sabato 28 aprile 2018

Ammonizione ed apologia

1° maggio
(di Felice  Celato)
Chi scrive un blog o –  più semplicemente – ama seminare argomenti di discussione su quel che gli interessa, non può proprio restare sorpreso di ricevere critiche, proteste e talora biasimi (per la verità insieme ad affettuosi consensi); ma, stavolta, devo aver proprio esagerato se, invece di un biasimo, mi è prevenuta addirittura una ammonizione preventiva, da un amico carissimo che mi conosce pure bene; affettuosa, per carità, ma pur sempre un’ammonizione preventiva. Alla quale, proverei a rispondere nei limiti del nostro affettuoso chiacchierare.
Vale – dice, più o meno, l’amico corrucciato – anche per il 1° maggio, la tua proposta indisponente che, qualche giorno fa hai avanzato per sospendere il 25 aprile? Ti rendi conto che, stavolta, l’indisponenza sarebbe più…indisponente che mai? Ma come? Vorresti sospendere la festa del lavoro? Non hai proprio sensibilità alcuna per i tanti simboli e i tanti sentimenti che racchiude, ormai da quasi centocinquant’anni? Non ti scuote un brivido di emozione nello scorrere le immagini dei cortei, delle piazze gremite, delle bandiere al vento, dei focosi comizi? Non sei stato un lavoratore anche tu, come tua moglie, tuo padre, i tuoi nonni? E uno di essi persino minatore negli USA? Non sono lavoratori i tuoi figli? Non ti dice nulla il fatto che la stessa Chiesa (che dici di amare tanto) abbia voluto manifestare la sua vicinanza ai lavoratori indicendo, proprio il 1° maggio,  la festa di San Giuseppe Lavoratore? Insomma: non ti vergogni (o almeno non ti stanchi tu stesso, ogni tanto) di questa tua vena dissacratoria e iconoclasta?
Calma, amico mio! Prima di dar corso alla lapidazione (del sottoscritto), almeno ragioniamo insieme per qualche riga.
L’altro giorno dicevo semplicemente che “secondo me  in crisi c’è proprio il concetto di festività civile; che, per sua natura, postula, anzitutto, l’effettività di una civitase, poi, l’esistenza di un qualcosa del passato (sperimentato o creduto o immaginato) che tuttora, nel presente, esplichi o possa esplicare un effetto aggregante dal punto di vista valoriale o che animi un senso di appartenenza giustamente fondato e anche fondante”. 
Si può essere o non essere d’accordo su questa mia affermazione; ma se per caso essa fosse almeno accettabile come opinione (magari non condivisa), non ti pare che gran parte di essa ben si attagli anche al 1° maggio? O ti pare che la civitas sia tornata effettiva? Che i sindacati del passato (quelli dei lavoratori) esplichino ancora un apprezzabile effetto aggregante dal punto di vista valoriale, un po' più oltre del recinto dei pensionati?
E poi, per spostare un po' il discorso dal contingente (l’imminente 1° maggio) al (provvisoriamente) permanente (le mie opinioni indisponenti), lasciami, caro amico mio, qualche riga di spazio pro domo mea: contro il gusto della melassa [inteso per tale: il non esprimere opinioni che possano risultare sgradevoli ai più; preferire le rappresentazioni semplicistiche, perché il complicato stufa; non avventurarsi mai nei fatti urticanti ma restare sempre nel limbo delle proclamazioni accomodanti; insomma: dire tutto nebulosamente per non dire niente assolutamente], contro il gusto della melassa, dicevo, ingaggio quando posso un’aspra battaglia personale, che è il massimo che possa fare un anziano a riposo: e, come sai, così, oltre ad esorcizzare il decorso del tempo scrivendo qualche post, spesso mi infervoro in qualche discussione, per almeno contrastarlo, ‘sto gusto della melassa; solo, però, con persone con le quali valga la pena di discutere (purtroppo sempre meno numerose); e con qualche tassista; e solo, ormai, sui quattro argomenti che mi scaldano la mente o anche il cuore (oh, si vorrà lasciare all’anziano un diritto di selezione dei propri sdegni? O no?): (1) le percezioni infondate e le opinioni scontate che costituiscono il pabulum della melassa; (2) il politically correct che ne è la regola, adorata dagli elusionisti; (3)il degrado antropologico del nostro paese, che ne costituisce il presupposto. A questi argomenti melasso-correlati, come sai, si aggiunge, un po' solitario, il quarto, un po' meno pubblico: (4) la insopportabile banalizzazione del religioso. Basta: il resto non mi scalda più. E i miei fervori coi pochi che mi corrispondono, in fondo, fanno poco danno; tutt’al più si limitano a mettere a rischio il godimento di una piacevole cena fra amici o a consumare il poco tempo che prende la lettura di un post.
Comunque, amico mio, stai tranquillo: non avevo l’intenzione che mi attribuisci! Semplicemente non avrei parlato del 1° maggio, oggi. Tutto qua; tu, però, leggiti l’articolo del sociologo Luca Ricolfi su Il Messaggero di oggi (Tutto cambia, tranne il sindacato): qualche riflessione te la farà fare, senz’altro.
Roma 28 aprile 2018


venerdì 27 aprile 2018

Un popolo informato

Ricchi di parole e privi di senso
(di Felice Celato)
Da qualche tempo ho sviluppato una convinzione che a molti (a mia moglie per prima) è sembrata una delle mie fisime senili: ci siamo abituati ad ascoltare senza intendere. E così accettiamo con incosciente facilità le parole fatue, i messaggi vacui, le allusioni infondate e i riferimenti ellittici che quotidianamente ci vengono propinati non solo da “politici” ma (quel che è peggio) da “giornalisti” e da altri “comunicatori professionali”; e che alimentano il nostro “patrimonio” di percezioni diffuse, per consolidarle rapidamente  come scontate.
Per questo ho letto con molto piacere, l’altro giorno, sul Corriere della sera, il pungente articolo di Paolo Mieli Il processo (infinito) allo Stato, che opportunamente si focalizza sulla (distruttiva) comunicazione impersonale che tanto spesso si nutre di ammiccanti impersonalismi destinati a tutti coinvolgere senza nessuno nominare (il riferimento di Mieli era alle presunte responsabilità di una immateriale entità come “lo Stato” nelle famose vicende della “trattativa Stato- Mafia”).
Ma, anche senza l’ausilio di questa acuta disamina, tante volte mi è capitato di notare con quanta pigrizia accettiamo un comodo astratto in luogo di un faticoso concreto. Anzi, per passione sperimentale, ho provato spesso quanto sia sacrosantamente provocatorio l’esercizio di obbligare un interlocutore a scendere dal generico allo specifico: l’altro giorno, per esempio, ho fatto innervosire un tassista che mi parlava genericamente dei malanni del paese, sfidandolo a non usare parole vuote: “i politici” quali? “loro” chi? A vantaggio e a scapito di chi, ”loro” si fanno “gli affari loro”? Chi sono i protagonisti del “tutto un magna-magna”? E sapete quale è stata la risposta? “Ma dottò, lei non li legge i giornali?” E alla mia replica: “Ma i giornali parlano quasi sempre come lei!”; la risposta è stata: “Embè se sa! Sinnò je fanno causa!”. E poi, per misteriosa connessione, ha aggiunto: “e noi pagàmo!” (essendo arrivato alla mèta ho evitato di domandare: noi chi? E perché saremmo noi a pagare? Mi sono limitato a non arrotondare la somma da me dovuta).
Se volete, questa è una evidente banalizzazione del tema; e senz’altro avete ragione. Ma provate ad esercitare la volontà ferma di intendere fino in fondo ciò che viene detto (accoppiando, cioè, ad ogni parola il suo significato preciso), su tutto ciò che ascoltiamo alla radio o alla televisione o, ahimè, leggiamo anche sui giornali (lasciamo da parte, qui, quello che dicono i politicanti): credetemi è un esercizio, spesso ed in varia misura, sconvolgente! E – naturalmente, almeno per me – irritante! Non parlo, evidentemente, solo della inestinguibile inimicizia fra la maggior parte dei giornalisti e i numeri (spesso  clamorosamente sbagliati, addirittura per difetto di percezione della “banale” differenza fra milioni e miliardi!); no! qui ho addirittura perso ogni speranza! Mi riferisco, invece, proprio alle parole (e ai loro significati), a quelle (e a quelli) che dovrebbero essere gli strumenti prìncipi del comunicatore; e, molto molto spesso, alla congruità dei concetti enunciati o riferiti con quelle parole, talora – quando sono di buon umore – addirittura esilaranti.
Ora, le persone che più spesso di me sono di buon umore (e penso che siano veramente molte) potrebbero addirittura trarre divertimento da questa babele di sensi, da questi nonsense che – se decontestualizzati – potrebbero fare la fortuna di un buon cabarettista. Ma credo che anche a loro non sfuggirebbe il pericolo civile insito nell’uso di un linguaggio che nulla sa dire, tutto volendo far capire; nel sottrarre verbosamente alla parole il loro senso, in modo da restare ricchi di parole e privi di senso; nell’attingimento, a piene mani, al convenzionalmente percepito o al politicamente (creduto) corretto, per restituire percezioni convenzionali e “pensierini” politicamente corretti; e nell’abuso del luogo comune, accoppiato – spesso – ad un sentenzioso moralismo convenzionale, facile da comunicare e, d’altra parte, facile da introitare.
Qui siamo ben oltre il noto aforisma (non ne ricordo l’autore) che l’informazione si mette nelle teste vuote per mantenerle vuote; qui siamo nel confezionamento di pappe mediatiche sbrindellate, nell’attentato alla comprensione e, come direbbe Pannella, al diritto alla conoscenza. Il tutto, nel migliore dei casi, per insufficienza culturale o vera e propria sciatteria professionale. Se, come diceva Tocqueville, la democrazia è il potere di un popolo informato, con questa qualità del nostro informare in che tipo di democrazia speriamo?
Roma, 27 aprile 2018


mercoledì 25 aprile 2018

Proposta indisponente


25 aprile 2018
(di Felice Celato)
Verrebbe da dire: festività di san Marco, Evangelista, Patrono di Venezia e (fra gli altri) dei vetrai e degli interpreti. Ma sembrerebbe irrispettoso dei “valori della resistenza” che – secondo civile tradizione – si celebrano, come da calendario nazionale, proprio oggi. Il fatto è però che non v’è chi non veda che dei motivi di festa del 25 aprile resta ben poco, non ostante, per certi aspetti, si diffondano nel paese “sentimenti” che, invece, imporrebbero proprio di rinnovarli, non foss’altro per rinfrescare la coscienza dei rischi di una democrazia illiberale che altre volte qui abbiamo discusso. C’è chi spiega questa “frana” della festa con certe tendenze negazioniste o revisioniste che hanno messo in discussione questi famosi “valori della resistenza” (anche se non si può non riconoscere che una certa depurazione antiretorica della storia della Resistenza sia stata necessaria); anzi, c’è chi, non senza ragioni, indica proprio l’abuso di tale retorica come collante di una diffusa stanchezza della celebrazione, del resto ormai ricorrentemente inquinata da inaccettabili “trovate” ideologiche (del tipo di quella delle sfilate in kefiah sotto la bandiera palestinese – ? – dell’antisionismo, che hanno sacrosantamente indignato coloro – gli ebrei – che dal fascismo più danni  hanno avuto, e dolori e lutti); c’è poi chi mette in discussione la residua sussistenza di un  senso della storia del nostro paese ovvero di un sentimento propriamente nazionale storicamente radicato, anche se, poi, della nazione ci pare, ogni tanto, di sentire i brividi quando la nazionale di calcio non va ai campionati del mondo o quando ci scuote qualche nostro complesso d’inferiorità cisalpina.
L’elenco dei “c’è” potrebbe continuare a lungo, quanto numerosi sono – naturalmente – i commenti (quasi tutti mesti) su quello che, qui, chiamiamo (approssimativamente) la crisi del 25 aprile. E in ognuno di essi, forse, c’è un po' di verità, che la presente situazione di verbigerazione del paese rende anche più amara.
Io ho una sensazione più radicale e una proposta indisponente (e come ti sbagli?, direbbe qualcuno): secondo me  in crisi c’è proprio il concetto di festività civile; che, per sua natura, postula, anzitutto, l’effettività di una civitas; e, poi, l’esistenza di un qualcosa del passato (sperimentato o creduto o immaginato) che tuttora, nel presente, esplichi o possa esplicare un effetto aggregante dal punto di vista valoriale o che animi un senso di appartenenza giustamente fondato e anche fondante.  Che volete che aggreghi o animi più, questa rancorosa “moltitudine di soli” che siamo diventati, questa folla invecchiata ed amara che nelle fiabe cerca la medicina alle insoddisfazioni del presente, queste scettiche molecole di società ormai prive di immaginazione  e di passione del futuro e annegate in una generalizzata “deflazione delle aspettative”? Il 25 aprile? O “l’oceanica” mobilitazione del 1° maggio? O la marciante festa della Repubblica del 2 giugno?
Forse varrebbe la pena di sospenderle, queste festività civili (per carità, lasciandone la funzione di pilastri dei “sacrosanti” ponti primaverili, l’unica universalmente apprezzata nel Paese!); di provare a vedere se senza le loro stilizzate retoriche magari rispunta la salutare nostalgia del “chi siamo?”, magari affiancata da quella, altrettanto necessaria, del “dove andiamo?”. Sospendiamole; facciamo, per un po', anche nella forma, una società senza feste civili, senza memorie, senza nerbo civico; teniamoci solo le graditissime scampagnate! Magari senza abolirle, ‘ste feste civili; sospenderle; provvisoriamente; come ci è proprio: forse col tempo, quando magari – per merito nostro o per opera di qualcuno o di qualcosa – finalmente ci risveglieremo dall’ipnosi del presente, ce ne tornerà la voglia, come accadde della Festa dell’Epifania.
Roma 25 aprile 2018


sabato 21 aprile 2018

Spigolature Italiche

Ricette giuste
(di Felice Celato)
In questi giorni di nostrane, infinite discussioni sul niente per rumorosamente a niente approdare, mi ha, in qualche modo, confortato la lettura del discorso che Emmanuel Macron ha tenuto l’altro giorno difronte al Parlamento Europeo di Strasburgo. Ricco di colti riferimenti, variamente – e talora futilmente – commentato in Italia, il discorso del Presidente Francese mi è parso, ad un tempo, un’appassionata esposizione delle preoccupazioni che comincia a generare lo strisciante indirizzo “ideologico”  di molti dei paesi dell’Unione (fra i quali il nostro) e un’efficace riaffermazione di valori Europei della quale – proprio per tale ragione – sempre più sento il bisogno: une nouvelle souveraineté européenne come risposta all’illusion du pouvoir fort, du nationalisme, de l’abandon des libertés e come presidio della democrazia liberale; perché, dice Macronface à l’autoritarisme qui partout nous entours, le réponse n’est pas  la démocratie autoritaire mais l’autorité de la démocratie.
Mancavano, come è fin troppo ovvio, riferimenti specifici all’Italia, ma – lo confesso – molte delle considerazioni di Macron sembravano perfettamente attagliarsi al milieu gesticolatorio – perché a questo qui siamo – del nostro “dibattito” politico. 
Del resto, la stessa metafora dei “sonnambuli” (je ne veux pas appartenir à une génération de somnambules, je ne veux pas appartenir à une génération qui aura oublié son propre passé ou qui refusera de voir les tourments de son propre présentfotografa certe idee che, da tempo, ci siamo fatti del nostro approccio alla concretezza dei nostri problemi. Presa in prestito – credo – dal noto libro I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, di Christopher Clark (cfr. il post dell’8 aprile 2016 intitolato Storie – Noi, nuovi sonnambuli), la metafora di Macron si riferisce proprio all’atteggiamento delle classi dirigenti Europee che hanno “accompagnato” il mondo alla I Guerra Mondiale: sonnambuli, apparentemente vigili ma non in grado di vedere, tormentati dagli incubi ma ciechi di fronte alla realtà. Essi filtravano la realtà mediante narrazioni che erano il prodotto di frammenti di esperienza che si saldavano a paure, proiezioni psicologiche e interessi mascherati sotto forma di massime; ma benissimo riflette, a mio parere, le vaghezze della nostra esagitazione, a tutto determinata con indeterminate pulsioni, spesso preda di illiberali fascinazioni (cette illusion mortifère) che minacciano da vicino i fondamenti più preziosi della nostra storia politica, come dicevamo qualche giorno fa (Spigolature Italiche, del 7 aprile).
Forse non c’è (ancora) da temere che molti inascoltabili proclami – forse tonali più che sostanziali – si trasformino in azioni politiche nel nostro contesto; e tuttavia, secondo me, anche i toni richiedono vigilanza, perché prescrivere una medicina sbagliata può diventare letale una volta che – malauguratamente – la si assuma: delle volte ho l’impressione che, da noi, un medico sonnambulo si affanni a prescrivere anticoagulanti ad un malato in preda ad una violenta emorragia. Ciò che circola per l’aria viziata del nostro stanco paese (almeno a parole) sono medicine che favoriscono il male.
Apro una parentesi nostalgica per arrivare alla “ricetta” che, invece, secondo me, guarisce: molti, molti anni fa, quando, da liceale (forse nel ’66), mi affacciavo alle prime riflessioni “politiche” con…. giovani entusiasmi liberali (ora gli entusiasmi sono un po' fanés e, in larga parte, si sono trasformati – lo riconosco –  in… anziani sdegni libertari), lessi un libro che non ritrovo più (si deve essere perso in uno dei miei traslochi), scritto da Milton Friedman ancora prima che gli fosse conferito il Premio Nobel per l’Economia (1976): Capitalismo e libertà, del 1962.Grazie ad internet tuttavia ho ritrovato una delle frasi che allora più mi aveva colpito e che, riletta oggi, mi è apparsa subito contenere tutti i principi attivi della giusta ricetta per il caso nostro: Per l’uomo libero, il suo Paese è l’insieme degli individui che lo compongono, e non un’entità che li trascende. Egli è orgoglioso di un comune retaggio ed è fedele alle comuni tradizioni, ma considera il governo come un mezzo, come uno strumento, non come un dispensatore di favori e di doni, e nemmeno come un padrone o una divinità che debba essere venerata o servita ciecamente. C’è tutto un trattato di farmacologia, qui, per i buoni medici della nostra società.
Roma 21 aprile 2018 (Natale di Roma, 2771° anno dalla fondazione, molti anni e anche portati male)

mercoledì 18 aprile 2018

Anniversari

Il compleanno di Israele

Il Signore disse [a Mosè sul monte Nebo]: ”Questo è il paese per il quale ho giurato ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza” (Dt. 34,4)

Passando per il Ghetto stamattina, ho realizzato improvvisamente che, per il ben noto disallineamento dei calendari, la celebrazione dei 70 anni da quel magico 14 maggio 1948 (la proclamazione dell’Indipendenza di Israele, uno dei pochi magnifici eventi di un secolo insanguinato) quest’anno cade nella data di oggi, Yom Ha’Atzamaut (dal tramonto del 18 al tramonto del 19 aprile). 
Allora, pur nella istintiva vicinanza coi nostri fratelli ebrei nel giorno della festa del loro Stato, mi è venuto spontaneo riandare con la mente alle tante ragioni per le quali non possiamo non salutare con gioia questa festa nella quale confluiscono tutti i motivi di gratitudine ed ammirazione che l’Occidente deve nutrire per questo popolo antico e per questo piccolo, indomito stato: l’esistenza dell’Israele di oggi – quali che siano i mutevoli giudizi che si possono dare su questo o su quello dei transitori orientamenti politici di chi lo governa – custodisce, ogni giorno, il senso delle radici giudaico-cristiane del mondo occidentale e, allo stesso tempo, testimonia, ogni giorno, la nostra avversione per le vergogne della nostra storia (nazismo, razzismo, shoà). L’Israele di oggi, avamposto tenace dell’Occidente in un Medio Oriente che in larga parte lo detesta, assediato ogni giorno da un odio feroce ed inestinguibile, è stato capace di costruire una società democratica, laica e multietnica, senza negare le proprie radici; la sua cultura è la nostra cultura e la sua vita di ogni giorno è basata su modelli che sono quelli delle società liberali più progredite della nostra civiltà, non ostante la tragica necessità di difendersi ogni giorno; il suo popolo continua a tessere, ogni giorno, la tela del progresso e della civiltà occidentale, mentre, ogni giorno, è costretto all’ossessione della sua sicurezza.
Credo che tutto ciò basti per dire che la festa del 70° anniversario della fondazione del moderno stato di Israele è la festa dei nostri valori; valori che, nel tempo, noi, abbiamo perso il gusto di onorare come meritano. Ogni giorno.
Roma 18 aprile 2018.



lunedì 16 aprile 2018

Una lettura....casuale

Logos ed ethos
(di Felice Celato)
Non si spaventino i lettori del blog: non intendo affrontare qui temi tanto vasti e profondi come quello echeggiato dal titoletto di questa breve nota; tema che, per sua natura, si porrebbe ben al di là delle povere competenze filosofiche e teologiche di cui dispongo. Però, poiché per l’appunto il tema si pone tante volte alla radice di mie “impressioni” (magari sbagliate) sull’andazzo presente delle nostre sensibilità, mi permetto una breve citazione da un testo che mi è capitato fra le mani casualmente. La “storia” dell’occasione: un amico mi ha regalato un sublime libretto di Romano Guardini, di profondissima spiritualità (I santi segni) che ho letto – come del resto consigliatomi da chi me ne aveva fatto dono – con grande lentezza (e, credo di poter dire, con grande beneficio) per coglierne appieno i valori, appunto, spirituali che sono propri di questo grande maestro della Chiesa moderna (che pare sia stato un punto di riferimento spirituale, più o meno intenso, almeno degli ultimi cinque papi e del quale, molti anni fa, avevo letto il libro, stavolta corposo, Il Signore, del quale conservo ottima memoria). Senonché, l’editore (Morcelliana), per dar corpo al volumetto, ha associato al testo appena menzionato (in sé abbastanza striminzito) un altro breve libro sempre dello stesso autore (fra l’altro, questo, scritto proprio 100 anni fa, nel 1918), su Lo spirito della liturgia. Ancorché quest’ultimo tema non sia fra quelli che più mi affascinano, non ho potuto evitare di dare un’occhiata all’indice e di lasciarmi attrarre dal suo capitolo finale, intitolato: Il primato del Logos sull’Ethos. In sostanza, qui, Guardini affronta, partendo dalla liturgia, una questione enorme: in quale rapporto sta in essa il volere rispetto alla conoscenza, il valore di verità rispetto al valore di bontà? E partendo da qui, ripercorre, in estrema sintesi, la relazione  fra Logos  ed Ethos nella storia della religione cristiana e  di quella cattolica in particolare. Chiarito che Verità annunciata (la buona novella), nella fede della Chiesa, non è una fredda maestà ma, appunto, la Verità dell’amore di Dio per l’uomo, Guardini scrive quanto segue: L’energia della volontà, dell’azione, della ricerca, per quanto intensa possa diventare, deve riposare sopra una profondità che è calma, che s’affisa nelle immutabili verità eterne. Questo è il sentire che ha le sue radici nell’eternità. Esso ha la pace; possiede quella serenità immune da tensioni che rappresenta la vittoria sopra la vita. Non ha fretta, ha tempo: può pertanto attendere e lasciar crescere. Questo atteggiamento spirituale è veramente cattolico….. La Chiesa perdona ogni altra mancanza più facilmente che un attentato alla verità. Essa sa bene che, se uno manca ma non intacca la verità, egli può ritrovarsi e riprendersi. Ma s’egli intacca il principio, in tal caso è lo stesso santo ordine della vita che è levato dei cardini….. La Chiesa pone la verità, il dogma come un dato assoluto, riposante su se stesso, che non abbisogna di nessuna fondazione sulla base dell’ambito morale un pratico. La verità è verità, perché è la verità… Il volere non crea la verità, ma la trova; deve riconoscersi cieco e perciò bisognoso di luce, della guida, della potenza ordinatrice e formatrice della verità. Il volere deve fondamentalmente riconoscere il primato della conoscenza sulla volontà, del Logos sull’Ethos.
Legittima la domanda del lettore: ma perché ti affascina tanto questo tema così bizzarro? Caro immaginario lettore, il tema non è così bizzarro come ti sembra: viviamo in un tempo in cui si ha paura (o almeno ritegno, talora persino nella Chiesa, che si ritiene ed è la depositaria della Verità) a riconoscere che noi abbiamo bisogno della Verità, qualsiasi cosa ci induca a pensare la nostra incessante, orizzontale agitazione di sentimenti e pulsioni, il nostro mito del fare; e che riconoscerne la sete insita in noi è mettersi alla sequela della giustizia, della libertà e della pace.
Roma 16 aprile 2018 (compleanno di Benedetto XVI che al Logos ha dedicato tante pagine intense di fede)







sabato 14 aprile 2018

Un tragico ragionamento

Guerra e pace
(di Felice Celato)
Il ragionamento che segue (che prenderà più del consueto numero di parole) postula una preventiva richiesta di credito: chi scrive è ben lungi dall’essere un guerrafondaio; anzi, da sempre, radicalmente detesta ogni forma di violenza sia individuale che collettiva, sia pubblica che privata; e considera la guerra come l’impresa che ha maggiori probabilità di spremere dall’animo umano, fino all’ultima goccia, il peggio di quanto vi è sepolto. Non mi dovrebbe essere difficile guadagnarmi questo credito, soprattutto presso chi meglio mi conosce; e pur tuttavia sento la necessità di richiederlo perché – stimolato, come è ovvio, da quanto leggiamo del mondo ma senza alcun concreto riferimento a ciò – mi appresto a svolgere alcune considerazioni sulla guerra; in controtendenza, come è mia natura, rispetto alle solite retoriche spesso intrise di erratici pregiudizi.
Partiamo dal punto di vista etico: la guerra è, secondo me, la manifestazione collettiva del peccato originale, nel senso che riproduce a livello – appunto – collettivo le istanze più violente del comportamento dell’uomo singolo; e, come è proprio della “scala” collettiva, le dinamiche di queste istanze assumono una dimensione ampliata e pervasiva, per molti aspetti più difficile da dominare, come se l’originaria violenza di Caino contro Abele diventasse violenza di popolo contro un altro popolo, moltiplicando l’intento distruttivo dell’odio al punto da renderlo ingovernabile. E infatti, se ci spostiamo lentamente verso il punto di vista storico, constatiamo che da sempre la guerra accompagna la vita dei popoli né più né meno come la violenza privata, la corruzione, la discordia, la dissolutezza e le altre opere della carne(per dirla con San Paolo) da sempre accompagnano e segnano la vita dell’uomo. Purtroppo.
Ora facciamo un passo avanti verso l’esperienza concreta della storia: se non abbiamo imparato a dominare il peccato degli individui, nemmeno quando l’odio per l’altro si estrinseca e diviene reato (tipicamente: l’omicidio), ben difficilmente saremo in grado di dominare quello delle collettività, quando da odio collettivo (magari suscitato artificialmente) diviene guerra.  Infatti, mentre le leggi penali, che disciplinano i comportamenti degli individui, operano – con mutevoli risultati – attraverso la minaccia e l’applicazione di una violenza superiore di incontrastata cogenza (la repressione di un reato, questo è!), non altrettanto si riesce a conseguire con la guerra, per quanto possiamo affannarci a proclamare “regole” che (starei per dire: paradossalmente) giuridicizzano l’esercizio della violenza collettiva; e ciò perché l’applicazione di una violenza superiore (come sarebbe, per esempio, un intervento internazionale che imponga la pace con la forza) è, per sua natura, soggetta a procedure apparentemente democratiche che la rendono oltremodo macchinosa, incerta e spesso assolutamente inefficace.
Ma c’è di più: come i presupposti della violenza privata possono esser svariati (rancori, vendette, avidità, fanatismo, patologiche follie omicide, etc.), così sono anch’essi molteplici i presupposti di quella collettiva; tanto per fare qualche esempio: dalla cupidigia delle altrui risorse alla volontà di compensare torti (veri o presunti) subiti dalla storia, dalla brama di espansione territoriale alla volontà di dominio ideologico, dalle follie dell’odio razziale alla necessità di proteggersi da questo; e così via, scorrendo la lunga galleria di orrori suscitati dagli uomini nel corso dei secoli.  Va da sé – non occorre cioè essere particolarmente saggi per capirlo – che l’esercizio della semplice ragione potrebbe svuotare di senso la gran parte di queste collettive manifestazioni di odio e di violenza: basterebbe solo – tanto spesso – porre su una bilancia i guadagni collettivi e le perdite collettive dell’esercizio della violenza in forma bellica. Cosi ci si potrebbe domandare – ad esempio (ma con molto senno del poi) – se, razionalmente, lo spostamento, spesso di pochi chilometri, di un confine proclamato apoditticamente “sacro”, giustifichi interminabili guerre di confine del tipo di quelle che si sono combattute in ogni parte del mondo, con enormi spargimenti sangue. 
D’altro canto, però è innegabile, credo, che l’esercizio della ragione – per risultare più forte di quello della forza – presuppone, fra l’altro, un certo grado di bilateralità, nel senso che contro la fanatica irragionevolezza di una parte o l’odio mortale che una parte nutre verso l’altra, la ragione può non bastare; sicché – se un’attiva resistenza non è sufficiente – si pone come necessaria un’alternativa drammatica: cedere all’altrui violenza o accedere alla tragica logica del mors tua vita mea (la storia della seconda guerra mondiale insegna molto al riguardo; eppure persino Stalin aveva solennemente “ragionato” con Hitler).
Una volta che si sia fatto questo tragico passo, purtroppo, vengono meno tutti i meccanismi di giurdicizzazione della guerra e alla violenza fra le parti non c’è più argine serio (se non retorico, e quindi quasi inutile, o postumo, coi processi per crimini di guerra): e allora tragicamente non c’è più differenza fra mezzi (dai bombardamenti a tappeto, alla bomba atomica, ai gas tossici) e nemmeno fra obbiettivi (militari o civili che siano, secondo un’ipocrita ottica per la quale un giovane in armi può essere ucciso più a cuor leggero di un vecchio, solo perché disarmato). La follia dilaga, come dilagò all’interno dell’animo di Caino quando il Signore gradì l’offerta di Abele (Gn, 4); e, con essa follia, uno spietato pedaggio di morti.
Ma quando la follia è dilagata, è possibile che – sciaguratamente – una superiore violenza sia necessaria per porvi fine. Con tutte le possibilità di errore (e di inquinamento delle intenzioni) che sono insite in ogni azione di uomini.
Roma 14 aprile 2018.
N.B.: il post che precede è stato pubblicato  poco dopo le 24 di ieri; perciò non necessariamente si applica a quanto accaduto stanotte (nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione del post), di cui si è avuto confusa notizia proprio ora. Del resto la natura "astratta" delle considerazioni svolte era chiaramente  evidenziata in premessa.
Roma, 14 aprile 2018  ore 6,50

martedì 10 aprile 2018

Letture

Antiche storie dell’oggi
(di Felice Celato)
Complice la pioggia abbondante di questi giorni, mi è stato facile (oltreché gradito) immergermi nella lettura di un libro di storia, interessante e - secondo me - straordinariamente denso  di insegnamenti.
Da tempo, ormai, amo i libri brevi: massimo 300 pagine per la letteratura, massimo 200 pagine per i saggi; il di più, spesso, mi annoia e talora – con l’età sono diventato (più) insofferente alle lungaggini – mi irrita. Il libro che mi appresto a raccomandarvi, con le sue 150 pagine scarse, risponde a questa senile esigenza e, per di più, si giova di una prosa chiara ed anche blandamente ironica. Si tratta di un libro di Lorenzo Tanzini, medievalista accademico ma – mi pare – attento conoscitore dei meccanismi tecnici e socio-psicologici connessi con la nascita, lo sviluppo e la gestione del debito pubblico in periodo di crisi: 1345. La bancarotta di Firenze – Una storia di banchieri, fallimenti e finanza (Salerno editore, 2018). Il motivo della raccomandazione è semplice: dalla storia della genesi della crisi fiorentina, delle sue pesanti e diffuse conseguenze, delle vie faticosamente sperimentate per uscirne e – infine – dell’emersione dei valori che – da sempre – consentono di tirarsi fuori da siffatte situazioni, si apprendono molte cose che ai più sembrano sfuggire (almeno a giudicare dalle stupide retoriche d’uso corrente, da noi, sulle crisi finanziarie di banche e di paesi); e che si farebbe bene a meditare se non si intende rimanere prigionieri delle favole popolari.
Il 1345 e gli anni immediatamente successivi, come forse qualcuno di noi più esperto di storia economica ricorderà, furono anni “bestiali” per la storia della Firenze a cavallo fra tardo-medioevo (Dante era morto solo una ventina di anni prima) e Rinascimento: Edoardo III di Inghilterra non aveva rimborsato gli ingenti prestiti effettuati dai banchieri toscani per supportare una delle tante guerre che si combattevano in quei tempi (anche allora c’erano molti intrecci fra finanza pubblica e privata, anche allora cioè molte banche erano detentrici di “cambiali” degli stati); le banche dei Bardi e dei Peruzzi erano conseguentemente fallite e con esse erano falliti molti mercatanti  ad esse collegati o che vi avevano depositato i loro risparmi (toh! anche allora il passivo delle banche era fatto di soldi dei cittadini!); era crollata la fiducia nei mercati, anche allora presupposto fondamentale di ogni commercio; c’era stata pure una forte carestia, seguita (1348) addirittura dalla peste nera; lo scenario internazionale (e meta-regionale) era quanto mai inquieto e le guerre (grandi e piccole, per la difesa o per la crescita) erano assai costose e certamente non aumentavano la fiducia degli scambi. Tralascio qui di accennare agli intrecci politici “internazionali” che rendevano (anche allora) la miscela finanza – economia – politica quanto mai delicata. Fatto sta che il Comune (di Firenze), per la condizione della sottostante economia, non riusciva più a raccogliere le imposte, né quelle, appunto, imposte né quelle sotto forma di prestiti più o meno forzosi; e dunque dovette dichiarare bancarotta.  Seguirono anni di ristrutturazioni, cancellazioni e impacchettamenti vari del debito pubblico fiorentino (messo tutto in un “contenitore”, forse non a caso chiamato “Monte), di turbolenze esagitate fra guelfi e ghibellini (si sa come son fatti – pardon! come erano fatti – i fiorentini, anche da questo punto di vista i più italiani degli italiani), di avvicendamenti politici anche violenti (il famoso tumulto dei Ciompi è appunto del 1378); finché, piano piano, cominciarono ad emergere (o forse a riemergere) quelle virtù civiche che, dopo quegli anni bui, portarono alla nascita della Firenze del ‘400; e che – da sempre – governano le ripartenze o, addirittura, le rinascite: il realismo nella gestione della crisi, la franchezza nella esposizione dei problemi, il grande e diffuso dinamismo imprenditoriale dei cittadini, la mediazione intelligente fra le esigenze dei ceti lavoratori e le mire delle élites capitaliste, l’affermarsi di un’illuminata élite di banchieri ed imprenditori nel governo della città, la saldezza dei principi di libertà e credibilità del Comune: tutto  ciò dette luogo ad un amalgama originalissimo di ricerca del profitto e senso dello stato dalla quale [trasse origine] buona parte della Firenze del Rinascimento.
Fin qui il libro, sintetizzato brutalmente. Sulle (eventuali?) indicazioni da trarre dalla storia e per il presente, lascio ben volentieri ai miei pazienti lettori che, magari, vorranno leggere il libro, il gusto di estrarre dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Nessuno si pentirà – ne sono certo – del breve tempo dedicato a questo libro.
Roma, 10 aprile 2018 (Siblings day, festa dei fratelli)

sabato 7 aprile 2018

Spigolature Italiche

Il vincolo liberale
(di Felice Celato)
Quello che, secondo me, anche in questa fase di civile vuoto pneumatico, dovrebbe preoccupare gli Italiani (o almeno: quegli Italiani che abbiano conservato alla loro testa non la sola funzione otodiastasica; in napoletano: quelli che non tengono a’ capa pe’ spartì e’rrecchie) non è tanto il contenuto dei programmi che la politica dissennatamente ha allineato senza alcuna considerazione della loro contraddittorietà, praticabilità e finanziabilità: saranno i fatti (o i prestatori di mezzi finanziari) che “giustizieranno” molti di questi programmi fantastici (chi vuole rendersene conto meglio, può sfogliare il libro, di Roberto Perotti, Falso, Feltrinelli, 2018). Molto più, secondo me, occorre preoccuparsi degli apparentamenti ideali, ovvero dei richiami all’esemplarità di altrui esperienze che a me paiono… esemplarmente sgradevoli.
Ci pensavo oggi, leggendo sul Corriere della Serae su Il sole 24 ore le “cronache” delle imminenti elezioni in Ungheria che vedono largamente favorito l’attuale Presidente Orban. Diciamoci la verità con franchezza brutale ma rispettosa della grande storia dell’Ungheria: non credo che l’Ungheria di oggi possa costituire un modello cui ispirare una linea politica occidentale e moderna; né, francamente, mi verrebbe in mente di reclamizzare una linea politica Italiana con il selfie strappato al “piccolo padre dell’Europa illiberale” (copyright: Il sole 24 ore) che, sembra, vada fiero di questa etichetta.
Ma, se ci pensate, Orban non è l’unico esempio di affinità elettive per lo meno imbarazzanti. Abbiamo sentito di tutto, in Italia, in questi ultimi tempi: dall’esaltazione di Maduro, all’innamoramento (incomprensibile) per autocrati come “l’amico Putin” o l’ottimo Erdogan, l’Italia sembra risuonare di suggestioni illiberali che francamente – alla vigilia di una prossima (?) formazione di un nuovo governo – non possono che preoccupare; tanto più perché queste suggestioni sembrano aver costituito un forte collante elettoralistico che in qualche modo ha determinato anche la composizione culturale dei “rappresentanti”. Come acutamente osserva oggi, sempre sul Corriere, Angelo Panebianco, infatti, il modo in cui un partito è nato, la sua piattaforma ideologica di partenza, le parole d’ordine che ha costruito… sono servite a reclutare persone anziché altre, hanno creato, nutrito, forgiato il suo personale politico. E ciò – annota ancora Panebianco – quali che siano le dichiarazioni del momento di questo o di quel leader, quali che siano i tatticismi della politica politicienne che accompagnano le negoziazioni volte a stringere patti politici.
Su questo blog abbiamo parlato più volte – se lo ricorderanno i lettori più attenti e, comunque, per i più distratti, da ultimo, pochi giorni fa col post del 23 marzo Italica, Il costo della democrazia – della democrazia illiberale (copyright: forse Fareed Zakaria) come esito, letale, della assenza di uno statuto liberale consustanziale ad ogni sistema che voglia considerarsi utilmente democratico. Anzi, esattamente un anno fa (il 7 aprile del 2017), commentando un… commento di un amico, proprio qui ero arrivato a dire (mi si scusi l’autocitazione): non saprei che farmene dei cosiddetti valori democratici (in termini più rigorosi: di governanti scelti democraticamente dalla maggioranza) se non fossero indissolubilmente connessi coi valori liberali che stabiliscono il primato della persona sullo stato e, a questo, fissano limiti invalicabili.
E dunque si comprende bene come, al momento, più assai della congruenza dei tanti discorsi programmatici, ciò che mi sembra urgente focalizzare ossessivamente è il fondamento liberale della nostra società; di fronte al quale persino si scolorisce il tema del che cosa il nuovo governo potrà fare per adempiere all’eterna condanna del nostro Paese: ogni promessa (elettorale) è debito (pubblico). Anche se da anni, poco altro abbiamo saputo fare, ora, forse, siamo arrivati al limite in cui il vincolo esterno può proteggerci da altre dissennatezze, checché sia stato promesso. È ancora nelle nostre possibilità prenderne atto e porvi rimedio, svegliandoci dalle nostre infantili narrazioni (non sarebbe la prima volta che le promesse elettorali non vengono mantenute); e, starei per dire, è anche legittimo sperare che il prossimo governo debba prenderne atto (in fondo – ripeto: al di là di quanto è stato promesso – non è escluso che sia costretto a  fare meglio, da questo punto di vista, di molti altri che l’hanno incoscientemente preceduto). Ma l’autonoma tutela del vincolo liberale mi pare assai più decisiva, quand’anche abbia, da noi, già sofferto di qualche vulnus
Altro che Orban, Maduro e compagnia brutta! La democrazia liberale (ed Europea!)  è il vincolo che l’Italia deve sentire irrinunciabile. Con qualsiasi governo. Whatever it takes, direbbe Draghi.
Roma 7 aprile 2018

giovedì 5 aprile 2018

Stagionati pensieri


Questi pensieri sono, appunto, stagionati, nel senso che sono il frutto di riflessioni non recenti; li allineo qui, magari solo per i lettori credenti, come piccolo contributo alla nostra amicizia che trova, in queste conversazioni asincrone ormai settennali (ci avviamo infatti al settimo “compleanno” di questo blog), il conforto sublime del numero ristretto, testimone dell’apprezzata assenza della moltitudine (copyright: Mallarmé).

Riportare, pregare
(di Felice Celato)
Il verbo riportare/riportarsi, nell’italiano moderno, ha molti significati: dal portare di nuovo, portare indietro, restituire (al legittimo proprietario); dal riferire, far risalire (all’autorità di qualcuno), trasportarsi idealmente, richiamarsi (come gli antichi filosofi si riportavano a Platone o ad Aristotele); fino al riferirsi, rispondere a qualcuno dei propri comportamenti (si dice: il capo-contabile riporta al direttore finanziario, oppure il colonnello al generale, etc). Un verbo vasto, dunque, che risuona di un significato traslativo e restitutivo, anche in senso attributivo, come fosse un riconoscere un’alterità autorevole alla quale fanno capo le cose che abbiamo in uso (e dobbiamo restituire) o le facoltà che esercitiamo per suo conto; un verbo che presuppone la relazione, che è ad un tempo – magia delle parole! – il contenuto del riportare e, soprattutto, il presupposto bilaterale dell’azione del riportare: per riportare qualcosa a qualcuno occorre anzitutto che si riconosca questo qualcuno, che si abbia con lui, appunto, una relazione, un legame dialettico.
Per questo il verbo riportare mi pare il più adatto a sintetizzare il senso della preghiera come lo sono venuto sentendo in anni di riflessione sul suo senso e sulla natura del rapporto che instauriamo con Dio, appunto pregando: riportiamo a Lui, cioè rimettiamo nelle Sue mani quanto abbiamo ricevuto e quanto abbiamo fatto o non abbiamo fatto per custodirlo, Gli riferiamo dei nostri progressi o dei nostri regressi, delle nostre difficoltà, degli ostacoli davanti ai quali ci siamo fermati, delle cose che necessitano di un Suo intervento, delle cose che non capiamo, degli errori che abbiamo commesso, degli abusi che abbiamo compiuto sui beni che ci sono stati affidati. Rimettiamo tutta nelle Sue mani la nostra umanità, che abbiamo ricevuto dal Suo soffio e, ripercorrendone i nodi, la riaffidiamo alla Sua misericordia.
Che poi lo facciamo mentre snoccioliamo il mantra di un rosario o semplicemente piegando il capo in silenzio davanti al Crocefisso, o mentre riceviamo la comunione, o ricomponendo nella nostra mente e con nostre parole le cose che vorremmo dirGli; o anche che lo facciamo interrogandoLo appassionatamente, come accade quando non capiamo ciò che ci succede; o semplicemente dicendoGli il nostro amore per quelli che ci ha donato e che raccomandiamo al Suo sguardo; o la nostra grata memoria di quelli chi ci hanno messo in vita e nella vita custodito nell’amore; tutto ciò mi pare abbastanza indifferente, quasi come si tratti di una mera modalità. E’ invece assai importante che il nostro atteggiamento sia quello del riportare davanti a Lui sulla base di una relazione, relazione che la Rivelazione ci ha insegnato a considerare filiale e che, perciò, anche naturalmente, conosciamo (sia come figli che come padri o madri).
Si dirà: una relazione presuppone un dialogo; possiamo dire che l’Altro ci abbia mai risposto, abbia mai corrisposto al nostro riportarGli, abbia rotto quello che ci appare il suo eterno silenzio?
Non lo so. Ciascuno può trovare nella sua esperienza una risposta a questi interrogativi (ma anche a questi altri, contrapposti: possiamo dire che l’Altro NON ci abbia mai risposto? Che sia sempre veramente restato IN SILENZIO?).
In ogni caso, vale qui quanto insegnava J. Ratzinger già cinquanta anni fa (Introduzione al Cristianesimo, prima edizione in tedesco 1968): credere vuol dire aver deciso [è questa l’opzione fondamentale!] che nel cuore stesso dell’esistenza umana c’è un punto che non può essere alimentato e sostenuto da ciò che è visibile e percettibile, ma dove si incontra l’invisibile, sicché quest’ultimo gli diviene quasi tangibile, rivelandosi come una necessità inerente alla sua esistenza stessa.
In questa opzione, si radica la Rivelazione; e la Rivelazione (che è il perimetro della nostra fede di Cristiani) ci dice di un Dio che ascolta, sempre; e talora risponde.
Roma,  5 aprile 2018