venerdì 22 aprile 2016

70 anni dopo

Un processo
(di Felice Celato)
Vorrei avventurarmi, oggi, su un tema molto difficile, che può suscitare drammatiche memorie, indignazioni, terribili dolori ed altri sentimenti forti per i quali, se traggono origine da indicibili sofferenze, non si può che provare profondo rispetto .  [Per questo, per spiegarmi al meglio, avrò bisogno di più delle 700 parole che costituiscono, di solito, il “taglio” di questi post; diciamo che avrò bisogno di un post e mezzo].
Traggo lo spunto dalla notizia del processo in corso a Detmold (in Germania) contro Reinhold Henning, 94 anni, forse, come dice la giornalista che ne riferiva l’altro giorno su Repubblica, uno degli ultimi “boia di Auschwitz” che ancora si riuscirà a processare quale “corresponsabile di 170.000 vittime dell’Olocausto”.
La domanda che il fatto mi pone travalica totalmente la vicenda specifica che – ovviamente – non conosco se non per quanto ne racconta brevemente la corrispondente di Repubblica; altrettanto ovviamente, mi sono invece note, per molte letture al riguardo, le atrocità commesse in quello come in altri campi di concentramento che costituirono la vergogna della Germania nazista e, anzi, aggiungo, del genere umano.
Ora, al netto (e non è facile!) di tutto ciò, la domanda che mi pongo è quella del rapporto fra il male, la pena ed il tempo. Senza addentrarmi nelle antiche memorie universitarie sul fondamento della pena e sulle diverse concezioni al riguardo elaborate nel tempo da giuristi e da filosofi del diritto, la mia domanda è in estrema sintesi la seguente: avrebbe senso – se fosse riconosciuto colpevole in maniera giuridicamente accettabile – condannare un uomo di 94 anni per fatti (orribili) commessi, singolarmente o in concorso con altri, oltre 70 anni fa (quando, dunque, il reo poteva avere fra i 18 e i 23 anni) ? Quand’anche si coltivasse una concezione meramente retributiva della pena (per intenderci: quella che faceva dire a Kant che la punizione del colpevole, se non ricordo male, è un imperativo categorico che trova la sua giustificazione solo nella coscienza umana e in nessun altra utilità sociale esterna; e, quindi, più semplicemente: poiché hai fatto il male, il male devi comunque ricevere) si potrebbe fondatamente pensare che chi riceve oggi il male (una condanna è pur sempre un male, quand’anche meritata) per il male che ha commesso oltre settant’anni fa è la stessa persona  che, appunto settant’anni fa, lo ha commesso? E che, quindi, quell’ imperativo categorico non è stato intaccato dal tempo, che pure tutto intacca e trasforma (innegabilmente: anche il dolore)? Voi, pur senza aver commesso le atrocità di cui si discute, vi sentite la stessa persona che eravate cinquant’anni fa? O anche solo trenta anni fa?
Si potrebbe obbiettare (non senza comprensibili ragioni) che il male commesso –nella fattispecie, orribile – riverbera la sua malità sul presente, non solo se sono vive le persone che l’hanno patito ma anche se, semplicemente, ne sono vivi, per esempio, i figli. O, anche, più astrattamente e più estremisticamente, si potrebbe sostenere che quel male – specialmente quel male di cui si discute in questo processo – ha in qualche modo leso la dignità naturale dell’uomo e, perciò stesso, continua ad esigere una punizione, quand’anche non sia più in vita chi ne ha direttamente o indirettamente patito; nonostante il tempo decorso e nonostante  la diversità (nel senso appena detto) dell’offensore. Nonostante tutto.
In questa ultima prospettiva (della lesione prodotta, dal male, in capo alla dignità naturale dell’uomo) evidentemente il fondamento della pena  estinguerebbe le sue ragioni solo con la morte di chi, il male, lo ha commesso, quand’anche ora sia o possa essere una persona diversa; temo che allora la conseguenza probabilmente inevitabile sarebbe la pena di morte.
Se invece, per voler restare più concreti, ci si pone nella prospettiva del male arrecato ai figli delle vittime morte per quel male, allora l’afflizione dell’attore condannato  (o meglio: di quell’uomo che di lui è rimasto settant'anni dopo) non è più un astratto imperativo categorico sciolto da ogni relazionalità; è, invece, quasi un’obbligazione di risarcimento che sopravvive come pura soddisfazione di un debito di dolore e che non si estingue finché non si estingue – stavolta – il creditore ( o addirittura chi ne ha "ricevuto l' eredità" di dolore).
Ma se, dunque, la funzione della pena non è più retributiva (hai fatto il male e devi comunque ricevere il male) ma vendicativa (cioè satisfattiva di un diritto a vedere comminato ad altri un male corrispondente a quello anche indirettamente ricevuto), allora potrebbe - il male - essere estinto da una rinuncia da parte del titolare di quel diritto, cioè dal perdono di chi del male ha subito le conseguenze. Se, nel concreto del caso in discorso, le vittime tuttora superstiti ( o chi per loro ha indirettamente sofferto ) dicessero di non essere interessate  a che un vecchio di 94 anni riceva una condanna per quanto ha fatto quando ne aveva 20, il processo si estinguerebbe? Temo di no. E inoltre, se  a perdonare fossero i figli, per metterci nella prospettiva di Simon Wiesenthal (nel suo straordinario romanzo I Girasoli che ho letto tanti, tanti anni fa e ancora rimugino), che valore avrebbe il perdono concesso da persone diverse da quelle che hanno direttamente subito il male?
Si scusi il filosofeggiare di chi filosofo non è; la questione, però, non è così oziosa come potrebbe apparire a prima vista, almeno in Italia. Pensateci bene.
Come si voglia rispondere alle domande che il ragionamento pone, mi pare che il tempo ed il perdono siano le uniche vie d’uscita dalle strettoie del ragionamento sulla punibilità del male nel tempo: ma il perdono ha il vantaggio di contrastare la malità del male con la bontà del bene. E non è poco, perché il bene, più ancora del male, è diffusivo di sé e travalica anche il rapporto fra l’offeso e l’offensore.
Roma 22 aprile 2016




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