mercoledì 29 maggio 2013

Letture


La centrifuga
(di Felice  Celato)
Ho appena finito di leggere un libro molto interessante che segnalo ai cultori di problemi politici e sociologici: La fine del potere, di Moisés Naìm (Mondadori, 2013); libro sconsolante per alcuni aspetti e consolante per altri, come cercherò subito di dire.
In sostanza il volume analizza, con chiarezza ed ampiezza di documentazione su scala globale (tipiche della saggistica americana), le sconvolgenti mutazioni  che negli ultimi decenni si sono prodotti a carico del potere e del suo esercizio, per effetto della rivoluzione delle tre “M”  (More, Mobility e Mentality) che si è prodotta a livello mondiale: siamo in molti di più (More, in inglese) e complessivamente assai più ricchi e più sani di quanto lo eravamo solo pochi decenni fa, certamente anche nei paesi più poveri (checché ne pensino gli apocalittici del progresso economico, che di solito non amano fare i conti coi numeri) e quindi siamo diventati più difficili da controllare; ci muoviamo molto di più attraverso i nostri paesi e attraverso il mondo (Mobility), con le nostre idee, le nostre personali aspettative di felicità, i nostri capitali, le nostre stesse persone e ci mescoliamo culturalmente, anche grazie alla straordinaria disponibilità di tecnologie della comunicazione; ed infine e per conseguenza, anche grazie alle minori età medie delle grandi masse di popolazioni emergenti, abbiamo conseguito un’attitudine (Mentality) alla messa in discussione di valori e codici comportamentali che costituivano la spina dorsale delle nostre società ed il puntello del potere che vi si esercitava fino a qualche decennio fa.
Insomma, il potere….non è più quello di una volta (come pare lamentino gli alti burocrati della società cinese) e le sue quattro armi tradizionali (forza, regole, capacità di persuasione e ricompensa) hanno perso gran parte della loro efficacia, proprio per la forza travolgente delle tre M; sicché oggi i detentori del potere (politici e partiti delle democrazie o autocrati residui, ma anche stati egemoni e grandi corporations e grandi banche) faticano enormemente di più a tenere in mano le leve del comando, assediati come sono da masse di micropoteri che distruggono o scavalcano le barriere delle quali il potere si è sempre circondato, mettono in discussione ogni decisione e ogni decisore, ne ostacolano l’effettività e l’efficacia, minano la solidità del potere delle maggioranze rendendole effimere e mutevoli (“è come se una centrifuga politica avesse preso gli elementi costitutivi della politica tradizionale per poi disperderli in una nuova e più ampia cornice”)
Il libro non può essere riassunto nello spazio di un blog, naturalmente; fra l’altro, la congerie di dati che allinea in ciascun capitolo va letta e meditata anche per sovvertire e relativizzare, in un’ottica globale, molte delle negative sensazioni che abbiamo sul nostro presente di Italiani e che dolorosamente immaginiamo magari solo nostre; e anche per renderci conto di come le nostre involuzioni, se da un lato si rispecchiano in fenomeni tutt’altro che sconosciuti in altri e non secondari paesi, dall’altro sono fronteggiate da grandi evoluzioni di cui beneficiano popolazioni che siamo stati abituati a pensare marginali al nostro immaginario mondo Italia-centrico. Questa, come avrete capito, è, in fondo, la parte in qualche modo “consolante” del libro.
Quella sconsolante sta tutta nelle – secondo me –  assai deboli conclusioni dell’autore che, in fondo, immagina un semplice rispolveramento di valori quali la fiducia, la partecipazione ed il rafforzamento dei pencolanti partiti; rispolveramento che forse l’autore stesso percepisce fortemente insufficiente difronte agli ulteriori, inevitabili rinnovamenti del mondo che in fondo preannuncia. Questa parte, di sapore parenetico, è, secondo me, la più debole del libro anche se non priva di spunti convincenti, quali l’esortazione a non guardare alle dinamiche del potere in termini di ascese e discese e quella a rendere la vita difficile ai ciarlatani (vasto programma! direbbe De Gaulle).
La “verità” che l’invece assai interessante analisi propone porta a credere è che, se il potere non è più quello di una volta è soprattutto perché il mondo non è più quello di una volta; e con questo “nuovo” che è stato e che ancora sarà non è detto che siamo preparati a fare i conti.
Roma, 28 maggio 2013


mercoledì 22 maggio 2013

Chiari segnali indistinguibili


I numeri di Babele
(di Felice Celato)
La lunghezza, la larghezza, l’altezza, la profondità, la capacità, il peso, tutto si misura (o si identifica) coi numeri: il tempo (i giorni, i mesi, gli anni, i secoli e i millenni), gli abitanti della terra e delle sue articolazioni (villaggi, città, regioni, nazioni, continenti), la velocità, la frequenza, le probabilità, le ricchezze, i debiti e i crediti, i voti, le pagine dei libri, le pulsazioni del cuore e le schiere degli Angeli, i passi del Vangelo, le terzine di Dante.
Tutto è numero, diceva Pitagora. Se non avessimo i numeri, con la loro capacità di distinguere e di “pesare”, saremmo persi nel buio dell’indistinto, del non misurabile, del misterioso.
Eppure, in Italia, in questo Paese che sta divorando se stesso (l’espressione non è mia, ma di un mio amico, colto e raffinato uomo d’affari, con cui ho lungamente conversato oggi a Milano), abbiamo deciso, non di farne a meno (per ora non ci siamo riusciti, però forse tenteremo!), ma di svuotarli di significato piegandoli alle nostre esigenze di confusione, alle nostre retoriche ciarlatane, alle nostre pulsioni auto-distruttive; il tutto perché nessuno capisca, perché si perda la nozione del tempo e delle quantità, perché  Babele diventi la nostra città.
Ci pensavo oggi, davanti ad un'ennesima puntata di quello snocciolamento di numeri indistinti che è diventata la nostra comunicazione: i telegiornali e i nostri giornali (il che è ancora peggio, perché quando si scrive bisogna ogni tanto fermarsi a temperare la matita e temperando si può anche pensare) pullulano di dati sulla nostra economia e sul nostro “disagio sociale”, contraddittori e “allarmanti” o (più raramente purtroppo) “rassicuranti”, a seconda delle intenzioni di chi li maneggia con finta padronanza, spesso confondendo milioni con miliardi, medie con mediane, percentuali con altre percentuali riferite a “universi” diversi.
E in questa furia logoclastica, gettiamo alla “ggente” chiari segnali indistinguibili, atti a creare sensazioni indirette – dove non ci sono, ahimè! dolorosamente, quelle dirette  – sulle quali poi misuriamo, con finto rigore statistico, gli umori e le convinzioni di massa; sulle quali ultime si orientano o si tentano di orientare le azioni (vere o, per lo più, simulate) dei nostri politici (altre volte abbiamo parlato di questo cosiddetto cortocircuito delle opinioni che chiameremo democrazia babelica).
Quando facevo il mestiere di gestire attività aziendali, decisi di difendermi dalla babele dei numeri addomesticati (così spesso diffusi anche all’interno delle sociologie aziendali) stabilendo che tutti i numeri su cui si basava ogni decisione, da qualunque entità organizzativa provenissero, dovessero passare attraverso il vaglio (critico) della funzione che era preposta alla misurazione degli economics dell’azienda; e che solo su questi, così vagliati, si assumessero le decisioni.
Ebbene, se fossi un dittatore illuminato (cosa cui – lo ammetto con vergogna – ho sempre aspirato!), stabilirei un Ministero dei Numeri, l’unico titolato a fornire, con cadenze periodiche fisse (magari mensili), i numeri alla pubblica opinione; e naturalmente – perché sempre di un aspirante dittatore stiamo parlando – proibirei “severamente” la diffusione di ogni altro numero da chicchessia negli intervalli fra una comunicazione periodica e l’altra da parte dell’apposito Ministero dei Numeri.
Certo, lo riconosco,  la  democrazia babelica potrebbe soffrirne; ma….magari, chissà, nel lungo periodo…. forse diventerebbe meno babelica e il dittatore illuminato potrebbe tornare alle sue letture da anziano.
Roma, 22 maggio 2013
PS: Oh! Naturalmente scherzavo….in molte righe (circa il 20% del testo, direi, tanto per dare un numero)

domenica 19 maggio 2013

Esordi


L’IMU limata
(di Felice Celato)
Temo di dover dire che la prima mossa del nuovo governo, politicamente necessitata dalle consuete demagogie partitiche, sia tecnicamente sbagliata; essa, anzi, conferma l’insopprimibile e perdurante tendenza dei nostri politici a ragionare sempre e solo in termini elettoralistici.
Mi spiego meglio su ciò  a cui il mio ragionamento può arrivare, senza sconfinare in quelli che sono gli arcana imperii della nostra democrazia malata, per me sempre più imperscrutabili.
La sospensione dell’IMU è, secondo me, tecnicamente un errore per almeno tre motivi, anche evidenti: (1) anzitutto perché è un provvedimento ad effetto finanziario, cioè, per il momento, rinvia solo un pagamento; (2) poi, perché aumenta il grado di incertezza sulla tassazione, che si aggiunge alle tante instabilità normative del nostro sistema che ne minano la credibilità e l’appetibilità per ogni investitore razionale; (3) e inoltre (non infine) perché l’effetto finanziario della misura è talmente lieve da risultare irrilevante ai fini della stimolazione dei consumi (se era questo l’obbiettivo perseguito, oltre a quello elettoralistico di una parte della maggioranza).
Ma c’è di più: la sospensione dell’IMU dimostra che si sta imboccando la strada opposta a quella che sarebbe saggio adottare: cioè la detassazione delle imprese, soprattutto per ciò che concerne la tassazione del fattore lavoro invece che la detassazione dei privati. Essa inoltre, essendo praticamente la prima mossa del governo (a parte il rifinanziamento della CIG ed altri provvedimenti minori), mostra la nuova maggioranza tuttora esitante difronte al ben più rilevante tema della riforma dello stato (province, burocrazia opprimente, etc), della spesa pubblica e della ripresa delle dismissioni.
La ripresa dell’occupazione, nelle condizioni finanziarie date (che non sono eludibili, e bene ha fatto il Governo a mostrarsene conscio), passa dalla ripresa degli investimenti industriali più assai da quella degli investimenti pubblici, gravati, appunto, dai constraints finanziari noti. E per quelli serve ben altro che il rinvio dell’IMU sulla prima casa.
Sarebbe sommamente ingeneroso fare carico di questa prima mossa sbagliata all’ottimo Enrico Letta, che tenta – certamente in buona fede – di fare quello che può fare dati i gravami politici che incombono sul suo governo. Però un segnale vigoroso, almeno uno, nel senso giusto sarebbe stato più caratterizzante di una “prima mossa” rispetto al puro acquisto di tempo.
Il tempo a disposizione di questo governo, credo, non sarà lungo e dopo tante proclamazioni di priorità, di priorità delle priorità, di somme urgenze, di centralità e di vere centralità e di altri slogan più o meno pomposi e vacui, sarebbe stato lecito pensare che alcuni dei provvedimenti seri da adottare siano stati già pensati e che, perciò, si poteva “esordire” con qualcosa di più “segnaletico”.
Comunque, vedremo. Per il momento facciamo credito del tempo che Letta vuole comprare. Il fatto è che da venderne, di tempo, ce n’ è poco!
Roma, 19 maggio 2013, Pentecoste

lunedì 13 maggio 2013

Esiste un'agenda possibile?


Torniamo a ragionarci
(di Felice Celato)
In questi giorni in cui, con incertezze e timidezze del tutto inadeguate alla gravità della situazione, purtuttavia si ricomincia a parlare delle cose da fare e a fare i conti con quelle che si possono fare nel contesto politico e  finanziario dato, mi sono trovato a scambiare con amici alcune idee su quello che è lecito aspettarsi da questa tormentata fase di passaggio verso una nuova (auspicata ma non certa né facile) rinascita del Paese.
I miei amici si sono sorpresi nel sentirmi enunciare concetti che possono (ingiustificatamente) apparire “liberisti” (si badi bene: io considero questa una etichetta in sè tutt’altro che negativa, anzi ne vedrei molti aspetti positivi nel contesto iper-regolamentato in cui viviamo; ma la so connotata di implicazioni preconcettamente ostili e, qui,  ne prendo semplicemente atto)  e che invece più che “liberisti”  definirei “mobilitazionisti”.
Mi spiego subito: io credo che la strada giusta sia quella additata qualche tempo fa, con chiarezza e grande sensibilità sociale, nel progetto “Perché l’Italia non si spenga” messo a punto dal Professor Capaldo (se ne vedano i riferimenti ai testi originali – che raccomando di rileggere – nei post del 9 marzo, del 6 maggio e del 4 novembre 2012) e già, ahinoi!, dimenticato nell’orgia delle insensate beceraggini delle nostre eterne campagne elettorali.
Cioè credo possibile che, per uno Stato “bloccato” dalle regole che si è dato e che continua ad immaginare per tutto e su tutto e dalle angustie della sua finanza, l’unica via di salvezza sia quella di (semplicemente, intelligentemente e progressivamente) “ritirarsi” da alcune delle funzioni che via via ha assunto e che i cittadini gli hanno nel tempo crescentemente demandato: cominciamo – perché così vuole (o crede di volere) la “ggente” dell’una o dell’altra opinione – dal finanziamento pubblico dei partiti, che va integralmente sostituito da quello privato, dei cittadini, sia pure con molto ampi e solleciti crediti d’imposta a fronte delle somme erogate da ciascuno entro un massimale individuale; passiamo poi alla semplice e radicale eliminazione delle province (tutte e subito!) per ridurre i livelli di governo del territorio; e poi all’auto-organizzazione di alcuni servizi pubblici (la sanità e l’assistenza sociale per prime) da promuovere con adeguati meccanismi fiscali incentivanti e con l’apertura coraggiosa ad un’evoluzione spinta del no profit; e così via, riducendo lo Stato al ruolo di garante di ultima istanza piuttosto che di costoso ( e spesso inefficiente)  erogatore di servizi, mobilitando attivamente cioè (ecco perché chiamerei “mobilitazionisti” questi concetti) le risorse di operosità, inventiva e capacità di impegno sociale di cui diciamo di essere ricchi come “popolo” e che in tante occasioni abbiamo anche dimostrato.
Ecco: io rimango convinto che un approccio di questo genere, attuato con progressione, misura e chiarezza, potrebbe anche contribuire a pacificare un ambiente politico ormai teso fino al limite della esplosività, bilanciando un serio federalismo fiscale con una riforma della tassazione che rispetti appieno il principio di progressività anche in materia patrimoniale e con una diffusa (e confusa) istanza di riconduzione del governo della cosa pubblica dalla politica alla cosiddetta società civile.
Secondo me, come sanno gli amici che partecipano a queste nostre conversazioni asincrone, queste prospettive vanno comunicate con chiarezza e veritiere analisi della situazione in cui siamo, della quale tutti portiamo una parte di responsabilità, non foss’altro come elettori, e per la quale abbiamo quindi bisogno di reciproco perdono.
C’è in queste considerazioni una patina di illusorio irenismo? E’ possibile (e forse anche probabile) e non sarebbe nemmeno vergognoso data l’abbondanza di bellicismo sociale in cui viviamo quotidianamente. Del resto anche il progetto di big society del premier inglese David Cameron, che per molti aspetti si pone nello stesso filone progettuale, ha ricevuto critiche analoghe, soprattutto da ambienti laboristi e, credo, tuttora conosca difficoltà di attuazione. E tuttavia, hic et nunc, non vedo in giro da noi progetti alti né progetti “medi” meno complicati da attuare… e vedo invece progetti bassi pronti per  rotolare….. Vale la pena di parlarne?
Roma, 13 maggio 2013

domenica 5 maggio 2013

Segnalazioni


Un vero capolavoro!
(di Felice Celato)
Ho appena finito – e mi affretto a segnalarlo agli amici appassionati lettori – un autentico capolavoro della letteratura yiddish: La famiglia Karnowski, di Israel J. Singer (Adelphi, 2013).
L’autore è il fratello maggiore del più noto Premio Nobel (1978) Isaac B. Singer e, come questo, si rivela un autentico maestro di narrativa: la vicenda – interessante e, a tratti, anche commovente – è quella di una famiglia ebrea (tre generazioni) e si dipana nella prima metà del secolo scorso, muovendo da un oscuro shtetl della Polonia, caratterizzato da un ebraismo rigido e conservatore, verso la più “illuminata” Berlino e il melting pot della New York fra le due guerre mondiali. Oltre ai personaggi principali (di straordinaria intensità umana)  sono scolpiti alla perfezione i personaggi minori – alcuni veramente notevoli – e il loro ambiente, nella Germania pre-nazista, in quella nazista, fino alla fuga in America, nel contesto etnico e culturale degli ebrei integrati prima, in quello dei perseguitati poi e, infine, in quello dei rifugiati alla vigilia della II guerra mondiale.
Da cultore della letteratura ebraica moderna (prima mittel-europea, poi americana-yiddish e infine Israeliana) mi sono da tempo convinto che a questa cultura appartenga una naturale, straordinaria capacità narrativa, probabilmente originata dalla consuetudine con le letture bibliche e con le “tecniche dialettiche ” dei midrashim (racconti rabbinici a fini esegetici); mi sono sorpreso, stavolta, a pensare anche ad un “genio” familiare che associa i due fratelli Singer alla schiera dei – secondo me – più grandi narratori delle letterature moderne (a me note).
Una lettura da non perdere e da ricordare.
Roma, 5 maggio 2013