domenica 31 maggio 2015

L'azione delle radiazioni solari

Disgregazione
(di Felice Celato)
Giorni fa, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, Romano Prodi ha usato un termine, appunto disgregazione, che mi ha suscitato alcune riflessioni, che forse vanno al di là del senso che il Professore (notate la maiuscola nostalgica!) dava al suo discorso riferito all’Europa (caos-greco, annunciato referendum inglese, crollo dei partiti in Spagna, atteggiamento di Francia e Regno Unito sul problema degli immigrati, voto Polacco, etc)
La disgregazione è, propriamente, un fenomeno geologico (dal Devoto-Oli: lo scindersi delle rocce nei singoli costituenti mineralogici per l’azione delle radiazioni solari e del gelo e disgelo, integrata dall’azione chimica degli agenti atmosferici) ma, in senso traslato, ha finito per significare l’annullamento della necessaria coesione, specialmente dal punto di vista morale ed organizzativo (sempre Devoto-Oli); il fenomeno è anche conosciuto, con parola leggermente diversa (disaggregazione) in psichiatria, dove lo si definisce come separazione, dalla coscienza della propria personalità e della propria storia, di interi complessi ideo-affettivi-emotivi, legati a circostanze e periodi della vita rimossi nell’inconscio (Psichiatria e Psicopatologia, di G. Vella, già citato su questo blog).
Bene; chiarito il termine, mi domando: non è forse riferibile anche all’Italia un fenomeno (o un complesso di fenomeni sociologici) di natura disgregativa? Non è forse che, un po’ anche da noi, si stia sfarinando (definitivamente?) l’impasto di quella necessaria coesione morale ed organizzativa, che, in fondo, teneva insieme le vicende degli ultimi settanta anni, come se la coscienza della nostra storia stesse perdendo interi complessi ideo-affettivi-emotivi che appartenevano al nostro modo di guardare alla realtà e di cercare di governarla? A che cosa vi fa pensare, per esempio, la miserevole confusione politica e para-giudiziaria in cui si tengono, in Italia, elezioni che tutto sommato dovrebbero avere rilevanza locale e nemmeno generalizzata? A che cosa, l’ormai evidente incapacità di coagulare il paese attorno ad una auto-rappresentazione sufficientemente condivisa, fra pulsioni populiste di destra e di sinistra e tramonto – anche da noi – di stabili punti di aggregazione a destra o a sinistra? Che cos’è, se non una rimozione nell’inconscio di circostanze e periodi della vita nei quali si è costruito il nostro benessere, il perdurante rifiuto di fare i conti con la natura (e le implicazioni presenti) di questo benessere? O la dis-trazione (nel senso di trazioni contraddittorie ed opposte) alla quale sottoponiamo incessantemente anche l’interpretazione della cosiddetta ripresa economica, fra ingiustificate celebrazioni di successi e impressionanti silenzi sulle cose da fare veramente, tutto sommato, anche semplici da capire?
Tutto invece si muove verso approdi confusi, contraddittori, gridati ma non pensati, o, semmai, solo pensati in prospettive faziose, nessun progetto, nessuna impalcatura solida per costruire alcunché di duraturo, come se, venuto meno il collante di un benessere cresciuto negli anni e fino a qualche anno fa, l’Italia annaspi alla ricerca della coscienza della propria personalità e della propria storia.
Mah! Vedremo e speriamo che l’azione delle radiazioni solari non continui a consumare le rocce anche questa estate.
Non mi induce certo all’ottimismo la lettura che sto facendo (anche malvolentieri) di un “vecchio” libro di Sigmund Freud (La psicologia delle masse e analisi dell’io, scritto nel 1921), dove, fra l’altro, si parla di masse, impulsive, mobili e irritabili, sottoposte ad un contagio mentale che ne sopprime la capacità di distinguere, indotte a sentire, pensare ed agire in modo assolutamente diverso da come sentirebbe, penserebbe e agirebbe ciascuno…isolatamente, per effetto di una generalizzata diminuzione dell’attività intellettuale.
Nel frattempo, per consolarci tuttavia, sorridiamo dell’episodio (di disgregazione?) in cui si è trovato coinvolto (Corriere della sera di oggi) l’anziano ex premier Berlusconi che, a Segrate, sbaglia comizio e sale sul palco della “concorrenza” per sostenere il candidato locale in competizione col suo, una scena che avrebbe fatto la delizia di Totò.
Roma, 31 maggio 2015, festa della Trinità e, purtroppo, brutta giornata elettorale.



lunedì 25 maggio 2015

Stupi-diario shakerato

Il mojito
(di Felice Celato)
Confesso che i cocktails mi piacciono molto, alcuni moltissimo; e fra questi c'è il mojito: un bel po' di rum bianco cubano, succo di lime, angostura, ghiaccio, soda e, soprattutto, un po' di zucchero di canna pestato insieme a foglie di menta; una bella shakerata, e voilà: la dolce bibita, odorosa di sole, è pronta per affascinarti col suo sapore e....rapidamente confonderti la testa e tagliarti inesorabilmente le gambe. Non per niente, pare che il suo nome derivi da una parola “voodoo” e che significhi “piccolo incantesimo”.
Perchè mi viene in mente il mojito?
Perchè mi pare che il mojito sia una metafora efficace, una metafora di ciò che ameremmo trovare nel cocktail della vita quotidiana: certo, un po' di austera soda e ghiaccio (di per sé dissetanti e salutari) potrebbero bastare per togliersi la sete; ma noi, diciamo la verità, non vogliamo semplicemente dissetarci (sarebbe semplicemente noioso): vogliamo, invece, goderci una sensazione di sapori nuovi ed  esotici, sicché la soda ed il ghiaccio li prendiamo in considerazione ma solo per diluire un po' il rum bianco (mi raccomando: cubano!) aromatizzato con l'esotico  lime e con la raffinata  angostura, per evitare che aggredisca troppo duramente e, invece, dia un senso apparente di freschezza, inebriando anche ma senza darne la sensazione. E poi, tanto per potenziare la miscela, aggiungiamo il glamour dello zucchero di canna e della menta: esotismo sì, ma con un pizzico di ritorno alla natura, in fondo il rum bianco si fa con la canna da zucchero e la menta ci ricorda tanto le bevande rinfrescanti della nonna. L'importante, comunque, è lo shaker, perché tutti i sapori si confondano e si armonizzino, la miscela, il blend, deve avere un gusto unitario, fresco ed eccitante.
Questa fatua miscela (esotismo, glamour, natura, dolcezza, ebrezza à la mode), in fondo, ci piace (come mi piace il mojito!), ci fa sentire freschi, moderni, leggeri ma amanti delle sensazioni forti e della natura, attenti ai suoi antichi sapori ma desiderosi di sorbirli in un contesto che ci appaia "moderno", stimolante, nuovo. E poi, un po’ di sete, la toglie pure, la soda ghiacciata, ove mai fosse la sete a muovere il nostro bere sociale.
Così, non c'è serata mondana che si rispetti, senza il mojito, salvo poi dover tornare a casa in taxi, perché l’auto proprio non la si può guidare.
Domani sarà un altro giorno, torneremo a bere acqua, al massimo ghiacciata, quando avremo solo sete; il mojito va bene per le serate brillanti che, in fondo, non sono poi tante, e spesso lasciano un po' di tristezza:  il quotidiano, tutt'al più, va a soda e ghiaccio, ad acqua fresca.

Roma  25 maggio 2015

lunedì 18 maggio 2015

Il male della banalità

                                                             Il pensiero è ciò che manca ad una       
                                                                       banalità per essere un pensiero
                                                                       ( Karl Kraus)

(di Felice Celato)
Quasi tre anni fa ci siamo soffermati, su queste “colonne”, a riflettere sulla “banalità del male”, partendo da un paio di letture che rimangono per me fra le più interessanti di questi anni: i due post, dell’aprile e dell’agosto 2012, si intitolavano, rispettivamente, Ecologia della convivenza /2 e Ecologia della convivenza/3 e prendevano spunto da L’arazzo rovesciato  di G.Cucci e A. Monda e, appunto, da La banalità del male di A. Arendt.
Ancorché la materia non si presti a facili giochi di parole, vorrei oggi soffermarmi invece sul concetto del male della banalità, perché, francamente, mi pare un tema sul quale non spesso si riflette. Per la verità anche a questo tema ci siamo avvicinati altre volte, tutte le volte che abbiamo parlato delle lofty platitudes tanto diffuse in ambiente mediatico ma anche istituzionale e politico in generale. Ma forse vale la pena di ritornarci sopra perché, se l’abbiamo frequentemente denunciata, la banalità di molte cose che ascoltiamo quotidianamente, non mi pare che ne abbiamo considerata l’intrinseca nocività culturale e sociale.
Bene: perché dire delle banalità è intrinsecamente male? Diceva sant’Ignazio (Esercizi Spirituali) “Non dire parola oziosa; con ciò intendo, quando non giova né a me né ad un altro, e neppure è diretta a tale scopo”; e capisco che sia difficile, per noi che rifuggiamo il silenzio.  Ma anche per chi non aspira a tanta virtù, la banalità fa male, perché, naturalmente e in forma surrettizia, trasforma ogni pensiero in luogo comune; perché avvilisce il pensiero e ne mina ogni vigore; perché abolisce la coscienza e, talora, il dolore (o la gioia) della realtà; perché appiattisce la realtà, facendola apparire scontata, anche quando scontata non è.
Sia ben chiaro: sono fermamente convinto che nessuno, se non segue l’insegnamento di sant’Ignazio, possa sottrarsi al rischio quotidiano di dire banalità  (forse vale la pena ricordare un altro post, scherzoso ma non troppo, che chiamammo Il MIFTI, Minimum Irrepressible Futile Thinking Index, in uno Stupi-diario dell’ottobre scorso); però, almeno, si dovrebbe pensare che il coefficiente insopprimibile di propensione alla banalità del dire (e del pensare) decresca col crescere dell’autorevolezza del dicitore, tanto più quando l’autorevole dicitore per natura parla poco o, per funzione, dovrebbe parlare poco. Leggendo i giornali di questi tempi, temo che così non sia; il che aggrava notevolmente il male delle banalità, perché più autorevole è il dicitore di banalità più è grave l’effetto propalativo delle sue parole.  In poche parole, la banalità autorevole è un male (un doppio male, direi) perché, appunto, da un lato banalizza un problema che essendo in bocca ad un Autorevole Personaggio, banale non dovrebbe essere; e, dall’altro, banalizza il personaggio, sicchè, quando questo, per caso, dica una cosa non banale, inevitabilmente questa apparirà simile a quella banale altre volte propalata; infine, quando l’Autorevole Personaggio, lo scegliamo noi (direttamente o indirettamente) e ci rappresenta, ci fa anche rabbia sentirci dire da lui ciò che già dicono tutti.
E’ un po’ quello che accade ai Personaggi Autorevoli quando ripetono le cose che si leggono sui giornali e che forse noi conosciamo meglio di loro, magari pensando che questo dire banalità li avvicini al banale modo di pensare che si assume diffuso, li faccia sentire più vicini alla gente dicendo quello che la gente dice, starei per dire più “democratici” come se la democrazia consistesse nella banalità del pensiero.
Non mi va di esemplificare, perché tanto autorevoli sono le banalità che mi pare di aver sentito in queste settimane che proprio non mi va di mancare di rispetto ad alcuno. Spero solo di aver suscitato una sana vigilanza (democratica, s’intende!)

Roma 18 maggio 2015

giovedì 14 maggio 2015

Discorsi difficili

I diritti hanno un costo?
(di Felice Celato)
Mi ha colpito molto una domanda che pone, sul Corriere di ieri, l’ editorialista del Corriere della sera Luigi Ferrarella, una domanda che, nota l’autore, “fino a pochi anni fa…sarebbe suonata bestemmia”: Quanti diritti ci possiamo permettere? (l’articolo si riferisce alle attuali discussioni sulla recente sentenza della Corte Costituzionale in materia di deindicizzazione selettiva delle pensioni).
In realtà il senso della domanda può forse essere esteso fino ad interrogarci su un punto: quante volte pensiamo ai diritti interrogandoci sul loro costo? Ci è facile, forse, immaginare, almeno approssimativamente, quanto costa, per esempio, il diritto allo studio (art. 34 della Costituzione) o il cd diritto alla salute (art. 32 Cost.), forse perché a tali diritti corrisponde lato sensu una controprestazione (diciamo dello Stato). Si penserà, per esempio, che il diritto allo studio costi quanto costa il sostegno delle scuole o che il cd diritto alla salute costi quanto costa il sistema sanitario nazionale; sarebbero punti di riferimento imperfetti, approssimati, certamente per difetto; ma pur sempre dei punti di riferimento.
Ma quanto costa il diritto all’eguaglianza (art. 3  Cost.) o il diritto d’opinione (art 21) o il diritto alla libertà religiosa (art. 8), diritti tutti senza evidente controprestazione?
Non credo che in materia  sia facile arrivare ad avere dei pur vaghi punti di riferimento; e comunque credo che ben pochi di noi ci abbiano mai pensato, e io stesso, che pure ho fatto studi giuridici e mi sono occupato sempre di rapporti economici, devo ammettere di non averci mai pensato.
Eppure il problema forse esiste, per quanto ci possa sembrare sgradevole accostare diritti così fondamentali (ai quali, beninteso, da liberale impenitente, sono estremamente affezionato) ad un concetto così “spregiato” (dai tanti “puri” che affollano il paese) come quello di costo.
Ma la sopra accennata sentenza della Corte Costituzionale – di cui non voglio qui specificamente occuparmi – pone proprio, nel suo fondo, questo problema, aggravato dalle attuali contingenze finanziarie che ci sono ben note. Quanto ci costa preservare sempre (starei per dire: a tutti i costi) il diritto all’eguaglianza? I giuristi – e io non sono fra questi – affronterebbero il problema dal punto di vista qualitativo parlando di “contemperamento dei diritti” e di “equo bilanciamento” delle loro tutele; perché forse sarebbe proprio giusto eluderlo, il problema, dal punto di vista quantitativo; perché forse non ha proprio senso affrontarlo così. [Cercherò comunque di documentarmi al riguardo.]
Tuttavia la brutale domanda di Ferrarella, secondo me una serie di utili messaggi pedagogici, intanto, la contiene: cioè, che vivere in un sistema democratico e liberale ha anche un suo “costo implicito” per la collettività, costo che, non occorre ribadirlo, magari siamo felicissimi di sopportare, anche senza saperlo; che i principi – se non si vuole restare nell’astratto – devono essere sostenuti da un investimento, anche a lento, lentissimo ritorno, ma pur sempre un investimento; e che dovremmo esserne sempre consci, anche quando le conseguenze della loro tutela, nel breve, ci sembrano pesanti; ma che, (forse) infine, anche il contemperamento dei diritti è un esercizio di ragione (del quale non occorre scandalizzarsi).

Roma, 14 maggio 2015 

lunedì 11 maggio 2015

Numeri

Rifugiati
(di Felice Celato)
Voi tutti sapete che io amo molto i numeri; non l’ho mai fatto ma oggi voglio pubblicare, senza commento, una tabella che ho elaborato su dati di UNHCR Asylum trends 2014. Sono convinto che ci tornerà utile averla sott’occhio in questi giorni in cui, finalmente, pare che si voglia, in qualche modo, affrontare a livello Europeo il problema dei rifugiati; è facile prevedere che verranno fuori un po’ di retoriche politiche come al solito a-numeriche.
In A troverete il numero di richieste di asilo presentate ogni 1000 abitanti nel periodo 2010-2014; dunque un indice di flusso riferito alla popolazione. In B il numero di richieste di asilo presentate, nello stesso periodo, per ogni  dollaro di PIL/pro capite; dunque un numero di flusso riferito al reddito pro-capite. (Mi spiego meglio con un esempio numerico: se il paese ha  un reddito pro-capite di $ 20.000 e riceve, nel periodo, 20.000 domande di rifugiati, il suo indice B sarà di 1, cioè un rifugiato per ciascuno dei 20.000 $ di reddito pro-capite. Se, invece, il reddito pro-capite fosse di $ 40.000 – e dunque il Paese è più ricco del primo – a parità di rifugiati  - cioè, nell’esempio, 20.000 – il suo indice B sarà di 0,5, cioè “mezzo” rifugiato per ciascuno dei 40.000 $ di reddito pro-capite).
Ecco i numeri, le conclusioni ognuno le tiri da sé.


PAESE
A
B
Austria
10,4
1,9
Belgio
8,3
2,2
Danimarca
6,6
0,8
Francia
4,2
6,9
Germania
5,3
9,9
Grecia
4,2
1,8
Italia
2,6
4,6
Lussemburgo
12,6
0,1
Malta
17,5
0,2
Norvegia
10,7
0,8
Olanda
4,3
1,5
Spagna
0,4
0,6
Svezia
24,4
5,2
Svizzera
12,3
1,8
Turchia
2,4
9,2
UK
2,2
3,6