Un processo
(di Felice Celato)
Vorrei avventurarmi, oggi, su un tema
molto difficile, che può suscitare drammatiche memorie, indignazioni, terribili
dolori ed altri sentimenti forti per i quali, se traggono origine da indicibili
sofferenze, non si può che provare profondo rispetto . [Per questo, per spiegarmi al meglio, avrò bisogno
di più delle 700 parole che costituiscono, di solito, il “taglio” di questi post; diciamo che avrò bisogno di un post e mezzo].
Traggo lo spunto dalla notizia del
processo in corso a Detmold (in Germania) contro Reinhold Henning, 94 anni,
forse, come dice la giornalista che ne riferiva l’altro giorno su Repubblica,
uno degli ultimi “boia di Auschwitz” che ancora si riuscirà a processare
quale “corresponsabile di 170.000 vittime dell’Olocausto”.
La domanda che il fatto mi pone
travalica totalmente la vicenda specifica che – ovviamente – non conosco se non
per quanto ne racconta brevemente la corrispondente di Repubblica; altrettanto
ovviamente, mi sono invece note, per molte letture al riguardo, le atrocità
commesse in quello come in altri campi di concentramento che costituirono la
vergogna della Germania nazista e, anzi, aggiungo, del genere umano.
Ora, al netto (e non è facile!) di
tutto ciò, la domanda che mi pongo è quella del rapporto fra il male, la pena ed
il tempo. Senza addentrarmi nelle antiche memorie universitarie sul fondamento
della pena e sulle diverse concezioni al riguardo elaborate nel tempo da
giuristi e da filosofi del diritto, la mia domanda è in estrema sintesi la
seguente: avrebbe senso – se fosse riconosciuto colpevole in maniera giuridicamente accettabile – condannare un uomo di 94 anni per fatti (orribili)
commessi, singolarmente o in concorso con altri, oltre 70 anni fa (quando,
dunque, il reo poteva avere fra i 18 e i 23 anni) ? Quand’anche si coltivasse
una concezione meramente retributiva della pena (per intenderci: quella che
faceva dire a Kant che la punizione del colpevole, se non ricordo male, è un
imperativo categorico che trova la sua giustificazione solo nella coscienza
umana e in nessun altra utilità sociale esterna; e, quindi, più semplicemente:
poiché hai fatto il male, il male devi comunque ricevere) si potrebbe
fondatamente pensare che chi riceve oggi il male (una condanna è pur sempre un
male, quand’anche meritata) per il male che ha commesso oltre settant’anni fa è
la stessa persona che, appunto
settant’anni fa, lo ha commesso? E che, quindi, quell’ imperativo categorico
non è stato intaccato dal tempo, che pure tutto intacca e trasforma
(innegabilmente: anche il dolore)? Voi, pur senza aver commesso le atrocità di
cui si discute, vi sentite la stessa persona che eravate cinquant’anni fa? O
anche solo trenta anni fa?
Si potrebbe obbiettare (non senza comprensibili ragioni)
che il male commesso –nella fattispecie, orribile – riverbera la sua malità
sul presente, non solo se sono vive le persone che l’hanno patito ma anche se,
semplicemente, ne sono vivi, per esempio, i figli. O, anche, più astrattamente
e più estremisticamente, si potrebbe sostenere che quel male – specialmente quel male di cui si discute in questo
processo – ha in qualche modo leso la dignità naturale dell’uomo e, perciò
stesso, continua ad esigere una punizione, quand’anche non sia più in vita chi
ne ha direttamente o indirettamente patito; nonostante il tempo decorso e
nonostante la diversità (nel senso appena detto) dell’offensore. Nonostante
tutto.
In questa ultima prospettiva (della lesione prodotta, dal
male, in capo alla dignità naturale dell’uomo) evidentemente il fondamento
della pena estinguerebbe le sue ragioni solo
con la morte di chi, il male, lo ha commesso, quand’anche ora sia o possa
essere una persona diversa; temo che
allora la conseguenza probabilmente inevitabile sarebbe la pena di morte.
Se invece, per voler restare più concreti, ci si pone
nella prospettiva del male arrecato ai figli delle vittime morte per quel male,
allora l’afflizione dell’attore condannato (o meglio: di quell’uomo che di lui è rimasto
settant'anni dopo) non è più un astratto imperativo categorico sciolto da ogni
relazionalità; è, invece, quasi un’obbligazione di risarcimento che sopravvive
come pura soddisfazione di un debito di dolore e che non si estingue finché non
si estingue – stavolta – il creditore ( o addirittura chi ne ha
"ricevuto l' eredità" di dolore).
Ma se, dunque, la funzione della pena
non è più retributiva (hai fatto il male e devi comunque ricevere il male) ma
vendicativa (cioè satisfattiva di un diritto a vedere comminato ad altri un
male corrispondente a quello anche indirettamente ricevuto), allora potrebbe -
il male - essere estinto da una rinuncia da parte del titolare di quel diritto,
cioè dal perdono di chi del male ha subito le conseguenze. Se, nel
concreto del caso in discorso, le vittime tuttora superstiti ( o chi per loro
ha indirettamente sofferto ) dicessero di non essere interessate a che un vecchio di 94 anni riceva una
condanna per quanto ha fatto quando ne aveva 20, il processo si estinguerebbe?
Temo di no. E inoltre, se a perdonare
fossero i figli, per metterci nella prospettiva di Simon Wiesenthal (nel suo
straordinario romanzo I Girasoli che
ho letto tanti, tanti anni fa e ancora rimugino), che valore avrebbe il perdono
concesso da persone diverse da quelle che hanno direttamente subito il male?
Si scusi il filosofeggiare di chi
filosofo non è; la questione, però, non è così oziosa come potrebbe apparire a
prima vista, almeno in Italia. Pensateci bene.
Come si voglia rispondere alle
domande che il ragionamento pone, mi pare che il tempo ed il perdono siano le uniche
vie d’uscita dalle strettoie del ragionamento sulla punibilità del male nel tempo:
ma il perdono ha il vantaggio di contrastare la malità del male con la bontà del
bene. E non è poco, perché il bene, più ancora del male, è diffusivo di sé e
travalica anche il rapporto fra l’offeso e l’offensore.
Roma 22 aprile 2016
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