domenica 24 aprile 2016

Eris

25 aprile
(di Felice Celato)
Quelli che hanno fatto il liceo classico ricorderanno senz’altro Eris, l’antica dea terribile della mitologia greca, secondo alcuni sorella di Ares (dio della guerra), secondo altri figlia di Nyx (la Notte), forse la più temuta delle dee perché regina della discordia. Non a caso fu proprio lei che gettò il famoso pomo (appunto il pomo della discordia) per suscitare quella contesa sulla bellezza fra Era, Atena ed Afrodite dalla quale sono nate tante tragiche vicende narrate dalla mitologia e dalla poesia greca. Virgilio, che nell’Eneide la pone nell’Ade, col nome romano di Discordia la descrive così: la pazza Discordia coi capelli di vipere cinti con bende sanguinanti.
Da questa dea, Eris o Discordia che la si voglia chiamare, nulla di buono derivava agli dei o agli uomini. Nella mitologia greca e romana.
Ma, lo sappiamo bene, i miti contengono, in forma di rappresentazione fantastica, alcune verità profonde sulla realtà e sulla vita degli uomini. Il teologo gesuita Hugo Rahner, in una sua opera monumentale (Miti greci nell’interpretazione cristiana) addirittura si spinge a rintracciare in essi alcuni elementi fondanti della simbologia cristiana primitiva. Chi ne volesse gustare solo un assaggio (come ho fatto io che non sono né mitologo né teologo) potrebbe leggerne il vasto capitolo che Rahner dedica a Le sirene di Ulisse (EDB, 2015) per rendersi conto di come quelle rappresentazioni fantastico-poetiche si prestino perfettamente a letture nella chiave, appunto, del nostro umanesimo cristiano. Ma lasciamo perdere questa prospettiva che pure richiama alcune indimenticabili pagine scritte da Benedetto XVI sull’incontro fra cristianesimo e cultura greca e romana; e veniamo invece, più terra-terra, al contenuto di umana sapienza che tanto spesso i miti racchiudono. Dunque la Discordia, figlia della Notte, già nei tempi antichissimi era narrata come un’autentica calamità per gli dei e per gli uomini; e credo che la storia dell’umanità abbia ricevuto infinite prove della fondatezza di tale narrazione, prove che spiegano anche perché i Greci considerassero Eris sorella del dio della guerra.
Si dirà: ma come ti viene in mente questa bizzarra divagazione mitologica, con tutti i problemi che ci girano attorno e proprio nel giorno che precede la festa della liberazione?
La risposta è semplice: sfogliando con amarezza, fastidio e timore le pagine dei giornali di questi giorni mi sorge il dubbio che il livello di discordia collettiva a cui ci stiamo abituando abbia raggiunto una misura estremamente pericolosa, dalla quale non può derivare nulla di buono.
L’abbiamo chiamata, anche qui, crisi sociologica e poi antropologica; forse più esplicitamente potremmo dirla involuzione diasporica, scollamento delle coscienze e delle cittadinanze, dissenso endemico, dissidio permanente o come altro volete; ma è certo, mi pare, che su tutta questa discorde frammentazione di istituzioni, partiti, corpi intermedi, gruppi di opinione, coscienze collettive, identità valoriali, non può essere costruito nulla di ciò di cui abbiamo urgente bisogno. Nulla di buono, comunque.
Domani, festa della liberazione, Eris sarà per qualche ora forse dimenticata (non ne sono certo, ma lo spero): magari, forse, ancora forse, sfileremo, faremo bei discorsi (beh! più realisticamente: discorsi) sui valori fondanti della resistenza da cui è nata la repubblica, sulla festa di popolo, sulla libertà recuperata a prezzo di sangue, etc., etc. E magari sentiremo ripetere la frase con cui Norberto Bobbio rievocò quel mitico 25 aprile: “dopo vent’anni di regime e dopo cinque di guerra, eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola”. Un volto solo e un’anima sola, appunto.

Roma 24 aprile 2016

venerdì 22 aprile 2016

70 anni dopo

Un processo
(di Felice Celato)
Vorrei avventurarmi, oggi, su un tema molto difficile, che può suscitare drammatiche memorie, indignazioni, terribili dolori ed altri sentimenti forti per i quali, se traggono origine da indicibili sofferenze, non si può che provare profondo rispetto .  [Per questo, per spiegarmi al meglio, avrò bisogno di più delle 700 parole che costituiscono, di solito, il “taglio” di questi post; diciamo che avrò bisogno di un post e mezzo].
Traggo lo spunto dalla notizia del processo in corso a Detmold (in Germania) contro Reinhold Henning, 94 anni, forse, come dice la giornalista che ne riferiva l’altro giorno su Repubblica, uno degli ultimi “boia di Auschwitz” che ancora si riuscirà a processare quale “corresponsabile di 170.000 vittime dell’Olocausto”.
La domanda che il fatto mi pone travalica totalmente la vicenda specifica che – ovviamente – non conosco se non per quanto ne racconta brevemente la corrispondente di Repubblica; altrettanto ovviamente, mi sono invece note, per molte letture al riguardo, le atrocità commesse in quello come in altri campi di concentramento che costituirono la vergogna della Germania nazista e, anzi, aggiungo, del genere umano.
Ora, al netto (e non è facile!) di tutto ciò, la domanda che mi pongo è quella del rapporto fra il male, la pena ed il tempo. Senza addentrarmi nelle antiche memorie universitarie sul fondamento della pena e sulle diverse concezioni al riguardo elaborate nel tempo da giuristi e da filosofi del diritto, la mia domanda è in estrema sintesi la seguente: avrebbe senso – se fosse riconosciuto colpevole in maniera giuridicamente accettabile – condannare un uomo di 94 anni per fatti (orribili) commessi, singolarmente o in concorso con altri, oltre 70 anni fa (quando, dunque, il reo poteva avere fra i 18 e i 23 anni) ? Quand’anche si coltivasse una concezione meramente retributiva della pena (per intenderci: quella che faceva dire a Kant che la punizione del colpevole, se non ricordo male, è un imperativo categorico che trova la sua giustificazione solo nella coscienza umana e in nessun altra utilità sociale esterna; e, quindi, più semplicemente: poiché hai fatto il male, il male devi comunque ricevere) si potrebbe fondatamente pensare che chi riceve oggi il male (una condanna è pur sempre un male, quand’anche meritata) per il male che ha commesso oltre settant’anni fa è la stessa persona  che, appunto settant’anni fa, lo ha commesso? E che, quindi, quell’ imperativo categorico non è stato intaccato dal tempo, che pure tutto intacca e trasforma (innegabilmente: anche il dolore)? Voi, pur senza aver commesso le atrocità di cui si discute, vi sentite la stessa persona che eravate cinquant’anni fa? O anche solo trenta anni fa?
Si potrebbe obbiettare (non senza comprensibili ragioni) che il male commesso –nella fattispecie, orribile – riverbera la sua malità sul presente, non solo se sono vive le persone che l’hanno patito ma anche se, semplicemente, ne sono vivi, per esempio, i figli. O, anche, più astrattamente e più estremisticamente, si potrebbe sostenere che quel male – specialmente quel male di cui si discute in questo processo – ha in qualche modo leso la dignità naturale dell’uomo e, perciò stesso, continua ad esigere una punizione, quand’anche non sia più in vita chi ne ha direttamente o indirettamente patito; nonostante il tempo decorso e nonostante  la diversità (nel senso appena detto) dell’offensore. Nonostante tutto.
In questa ultima prospettiva (della lesione prodotta, dal male, in capo alla dignità naturale dell’uomo) evidentemente il fondamento della pena  estinguerebbe le sue ragioni solo con la morte di chi, il male, lo ha commesso, quand’anche ora sia o possa essere una persona diversa; temo che allora la conseguenza probabilmente inevitabile sarebbe la pena di morte.
Se invece, per voler restare più concreti, ci si pone nella prospettiva del male arrecato ai figli delle vittime morte per quel male, allora l’afflizione dell’attore condannato  (o meglio: di quell’uomo che di lui è rimasto settant'anni dopo) non è più un astratto imperativo categorico sciolto da ogni relazionalità; è, invece, quasi un’obbligazione di risarcimento che sopravvive come pura soddisfazione di un debito di dolore e che non si estingue finché non si estingue – stavolta – il creditore ( o addirittura chi ne ha "ricevuto l' eredità" di dolore).
Ma se, dunque, la funzione della pena non è più retributiva (hai fatto il male e devi comunque ricevere il male) ma vendicativa (cioè satisfattiva di un diritto a vedere comminato ad altri un male corrispondente a quello anche indirettamente ricevuto), allora potrebbe - il male - essere estinto da una rinuncia da parte del titolare di quel diritto, cioè dal perdono di chi del male ha subito le conseguenze. Se, nel concreto del caso in discorso, le vittime tuttora superstiti ( o chi per loro ha indirettamente sofferto ) dicessero di non essere interessate  a che un vecchio di 94 anni riceva una condanna per quanto ha fatto quando ne aveva 20, il processo si estinguerebbe? Temo di no. E inoltre, se  a perdonare fossero i figli, per metterci nella prospettiva di Simon Wiesenthal (nel suo straordinario romanzo I Girasoli che ho letto tanti, tanti anni fa e ancora rimugino), che valore avrebbe il perdono concesso da persone diverse da quelle che hanno direttamente subito il male?
Si scusi il filosofeggiare di chi filosofo non è; la questione, però, non è così oziosa come potrebbe apparire a prima vista, almeno in Italia. Pensateci bene.
Come si voglia rispondere alle domande che il ragionamento pone, mi pare che il tempo ed il perdono siano le uniche vie d’uscita dalle strettoie del ragionamento sulla punibilità del male nel tempo: ma il perdono ha il vantaggio di contrastare la malità del male con la bontà del bene. E non è poco, perché il bene, più ancora del male, è diffusivo di sé e travalica anche il rapporto fra l’offeso e l’offensore.
Roma 22 aprile 2016




venerdì 15 aprile 2016

Cinque anni dopo

Confini/frontiere
(di Felice Celato)
Giusto 5 anni fa [a proposito: il blog compie domani il suo quinto anno di vita! Ad ogni ricorrenza annuale, qualche parola l’ho spesa per dire quanto mi piace passare qualche ora a settimana a riordinare pensieri e impressioni sul mondo che ci  gira dattorno, per scriverne una nota talora da condividere con qualcuno, talaltra solo per il gusto appunto del riordino che si impone quando si scrive o proprio solo per tenere  memoria di ruminazioni, magari solo frutto di intense camminate urbane. L’ho fatto – sapete la mia ossessione per i numeri! – quasi 400 volte (398 post, per l’esattezza) in questi 1827 giorni, quindi una volta ogni 4 o 5 giorni; troppo? Forse. Ma in fondo che male c’è a tentare di tener traccia di ciò che ci passa per la mente, o, talora, per l’anima? Se poi penso che, mediamente, 17 persone al giorno si sono affacciate sul sito in questi cinque anni, magari, alcuni, con l’idea di trovare uno spunto di dialogo, allora penso che proprio male non ho fatto. In fondo, al netto delle banalità che ci assordano, ci parliamo così poco che anche uno spunto di dialogo non può farci che bene. E dunque ben volentieri mi perdono di questa cura che potrebbe apparire una piccola vanità intellettuale]; giusto 5 anni fa, dicevo, scrivendo il post che ha raccolto più visite (quasi 1200 in cinque anni per Confini/ frontiere del 19 aprile 2010) cominciavo così:
Le confuse agitazioni di qualche giorno fa al confine fra l’Italia e la Francia hanno fatto riemergere dal fondo della mia memoria di Europeo un concetto, un’idea, un oggetto (o meglio una serie di segni costituenti “l’oggetto frontiera”) che giaceva seppellito sotto una montagna di abitudini ormai acquisite: avevamo perso, almeno in Europa, il concetto di frontiera, di confine.
E dopo una serie di considerazioni sul concetto di confine in una dimensione esistenziale,  con poca lungimiranza, concludevo così: di fronte a ciò, l’ammassarsi di forze di polizia dall’una e dall’altra parte del confine di Ventimiglia ha assunto ai miei occhi una connotazione bizzarra, una grottesca epifania felliniana di un mondo passato privo di un senso attuale, per fortuna durata poche ore.
Esattamente cinque anni dopo, quasi come se il tempo abbia cominciato a riavvitarsi, quella che avevo considerato una grottesca epifania felliniana si ripete, stavolta dall’altra parte d’Italia (al Brennero), secondo riti un po’ diversi, per certi aspetti anche più rozzi: nemmeno scettici ma mobili soldati, stavolta, ma muri, forse piccoli, è vero, forse solo simbolici, ma sicuramente paradossali (anche nella loro fissità fuori dal tempo). La domanda di confini sembra rinata in quest’Europa confusa e depressa, catatimica e gesticolatoria; rinasce, come se i confini fossero –l'abbiamo già detto (Confini e telecomando, del 2 sett 2015) – il telecomando col quale possiamo rimuovere dal nostro piccolo schermo le immagini spiacevoli del nostro tempo, certi che quod non est in video non est in mundo.
Eppure, rimango della mia opinione, la nuova domanda di confini è una domanda vacua e antistorica (se anche il presente, come ogni presente, tende a farsi storia): non li vogliamo, i confini, per le idee, le merci, il petrolio, il gas, i servizi, i capitali, il turismo, lo sport, le opportunità e persino per la domanda di felicità che ciascuno di noi porta in sé e che si esprime anche nella crescente internazionalizzazione dei nostri giovani; ma li vogliamo per chi fugge dalle guerre e dalle devastazioni e dalle crudeltà che le guerre  si portano dietro; li vogliamo anche noi che nella storia tante volte li abbiamo varcati per sopravvivere; li vogliamo, soprattutto, perché non abbiamo più gli stamina culturali e vitali che ci consentirebbero di produrre quel minimo di ricchezza in più, necessaria per assorbire senza alcun problema quella piccola porzione di umanità che preme disperata alle nostre porte. Li vogliamo perché siamo prigionieri delle nostre paure. E  perché non siamo più capaci di utilizzare le nostre intelligenze per produrre soluzioni; preferiamo fabbricare slogan (semplici, per carità!) e qualche nuova epifania felliniana destinata a rassicurare le pance dei nostri elettorati.
Roma 15 aprile 2016

P.S. Paradossi del nostro tempo: mentre scrivevo questo post mi è arrivato l’invito a sottoscrivere in rete una petizione per chiedere l’abolizione della castrazione dei suinetti senza anestesia; petizione, per carità, anche giusta. Dobbiamo essere solidali coi nostri suinetti.

venerdì 8 aprile 2016

Storie

Noi, nuovi sonnambuli
(di Felice Celato)
In un passo di una corposa ed impegnativa lettura che ho in corso ( I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande guerra, di Christopher Clark, Laterza, 2013) i protagonisti dell’epoca vengono descritti come sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà. Essi filtravano la realtà mediante narrazioni che erano il prodotto di frammenti di esperienza che si saldavano a paure, proiezioni psicologiche e interessi mascherati sotto forma di massime.
Confesso che questo impietoso ritratto delle classi dirigenti dei vari paesi attori di quella immane tragedia che fu la prima guerra mondiale mi pare drammaticamente applicabile al nostro presente; anzi, per certi aspetti, ancora in misura più preoccupante (anche se sperabilmente meno drammatica): le democrazie del terzo millennio, infatti, stanno vivendo secondo me una fase nella quale lo spazio e l’efficacia della delega politica sulla quale a lungo si sono rette,  appare contratto e indebolito. La dinamica dell’informazione e, soprattutto, della formazione delle opinioni ha raccorciato l’autonomia democratica dei rappresentanti e ne ha appesantito il respiro fino a renderlo corto, affannoso e continuamente bisognoso di conferme del consenso dei rappresentati.
Così, ciò che allora (all’inizio del secolo scorso) poteva dirsi di classi dirigenti (i sonnambuli di cui parla Clark), oggi forse a ragione può dirsi proprio di ben più vaste aree di influenza cui si attribuisce il nome convenzionale di “pubbliche opinioni”; con conseguenze di particolare intensità  dove meno solida si manifesta la cultura (e la desta consapevolezza) dei cittadini (penso all’Italia, naturalmente) e, di conseguenza, più deboli e più rischiosamente rinnovabili le classi dirigenti.
L’occasione di questa non lieve considerazione mi viene da un fatto Europeo di questi giorni, al quale i giornali Italiani, presi come sono – del resto comprensibilmente – a rovistare nelle recenti ulteriori miserie nazionali, hanno dato poca evidenza : mercoledì si è tenuto in Olanda un referendum sulla ratifica del trattato di “associazione” fra Ukraina e UE e l’esito è stato negativo, come forse era facile aspettarsi. Un fatto, se vogliamo, praticamente forse irrilevante (pare di capire che il referendum non sia automaticamente vincolante), ma secondo me estremamente significativo; non solo perché, come dice il WSJ, ammonisce i leaders Europei ad “educare i propri cittadini agli affari esteri”, ma perché conferma – se ve ne fosse bisogno – la consistenza di un trend di delegittimazione democratica dell’Europa che trova alimento nelle pulsioni più disparate (questa volta, sembra, la paura di ”un’invasione” di migranti ukraini), spesso distruttive (“Why support EU foreign policy if you hate Brussels?” commenta sempre il WSJ, perché appoggiare la politica estera europea se odi Bruxelles?) e – da noi – molte volte proprio sollecitate da chi dovrebbe essere appunto classe dirigente (e non solo atteggiarvisi).
Torno al libro con cui ho cominciato questo post. Clark fa notare, di passaggio, di avere scritto la parte finale del suo vasto saggio proprio nel momento culminante della crisi finanziaria dell’Eurozona, fra il 2011 e il 2012. E  stabilisce una lancinante analogia fra l’allora e l’oggi: non mancava (allora come oggi) la conoscenza del rischio catastrofale ma i soggetti politici hanno sfruttato la possibilità di una catastrofe generale come uno strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici benefici.
Questa analogia, non saprei dire fino a che punto fondata,  se realmente lo fosse sarebbe oggi ancora più inquietante: mentre la crisi dell’Eurozona non è finita, "in compenso" è cominciata quella delle frontiere; e io non sono affatto certo che sia chiara a tutti la portata dei rischi catastrofali che corriamo, anche se qualcuno potrebbe pensare di trarre effimeri vantaggi da qualche provvisorio sviluppo. Mi viene in mente uno slogan utilizzato da Amnesty International durante una delle manifestazioni a sostegno di una (almeno decente) politica della immigrazione: Leaders of Europe, it is not the polls you should worry about; it’s the history books! (Leaders Europei, non è delle urne che dovreste preoccuparvi ma dei libri di storia).
Roma, 8 aprile 2016 (molto nuvoloso, come forse si sarà capito)