martedì 29 marzo 2016

Un Edipo nazionale

Psicoanalisi politica
(di Felice Celato)
Fateci caso: da noi, quando qualcosa non va, la colpa è dell’Europa; o perché ce n’è troppa (dalla politica fiscale fino, addirittura, al prezzo delle sofferenze bancarie) o perché ce n’è poca (dalla immigrazione alla sicurezza). In ogni caso, ogni giorno, l’Europa viene desiderata con frustrazione o colpevolizzata con acrimonia, come lo sarebbero il padre o la madre di un immaginario enorme Edipo nazional-freudiano. E ciò, anche da chi proprio non dovrebbe (proprio non dovrebbe!) alimentare pulsioni distruttive verso quella che, nelle retoriche mistificanti di ogni giorno, proclamiamo ad un tempo il nostro merito storico ed il nostro futuro.
Non voglio tentare io una abborracciata psicoanalisi politico-istituzionale, ma lasciatemi dire (a costo di essere coperto di contumelie) quello che penso; e che cioè, con ogni probabilità, alla radice di molti dei mali europei (almeno di tutti quelli che concernono l’Unione Economica e Monetaria Europea) ci sono proprio i comportamenti del nostro paese. L’Europa soffre infatti di una profonda crisi di fiducia in se stessa che ha senz’altro molte ragioni, con conseguenze che spesso travalicano gli ambiti in cui tali ragioni maturano; ma fra queste, secondo me spicca la crisi finanziaria in cui è incorsa la Grecia e che, a torto o a ragione, viene percepita come possibile (per non dire probabile) anche per l’Italia. Proviamo a vedere quello che, semplificando molto, può essere definito come il punto di vista tedesco (ma io direi meglio: nord-europeo), così come lo riassume con grande chiarezza il prof. Guido Tabellini su Il sole 24 ore di qualche giorno fa: secondo questo punto di vista chi ha il controllo su determinati strumenti di politica economica deve anche essere pienamente responsabile per le conseguenze delle sue azioni. Questo principio, difficile da rifiutare, nel contesto europeo si poteva attuare secondo modalità alternative: 1) la sovranità fiscale ed economica è trasferita al livello Europeo, insieme alla condivisione dei rischi e delle responsabilità tra paesi; 2) la sovranità resta nazionale, il che preclude qualunque forma di condivisione di rischi e responsabilità.  Ma, la prima ipotesi oggi non è [politicamente] realizzabile, perché nessuno accetterebbe di lasciare che sia l’Europa a decidere il livello di imposizione fiscale, o di spesa pubblica, o le istituzioni sul mercato del lavoro…..La seconda ipotesi, invece, in situazione di unità monetaria, semplicemente esige di evitare che gli errori di alcuni stati membri ricadano sui cittadini di altri stati. Quindi – e questo è il motivo dei tanti nein addebitati ad una sorta di presunta ottusità tedesca – No a un sistema comune di assicurazione dei depositi, No all’emissione di debito Europeo, No alla condivisione dei rischi. Occorre invece ridurre i rischi, inducendo le banche a ridurre la quota di debito pubblico domestico, intensificando il bail-in dei creditori e accettando che le crisi sul debito sovrano si risolvono anche con la ristrutturazione del debito e non solo con ulteriori prestiti. 
Certo, avverte Tabellini, tra le ipotesi 1 e 2 c’è tutto un continuum, naturalmente. Ma i tedeschi non si fidano più. Vedono che la reazione comune alla crisi (la svolta della Bce, la nascita dell’Esm) ha avuto successo, ma si è anche accompagnata a cambiamenti politici interni in molti paesi, e ha portato a un rallentamento del risanamento fiscale e delle riforme [peraltro spesso, almeno da noi, focalizzate su temi inconferenti rispetto al problema del risanamento del debito pubblico]. Quindi la cosa più importante è ristabilire la fiducia reciproca. E questo significa innanzitutto far scendere il debito pubblico (*). Non solo perché ciò fa parte degli accordi europei, ma anche perché obiettivamente il debito pubblico italiano ha raggiunto livelli che mettono a repentaglio la stabilità finanziaria, non solo dell’Italia. La riduzione del debito è una priorità anche in una prospettiva puramente nazionale. 
Bene: se questa è, come credo, una corretta rappresentazione del punto di vista dei tedeschi e degli altri paesi finanziariamente virtuosi, ditemi, dove hanno torto? O invece abbiamo, noi, bisogno di uno psicoanalista?
Roma 29 marzo 2016
(*) Per nostra memoria: il Debito Pubblico italiano era pari al 99,7 % del PIL nel 2007; 10 anni dopo, caratterizzati  da una “asfissiante austerity” come direbbe un qualsiasi politicante Italiano, è previsto pari al 132,4% (Winter Forecast 2016)


sabato 26 marzo 2016

Pasqua di Resurrezione

Auguri a tutti!
(da Felice Celato)
Con questa immagine e questo pensiero di J.P. Hernandez SJ (entrambi utilizzati da un raffinato amico per farmi gli auguri di Pasqua) auguro a mia volta a tutti voi, amici e lettori pazienti, di lasciarvi ogni giorno afferrare saldamente dal Risorto.




(S. Salvatore in Chora, Istanbul, l'Anastasis)

“Cristo è vestito di bianco, colore che «ricapitola» tutti i colori, simbolo della luce piena che è la risurrezione.
Egli prende Adamo ed Eva per il polso e li fa uscire dalle loro rispettive tombe.
La presa per il polso (e non per la mano) sta a sottolineare l'iniziativa di Cristo. È Lui che prende.
All'uomo spetta solo di lasciarsi prendere. 
Questo tipo di presa all'avambraccio è particolarmente sicura. L'allargamento del carpo e metacarpo funge da freno a un eventuale slittamento della presa. Il Risorto prende con forza. La sua vittoria salva con certezza.
Inoltre questa gestualità corrisponde esattamente a un rito ben noto nella corte imperiale di Bisanzio. Quando un nobile aveva tradito ed era caduto in disgrazia, poteva, dopo una lunga penitenza, essere riabilitato. Nella cerimonia di riabilitazione l'imperatore fa rialzare il nobile in ginocchio prendendolo per il polso. Adamo è qua il nobile «rialzato», cioè «risorto».
La parola Anastasis che in greco designa la risurrezione, non significa altro che «rialzata».
Il Cristo fa rialzare i due progenitori e in questo senso fa rialzare tutta la storia umana. Nella sua discesa agli inferi, il Cristo attraversa tutti gli strati della storia e viene a salvare fino al primo peccatore. Il Risorto non solo trasforma il presente e apre un nuovo futuro, ma trasforma anche il passato. Dell'umanità, e di ogni uomo.
(J.P. Hernandez, Lo spazio sacro come Kerygma e mistagogia, p 377 e sg)

Roma, 26 marzo 2016 (Vigilia di Pasqua)

venerdì 25 marzo 2016

Sabato Santo


L’oscurità divina di questo giorno

In questi giorni tristi del mondo, in questi giorni liturgici della morte e del nascondimento di Dio, vale la pena di rileggere qualche passo da una meditazione quaresimale dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, dedicata al Sabato Santo.

Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
……L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa……..
C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare…… Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fede, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo.
Roma 25 marzo 2015 (venerdì santo)



domenica 20 marzo 2016

Stupi-diario radiofonico

Benedetto Croce e il gorgonzola
(di Felice Celato)
Oggi mi è capitato di ascoltare su Radio Radicale una bella conversazione del professor Giuseppe Galasso, intervistato da Valter Vecellio,  direttore di Notizie Radicali, su Benedetto Croce, storico e filosofo. Non entro nel merito della interessante trasmissione; mi limito soltanto a sottolinearne il tono civile e pacato delle domande e delle risposte, mai un’interruzione di chi di volta in volta parlava (intervistato e intervistatore), mai un argomento “strozzato”, mai un concetto soffocato in bocca a chi lo enunciava, mai un repentino cambiamento di argomento.
E, per mero divertimento, per divagarmi da altri pensieri, mi sono lasciato andare alla immaginazione: ho immaginato, cioè, lo stesso argomento affrontato, per esempio, dico a caso, su una delle reti della RAI o di un altro qualsiasi operatore "generalista", di quelli del tipo: "la trasmissione la fate voi!".Ecco il testo dell’immaginaria intervista:
Giornalista: siamo qui col professor Tal dei Tali, massimo esperto di Guglielmo Croce (uno dei massimi filosofi del ‘900) e titolare della cattedra di Storia della filosofia all’università del sud, oltreché autore di importanti testi critici sul famoso filosofo milanese. Professor Tal dei Tali, mi sente?
Professore: eccomi qua.
Giornalista: bene professore, lei che è uno dei massimi conoscitori del pensiero di Guglielmo Croce, ci vuol parlare dei rapporti fra il filosofo e il suo secolo?
Professore: Dunque, prima di addentrarci nel pensiero di Benedetto Croce, vorrei inquadrare brevemente il suo secolo….
Giornalista: Ah scusi, professore, se la interrompo; ricordo ai nostri ascoltatori che il secolo di Guglielmo Croce è anche il secolo di Benedetto Marconi, un po’ il papà di tutti noi della radio. Professore, Guglielmo Croce ascoltava la radio?
Professore: Mah, guardi, Benedetto Croce era un uomo del suo tempo e dunque….
Giornalista: Ecco, Croce e il suo tempo, la sua contemporaneità, la sua vitalità! A proposito, professore; lei sa che Croce è anche il nome di un famoso gorgonzola (*), il formaggio che esportiamo in tutto il mondo e che tutto il mondo ci invidia. Prima di andare avanti col nostro approfondimento, le vorrei far ascoltare, professore, una clip sulla produzione del gorgonzola in Italia, così poi lei ci descrive i rapporti fra Croce e il gorgonzola d’oggi.
Parte la clip sul cacio nazionale. Finisce la clip.
Giornalista: Professore è sempre lì?
Professore (con voce flebile): si sono qui.
Giornalista: dunque professore qual era il rapporto fra Croce e il gorgonzola e, più in generale, fra Croce e la cucina?
Professore (tentando una celia): beh! Croce ha molto studiato il pensiero di Vincenzo Cuoco, storico e giurista napoletano del..
Giornalista: Eh! Come no? Professore ha fatto bene a ricordarci il cuoco Vincenzo, perché io voglio farle una sorpresa: abbiamo in linea la nostra inviata Maddalena de Cuochis che ci parla proprio dal ristorante del cuoco Vincenzo; Maddalena, Croce veniva spesso nel ristorante del cuoco Vincenzo?
L’inviata Maddalena: Non saprei, qui, al ristorante, di Croce conoscono solo il gorgonzola…
Giornalista: ah! benissimo, il professor Tal dei Tali ci stava giusto parlando del rapporto fra Croce e il gorgonzola. Prima di ridargli la parola, però, abbiamo in linea un ascoltatore, Gigi da Montefeltro, che vuol dirci qualcosa su Croce:
Gigi: io di Croce mi faccio spesso il segno….
Giornalista: magnifico! Professore, ha sentito il nostro ascoltatore che addirittura si fa il segno di Croce? Croce si faceva il segno di Croce? Professore, mi sente?
Professore (si ode un colpo di pistola); poi una voce: sono Filippo, il nipote del professore che un attimo fa si è suicidato e voi ne siete i carnefici!
Giornalista: ho capito, mi dispiace, ma la trasmissione ha i suoi ritmi. Dica una cosa Filippo: lei ci perdona?
Filippo: si ma voglio giustizia!
Giornalista: bene, ora passiamo la pubblicità.

Roma 20 marzo 2016

(*) NB: per coloro che non conoscono le marche dei gorgonzola: questa è una notizia vera.

I rifugiati e la torta

Porzioni
(di Felice Celato)
Oltre 4 anni fa (il 4 febbraio del 2012) su queste pagine (il titolo del lungo post era Utopie?) abbiamo accennato al mito della decrescita felice, reso alla moda, fra i sazi saggi, da un fortunato libretto di Serge Latouche (Breve trattato della decrescita serena) e abbiamo contrapposto alla decrescita – la concreta utopia (sic!) vagheggiata da Latouche – un’auspicata ricrescita della nostra umanità, se si vuole,  prima ancora che delle nostre economie.
Sento il bisogno di ritornarci sopra, proprio mente si riaffacciano (addirittura in forma dissennatamente referendaria) quesiti che si prestano, nel fondo, ad alimentare una superficiale ostilità allo sviluppo, magari destinata ad attecchire nelle menti più aperte alle mode del “pensiero” suggestivo (temo che su questo argomento dovremo tornare prossimamente).
Eppure proprio in questi ultimi mesi si è imposto alla cronaca delle nostre miopie un tema che dovrebbe farci riflettere: la “sfida” posta alle nostre economie rappresentata dall’”ondata dei rifugiati” che scuote le porte dell’Europa. Certo si può pensare di eluderle, queste “sfide”, o meglio di confinarle al di fuori dei nostri recinti, con muri, guardie e fili spinati. Ma io sono convinto che, al di là dei miserevoli meccanismi che regolano il fragile accordo fra Europa e Turchia, la soluzione di questo enorme problema – che è ben lungi dall’essere contingente, ricordiamocelo – sta proprio lungo la strada intravvista con lungimiranza e capacità di leadership da Angela Merkel.
Ora, questa strada presuppone non una decrescita (felice o infelice che sia) ma una crescita delle nostre economie; una crescita, ben s’intende, realizzata in un quadro di sostenibilità complessiva, con saggezza e lungimiranza, ma pur sempre una crescita. Se si pensa che l’assorbimento di ingenti masse di nuovi cittadini europei possa avvenire semplicemente ripartendo la torta della ricchezza dei vari paesi in fette più piccole di quelle che attualmente spettano a ciascun cittadino, si commette un tragico errore di valutazione, non solo economica ma anche politica; e saranno i dilaganti populismi xenofobi e sicuritaristi, i cultori dei muri e dei fili spinati, a trarne vantaggio, in tutta Europa. Almeno per un po’, finché le “dighe” invocate da alcuni reggeranno (dopo saranno solo le armi a parlare), a loro basterà presentarsi come i tutori delle porzioni di torta cui siamo abituati!
Piaccia o non piaccia, il problema si risolve solo con la crescita, come ha ben capito Angela Merkel, cioè solo con l’allargamento della famosa torta! E facendo dei rifugiati i co-protagonisti di questo allargamento.
Non sarà un caso, credo, se, come ricorda Il sole 24 ore di ieri, il capo economista della Deutsche Bank definisce quest’onda – per la Germania – come “la più grande opportunità economica dalla riunificazione tedesca”; e se il Fondo Monetario Internazionale sostiene che saranno proprio i Paesi che accoglieranno il maggior numero di rifugiati a ricevere una spinta addizionale alla crescita che può arrivare fino all’1,1%, comportando per contro, in Europa, un aumento della popolazione valutato addirittura inferiore allo 0,2%.
Certo, perché questa prospettiva possa diventare una concreta linea politica occorre che la crescita sia una aspirazione condivisa, una convinzione diffusa; bisogna credere che crescere non si può per decreto e che crescere vale la fatica che comporta; che, naturalmente, occorre anche saper gestire  le cosiddette esternalità negative dello sviluppo, perché nulla si produce senza affanno; che la decrescita serena, qualunque cosa voglia dire nel concreto, può essere solo la prospettiva di un futuro che esige muri per confinare all’esterno la pressione di chi ha fame di benessere e non può permettersi di sognare decrescite di sorta.
Roma 20 marzo 2016 (vigilia di primavera e domenica delle palme)


mercoledì 16 marzo 2016

Camminando in primavera

Come si fa?
(di Felice Celato)
Come si fa a non essere innamorati dell’uomo? Ci penso sempre mentre cammino per la città a svelti e grandi passi (beh, svelti e grandi! sempre 0,85 metri a passo per 100 passi al minuto!), incontrando mille volti avulsi da ogni strutturata aggregazione fra loro. Come si fa a non cogliere – quando si riesce a dimenticare le forme di imbarbarimento in cui spesso ci annulliamo nei nostri rancori collettivi – la dolcezza dei sentimenti più semplici, l’ingenua fiducia, le speranze, la richiesta di conforto, l’allegra spensieratezza o la tesa angoscia di cui ciascuno è silenzioso portatore?  L’uomo maturo che cammina per strada, avviandosi pensosamente al lavoro, carico di preoccupazioni e di insicurezze; la giovane donna che porta i suoi bambini agli asili nido, parlando al cellulare con la madre; i gruppi di alunni ignari della vita che si scambiano scherzi o ridenti parodie degli insegnanti; il vecchio che chiede l’elemosina, anche ringraziandoti per un imbarazzato gesto di mancanza di monete e ti ringrazia solo per il sorriso che magari gli dedichi; le mature signore che, sedute ad un tavolo di bar, si scambiano mattutine confidenze, sdegni, lamentele e conforto ad angosce familiari, attorno all’immancabile cappuccino evocatore di qualche benessere; il passante di colore che si toglie il cappello passando davanti ad una edicola della Madonna; la giovane donna che ruba alla fretta scampoli di conversazione mattutina col ragazzino che tiene per mano; la giovanissima mamma che copre dal vento il bambolotto umano che porta dai nonni; il vecchio stanco che osserva da una panchina il mondo che gli passa davanti, magari pensando ai figli lontani; la colf filippina che si reca, anche allegra, alla quotidiana fatica e forse alla quotidiana razione di umiliazioni; i giovani seminaristi di qualche lontano paese africano che vanno allo studio quotidiano; la signora di Trastevere che cerca su una bancarella qualche indumento che le dia l’illusione di essere alla moda; lo spremitore di melograni del Bangladesh venuto in Italia a cercare sopravvivenza; le monache che lentamente vanno al mercato per la spesa del convento; la badante che accompagna l’anziana signora alla passeggiatina intorno casa, magari parlandole come fosse una bambina, mentre pensa a chi ha lasciato in patria; lo sdentato clochard improvvisatosi dog-sitter per sentirsi magari amato dal suo illustre guinzagliato; e anche lo yuppie azzimato che crede di fare un lavoro importante, del quale per sua fortuna non ancora conosce le asprezze; la giovane donna che raccoglie in una bottiglietta l’acqua della Madonna del pozzo per portarla a qualche parente malata; la ragazza che scherza coi passanti mentre pulisce una vetrina; il pizzaiolo che fuma sull’uscio del negozio prima di mettere le mani nell’impasto, misurando dalla densità dalle nuvole la quantità di pizza da infornare; la ragazza americana che fa jogging saltellando al semaforo per fare il pieno di ossido di carbonio, felice comunque di correre per la città eterna; l’anziano signore che sul ponte Garibaldi attira i gabbiani con qualche fetta di pane a cassetta, per regalarsi un po’ di rumorosa compagnia per cominciare bene la mattina; la signora “tirata” che si sente bella non ostanti i segni del tempo; i netturbini che fanno una pausa a base di grandi stocchi di pizza;  le ragazzine straniere che sciamano allegre per la città uscendo da qualche bed and breakfast a buon prezzo; tutta questa umanità che cerca, talora trova o si illude di trovare per strada, almeno per poco, speranza, conforto o modesto piacere dalla vita.
Come si fa, dicevo, a non intenerirsi degli affetti veri, della gioia di vivere, della volontà di sopravvivere alle difficoltà, della ricerca di reciproco conforto, della protettiva attenzione o anche solo dell’offerta e della domanda di umanità che tutti esprimiamo sui volti se solo ci dimentichiamo di quello che possiamo rivendicare?  Quando ci penso, mi pare di capire perché Dio, che scruta le anime e non pesa le folle, è innamorato delle sue creature, nonostante tutto.
Roma, 16 marzo 2016


PS: come sempre, la primavera e la luce mi rendono meno cupo; poi passa, però, non temete.