ri-trovata alla fine di un grosso volume che avevo letto anni fa e che, in questi giorni di ansiosa (e desiderata) estraniazione, ho risfogliato: si tratta di Le origini del totalitarismo (P.B. Einaudi, disponibile in e-book) scritto da Hannah Arendt nel 1951:  «Initium ut esset, creatus est homo», «affinché ci fosse un inizio, è stato creato l’uomo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo.
Il senso della citazione che ne fa la grande intellettuale ebrea apolide (autrice, come tutti sanno, del capitale libro La banalità del male, in fondo anch’esso un’indagine sui meccanismi di svuotamento dell’umanità proprio della dittatura nazista, traguardata attraverso la personalità di Eichmann) sta tutto in questo messaggio: ogni fine nella storia [e, scrive poco prima Hannah Arendt, il dominio totalitario, al pari della tirannide, racchiude in sé i germi della propria distruzione ] ogni fine della storia contiene inevitabilmente un nuovo iniziol’inizio [il nuovo inizio], prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana.
Il libro della Arendt (che appena uscito non mancò di suscitare anche complesse critiche per alcuni suoi presupposti filosofici, sui quali non è il caso di soffermarsi) è in buona sostanza un’analisi delle tecniche di potere dei grandi totalitarismi contemporanei (nazismo e comunismo) e, al tempo stesso, un’opera di educazione politica e civile, perché nessun sistema politico contemporaneo è del tutto immune dal rischio degenerativo del pensiero ideologico, cioè degli -ismi che per la soddisfazione dei loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa. Perché, in fondo (ed è questa la considerazione della Arendt che mi ha bruscamente ricondotto al nostro tempo) il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.
Fin qui la citazione dal “vecchio” tomo; ma il richiamo alla realtà è stato potente, complice la lettura - distratta, annoiata o disgustata quanto si vuole, ma forse inevitabile - del “dibattito” parlamentare sulla mozione di sfiducia (prima presentata poi ritirata) al Presidente del Consiglio (nel frattempo dimessosi): l’impressione è stata quella della completa obliterazione di ogni distinzione fra realtà e finzione, perpetrata con cinismo da “eletti” intenzionati a somministrare agli elettori il “loto” della politica di cui essi sono avidi, come gli omerici compagni di Ulisse (vedasi il post La “lite” sul loto del 10 1 2017 e mi si perdoni l’auto-citazione). Diciamoci la verità, per quanto amara: quando ci lamentiamo della politica, siamo, in fondo ingiusti verso coloro che sono stati “eletti” per governarci. Essi rispondono con la loro pochezza alla pochezza della domanda politica che li sorregge: e allora, per questo popolo che li vota, vanno bene slogan ormai privi di senso,  sceneggiate, banalità noiose usurate dal troppo ripeterle, vere e proprie falsità inventate per spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa (come direbbe Hannah Arendt); va tutto bene, persino la vigorosa minaccia di autosfracelli, persino l’ostentazione devota di simboli religiosi; persino l’esposizione di cartelli per dare corpo visivo alla nullità dell’esposto. Va tutto bene (purché sia falso o artificioso o fuorviante), direbbe chi guardi alla politica come ad un mercato: è la domanda (di umori, rancori, passioni faziose, promesse di spesa, fughe dalla realtà) che crea l’offerta.
A meno che. A meno che non siano gli “eletti”, come il giornalista del famoso romanzo Numero Zero di Umberto Eco (Bompiani, 2015), a pensare che  la gente all’inizio non sa che tendenze ha, poi noi gliele diciamo e loro si accorgono che le avevano; cioè che l’offerta (di umori, rancori, passioni faziose, promesse di spesa, fughe dalla realtà) crea la domanda.
Come che sia da pensare l’attuale “mercato della politica” (e francamente, come elettore, non saprei di quale visione dolermi e vergognarmi di più), non ci resta che sperare, parafrasando sant’Agostino, in un nuovo initium, ut homo sit.
Orbetello, 22/23 agosto 2019






sabato 17 agosto 2019

Zoologia e finanza

I tassi sono poco o molto saggi?
(di Felice Celato)
Scrive Wikipedia che il tasso (Meles meles…) è un mammifero carnivoro della famiglia delle Mustelidae.… L'aspetto è quasi ursino, con corpo robusto e zampe corte e forti con grossi unghioni adatti a scavare: la caratteristica mascherina nera sulla faccia bianca rende il tasso inconfondibile. Il tasso è un animale notturno, che passa la giornata a dormire all'interno di una delle numerose tane che questi animali scavano nel proprio territorio, e che spesso vengono condivise con altri animali: tuttavia, se molestato, esso si rivela un avversario temibile e tenace.
Sono convinto che coloro che mi conoscono sappiano bene delle mie scarse competenze in materia di zoologia (unica freccia al mio arco, in materia, sarebbe quella di essere figlio di un veterinario, col quale però non ricordo di aver mai parlato di Mustelidi); e perciò posso presumere che tutti abbiano capito che quando parlo di tassi non intendo riferirmi al curioso animaletto dall’aspetto quasi ursino dalla caratteristica mascherina nera sulla faccia bianca. E tuttavia i tassi di cui mi sono occupato per una vita (quelli noti in economia come saggi di interesse, anche se la loro... saggezza viene spesso messa in dubbio), condividono col loro omonimo animalesco certe abitudini di vita: spesso passano la giornata a dormire (nel senso che, di giorno, quando splende il sole, nessuno, in superficie, nota che esistono), talora, quando si infiammano, diventano avversari temibili e tenaci e, per di più, quando il mondo gela, vanno in letargo.
Bene; chiarito così il tema, vengo al sodo: in questi giorni si è letto sui giornali che una banca Danese offre ai suoi clienti mutui a tasso negativo. 
La cosa non sorprende affatto; da tempo ormai i nostri sistemi economici convivono con questa stranezza, prevalentemente (ma non solo) nell’ambito di rapporti interbancari e con la banca centrale; c’era quindi da attendersi che, prima o poi, i tassi negativi facessero la loro comparsa anche nei rapporti fra banche e clienti ordinari.
Non è questo il luogo per discutere  le ragioni e le meccaniche di tale novità (che io sappia è la prima volta che chi presta i soldi per mestiere si dichiara disposto a riceverne indietro meno di quanti ne ha prestati, anche in valori nominali). Invece vale forse la pena di riflettere un po’ sul messaggio profondo (direi quasi filosofico) che questa novità reca a chi la guardi con occhi scevri da tecnicismi da addetti ai lavori. Il tasso di interesse, come tutti sappiamo, è il compenso che il prestatore esige per fare credito a chi ne chiede; esso remunera anzitutto l’operazione in sé (in fondo quante opportunità perdo privandomi della somma data in prestito: quante altre cose, diverse dal prestare il mio denaro e magari più lucrose, avrei potuto fare con la somma che erogo al prenditore?); e poi paga il prezzo dei rischi che il prestatore si assume per il decorso del tempo fra quando eroga il credito e quando se lo vedrà ripagato (per intero). Quali sono, in estrema e semplificata sintesi, questi rischi? Innanzitutto quello della controparte (si potrebbe dire quello espresso dal famoso spread): chi mi garantisce che il debitore vorrà effettivamente rimborsarmi quanto gli ho prestato; o che, indipendentemente dalla sua volontà, le sue intraprese siano produttive di quei ritorni che assicurano il rimborso delle somme ricevute in prestito? Poi c’è il rischio monetario: quando riceverò indietro la somma che ho prestato sarà essa in grado di consentirmi l’acquisto delle stesse cose che mi consentiva di acquistare nel giorno in cui me ne sono spossessato per prestarla al debitore? 
Come si sarà capito anche da chi non si è mai occupato di finanza, tutti questi rischi (ed altri che magari qui sarebbe complicato esemplificare) sono connessi all’essenza della finanza che è, per sua natura, commercio del tempo e misurazione (attraverso il tasso) dei rischi connessi al decorso di esso.
Eccoci allora al problema dei tassi negativi ed al suo implicito messaggio: che vuol dire, in essenza, il fatto che sono disposto ad accettare di ricevere indietro meno di quanto ho prestato? 
Vuol dire che attribuisco al tempo un valore negativo: il tempo (presente e futuro) mi pare così povero di opportunità che sono disposto a farmi carico di tutti i rischi che il tempo comporta (quello di controparte e quello monetario) pur di trovare, oggi, un impiego per il mio denaro. Il futuro, il luogo dove vivranno i nostri figli e nipoti, vale per me meno di zero. Questo vuol dire tasso negativo. Sarebbe bene averlo sempre presente quando, con le poche forze che ci restano per festeggiare qualcosa, plaudiamo al tasso 0!
Meglio andare in letargo, direbbe un saggio mustelide: intorno c’è gelo profondo.
Orbetello, 17 agosto 2019

domenica 11 agosto 2019

Letture

Attorno all’immigrazione
(di Felice Celato)
Tentare di tracciare, nel limite delle nostre consuete 750 parole, anche una sola super-sintesi dei numerosi profili di una questione così articolata, complessa e appassionante come quella dell’immigrazione, sarebbe impresa vana e forse anche un po' sciocca. Il tema – come tutti sanno – è di portata globale e di rilevanza epocale: se solo si dà un’occhiata ai molti dati raccolti da organismi internazionali di sicura affidabilità, ci si rende conto facilmente delle enormi cifre di umani coinvolte nel fenomeno, sia nella sua genetica natura economica che in quella umanitaria. Limitando lo sguardo all’ambito Europeo (fonte: 3rd Migration Observatory Report, annualmente curato dal Collegio Carlo Alberto dell’Università degli studi di Torino e dal Centro studi Luca d’Agliano) si stima nell’ordine del 12% l’incidenza media di immigrati presenti nei 15 Paesi principali dell’UE (circa 10% in Italia), circa 48 milioni di umani di cui quasi il 50% di origine extra-europea.
E dunque l’ampiezza del fenomeno è tale da spiegare la crescente attenzione (ma non da giustificare l’isteria) con la quale il problema è affrontato negli ambienti politici di tutto il mondo (e massimamente da noi); peraltro, nelle correnti confuse  percezioni del fenomeno (cfr. Hans Rosling: Factfulness, e, per l’Italia, Nando Pagnoncelli: La Penisola che non c’è, entrambi qui segnalati con post rispettivamente del 28 6 18 e del 24 5 19) giocano spesso interessi politici, macroscopiche confusioni sulla natura delle migrazioni (economica o umanitaria), disinformazione interessata o strutturalmente sciatta, diffusa scarsità di cultura e, quindi, di senso critico, etc. (i lettori di questi post ricorderanno che l’Italia – secondo l’annuale studio Ipsos MORI The perils of perception, 2017, è, fra quelli censiti, il paese Europeo con maggiore scostamento fra percezioni e realtà, il Misperception Index).
Per tutte queste ragioni eviterei di affrontare in poche righe il tema in discorso, che invece dal punto di vista sociologico ed umano assai mi interessa (e, per la sua complessità e decisiva influenza sul futuro, mi appassiona anche  intellettualmente); purtuttavia mi va di segnalare una recentissima ed interessante lettura che – in un certo senso – mi è sembrata l’epitome delle torsioni che il problema in discorso impone quando se ne vogliono cercare radici e soluzioni al di fuori della natura sua propria.
Si tratta del libro di Jean Louis Harouel (storico del diritto, professore emerito a Paris II) intitolato I diritti dell’uomo contro il popolo (LiberiLibri, 2018). Dico subito che si tratta di un saggio di un centinaio di pagine (e perciò….del taglio che mi è più gradito), scritto con grande chiarezza e certamente ricco di spunti per la riflessione; e tuttavia, a mio giudizio, francamente ultroneo nelle rivisitazioni di materie (dai fondamenti cristiani dei diritti umani alla costituzionalizzazione di essi) che mi appaiono (a dir poco) estremamente laterali rispetto al problema de quo; che è – essenzialmente – un problema demografico ed economico, intrecciato con profili umanitari laddove l’emigrazione abbia connotazioni, appunto, di prevalente natura umanitaria (mi riferisco alla categoria dei rifugiati, senza ignorarne la difficile perimetrazione); e, quindi un problema da affrontare, discutere e gestire con ragionate politiche che tengano in conto – dove è necessario –  i profili culturali e giuridici della comunità ospitante (e, fra questi, i diritti umani, anche in Italia recepiti in Costituzione, agli art 2, 3 e 10  per l’esattezza, oltreché radicati nella cultura cristiana della quale – piaccia o non piaccia ad Harouel – fanno parte), le implicazioni economiche dei flussi e la loro sostenibilità, l’evoluzione demografica del paese nel contesto del resto del mondo e – per quanto ci riguarda – dell’Europa. 
Poi, si possono anche avere tutte le percezioni che si vuole dell’immigrazione (quella islamica soprattutto sembra interessare Harouel… del resto come  Houellebecq); entro certi limiti si può anche essere ragionevolmente preoccupati di certe componenti cultural-religiose dell’immigrazione di origine islamica; e tuttavia, a mio parere, per sostanziare politicamente tali percezioni e preoccupazioni (come è assolutamente legittimo fare) non mi pare proprio il caso di scomodare le influenze gnostiche nella cultura cristiana; come mi pare scarsamente utile alla sanità del dibattito sul tema additare come mortiferi disgregatori sociali i diritti dell’uomo, quand’anche, incidentalmente, se ne ritagli la sola porzione che pare irrinunciabile.
Concludo con la raffinata citazione da Elias Canetti (La provincia dell’uomo) con la quale il Governatore della Banca d’Italia ha chiuso le sue Considerazioni Finali alla Relazione presentata agli azionisti della Banca il 31 maggio u.s.: nell’oscurità le parole pesano il doppio. E, su questo tema, forse in Francia ma sicuramente in Italia, in questo momento non c’è molta luce.
Roma 11 agosto 2019



martedì 6 agosto 2019

Check-up semiserio



Spleen e terapia
(di Felice Celato)
Un amico, lettore fedele di queste povere note e critico sempre intelligente delle opinioni qui esposte solo come stimolo alla discussione fra amici, mi scrive (privatamente e con riferimento all’ultimo post) lamentando “uno spleen magari comprensibile ma in fondo eccessivo”.
Ora, la gran parte dei miei lettori, se bene fruga nella memoria, troverà traccia di questa fortunata parola (spleen) che a suo tempo conoscemmo studiando la letteratura; ma la memoria - si sa - alla nostra età si giova di qualche ripasso che, in breve, tenterei partendo ancora una volta dal Vocabolario Treccani: 
Spleen: Termine inglese (dal gr. σπλήν «milza», il cui umore nero, secondo la medicina ippocratica, causava l’ipocondria) che indica uno stato d’animo caratterizzato da malinconia, insoddisfazione, noia e fastidio di tutto, senza una ragione precisa che lo provochi, proprio di molti scrittori romantici e decadenti, soprattutto inglesi e francesi.
Forse più del Vocabolario, stavolta, una omonima poesia (Spleen, di Charles Baudelaire, in Les Fleurs du mal) illumina sul senso (se si vuole: letterario) di questa parola:
Quando come un coperchio, il cielo basso e greve / schiaccia l'anima che geme nel suo eterno tedio, / e stringendo in un unico cerchio l'orizzonte / fa del dì una tristezza più nera della notte, / quando la terra si muta in umida cella segreta / dove sbatte la Speranza, timido pipistrello, / con le ali contro i muri e con la testa nel soffitto marcito;/ quando le immense linee della pioggia / sembrano inferriate di una vasta prigione / e muto, ripugnante un popolo di ragni / dentro i nostri cervelli dispone le sue reti, / furiose ad un tratto esplodono campane / e un urlo lacerante lanciano verso il cielo / che fa pensare al gemere ostinato / d'anime senza pace né dimora.....
Bene: chiarito il concetto anche con l’ausilio del poeta maledetto, non nego che un certo....schiacciamento dell’anima talora - in questi tempi - gravi come un coperchio sulla mia percezione del presente; o, se volete uscire dalle suggestioni letterarie, che un misto di disgusto e di noia pervada la (mia) quotidiana lettura di fatti e tendenze del nostro mondo.
Ma - mi preme chiarirlo usando le stesse parole di Baudelaire -  l’ Angoscia, dispotica, non ha ancora piantato sul mio cranio chinato il suo nero vessillo.
Non solo perché....ci sono sempre le famose sei anfore di pietra in attesa del Vino Buono (e non è poco!), ma perché io credo (ancora!) che - alla umana portata delle nostre mani - ci sia (ancora!) una strada rivoluzionaria che (ancora) non abbiamo percorso; sì, rivoluzionaria perché la rivoluzione non è solo revolucion, secondo un concetto marxista prestato alle confuse istanze del sud America di qualche decennio fa (delle quali vediamo tutt’oggi le misere vestigia); perché da noi non è stata ancora percorsa (ancorché talora intraveduta); perché comporta una trasformazione radicale degli assetti psico-sociali ai quali ci siamo da lungo fatti avvezzi.
Restiamo nell’ottica ippocratica (l’umor nero secreto dalla milza provoca l’ipocondria) e proviamo a descrivere, come fossimo clinici, la rivoluzione cui alludo, abusando dell’analogia sanitaria e immaginando - in fondo forse appropriatamente - la nostra società come un organismo vivente.
L’anamnesi è cupa: il paziente soffre di una perdurante crisi di stanchezza e sfiducia nei propri mezzi e negli altri, forse riconducibile alla sua troppo giovane esperienza democratica o alla sua carente formazione critica; è perennemente ringhioso, alla ricerca di qualcuno con cui prendersela per i propri problemi e, allo stesso tempo, avido di scorciatoie per risolverli a suo modo, senza troppa fatica; si mostra spesso credulone con frequenti crisi onirico-narcisiste.
Diagnosi: urge “ripulire” le sue arterie dal colesterolo della statolatria che occlude ed irrigidisce i vasi, liberare i suoi polmoni dall’enfisema oppressivo che accorcia il respiro della sua vitalità, abbassare il tasso di glicemia paternalista che gli pervade il sangue di dolciastri umori statalisti e provoca cancrene e gravi deperimenti funzionali; depurare il fegato degli umori perversi che rendono fetida la sua bile. 
Terapia: sull’organismo così depurato, somministrare poi massicce iniezioni quotidiane di rule of law per molti anni, almeno finché l’organismo stesso non avrà ricominciato a produrre da sé il gusto della libertà (che, come diceva Benedetto Croce, al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale) e la passione per la vita.
Prognosi: dopo la cura, la guarigione è assicurata; lo stato oppressivo padre-padrone e fratello prepotente, una volta ricondotto ai ruoli suoi propri, sarà solo un ricordo di questi anni grevi.
Orbetello, 6 agosto 2019

sabato 3 agosto 2019

Un possibile esercizio

In attesa del Vino Nuovo
(di Felice Celato)
Sollevo la testa che tenevo fra le mani disperate non perché – così trattenendola – abbia trovato soluzioni all’angoscia dei tempi: da qualche settimana non ci sentiamo in questa sede (dal giorno di Pentecoste, per l’esattezza) perché le parole stanche che macinavo mi hanno un po' usurato e forse reso noioso (anche se, riferisce Quartz, boredom is an important adaptive function and can be good for us). Ma il fatto “nuovo” che mi induce a riprendere la penna (pardon: la tastiera) è una considerazione che veniva facendo un amico, raffinato nella mente e nel cuore: in fondo, diceva l’amico G., non ci meritiamo il nostro presente! L’esclamazione (della quale condivido i presupposti) mi ha “risvegliato” il ricordo di una considerazione – solo apparentemente paradossale – di Sant’Agostino (Confessioni, cap 11). Provo a riassumerne il senso: né futuro né passato esistono (il primo perché ancora non è, il secondo perché non è più); e il presente, in fondo, fa continuamente passare il futuro in passato (sicché il primo si contrae ed il secondo cresce, finché la consumazione del futuro tutto non è che passato).
Il fatto è che se guardo al tempo identificandolo col presente (perché è l’unico che esiste, sia pure per far scorrere il futuro verso il passato), lo sgomento di G. non può che apparire giustificato, almeno per chi condivide le nostre analisi del presente civile del nostro paesello accaldato (e, per la verità, non solo di questo!). Ma il discorso sul merito (meritiamo il nostro presente?) non può che comportare la ricerca, nel presente, delle sue radici nel passato (il futuro, che per definizione ancora non è, in questo discorso sul merito, per fortuna non entra; del resto, qualche settimana fa – e tuttora – mi pareva affidato, come forse ricorderete, a quelle sei anfore di pietra da riempire con Vino Nuovo, perché noi, da soli, non abbiamo più vino!).
Bene: sul passato tralascio di farvi rapporto di letture alle quali ho affidato in queste settimane l’esorcismo sul presente, senza trovarvi consolazione: ho riletto I sonnambuli di Christopher Clark - qui segnalato col post Storie dell’8 aprile del 2016 – e letto il (troppo) corposo romanzo/reportage storico di Antonio Scurati M, Il figlio del secolo (Premio Strega 2019, Bompiani, 2019): ce n’è abbastanza per dubitare profondamente sulla benemerenza delle nostre trascorse radici antropologiche.
Ma, seguendo Sant’Agostino, prendiamo atto che il tempo passato non è più perché in esso si sono già consumati tutti i nostri presenti; e dunque che il nostro merito del presente non possa che essere ricercato nel presente.
E allora vi propongo un esercizio banale, una specie di esame di coscienza antropologico, che affido alla vostra indulgenza se, per caso, dovesse sembrarvi stolido o distruttivo o solo provocatorio o inutilmente corrosivo.
Proviamo a considerare, uno per uno, i termini coi quali il Vocabolario Treccani descrive il senso della parola cialtrone e, uno per uno, domandiamoci se, per caso, non ci paia perfettamente corrispondente ad una certa smagata auto-valutazione che possiamo fare di noi stessi (intesi come collettività o, meglio, come carattere collettivo prevalente sulle nostre molteplici – e talora meravigliose – individualità):
Cialtróne s. m. (f. -a)  
Persona volgare e spregevole, 
arrogante e poco seria, 
trasandata nell’operare,
priva di serietà e correttezza nei rapporti personali, 
o che manca di parola nei rapporti di lavoro. 
Anche, con significato attenuato, 
persona sciatta nel vestire e nel portamento, 
o che nel lavoro sia solita fare le cose in fretta e senza attenzione.
Io l’ho fatto, quest’esercizio, e – a parte la sciatteria nel vestire e nel portamento (perbacco! Siamo il Paese del buon gusto, che tutto il mondo ci invidia!) – vi ho visto una spietata radiografia della nostra collettività, così come essa mi appare nel suo complesso; e per ognuna delle definizioni della Treccani avrei Kilate di esempi, dai nostrani leoni da tastiera, ai contenuti dei programmi televisivi più seguiti, alla diffusa arroganza del non sapere, alla miserevole sciatteria di molti nostri “fare”, alla sconvolgente scorrettezza nei nostri doveri fiscali o previdenziali, alle impronte digitali che dobbiamo lasciare per testimoniare che siamo al lavoro, al disarmante legalismo con cui valutiamo i comportamenti degli altri, etc.
E allora, caro amico G. (esempio di una delle tante meravigliose individualità che ci confortano), davvero non meritiamo il nostro presente (del resto democraticamente corroborato)? 
Ma ci soccorre Sant’Agostino: in fondo il nostro presente, mentre parliamo, è già diventato il nostro passato. E poi ci sono sempre le sei anfore di pietra…, in attesa del Vino Nuovo.
Roma, 3 agosto 2019