Guerra e pace
(di Felice Celato)
Il ragionamento che segue (che prenderà più del consueto numero di parole) postula una preventiva richiesta di credito: chi scrive è ben lungi dall’essere un guerrafondaio; anzi, da sempre, radicalmente detesta ogni forma di violenza sia individuale che collettiva, sia pubblica che privata; e considera la guerra come l’impresa che ha maggiori probabilità di spremere dall’animo umano, fino all’ultima goccia, il peggio di quanto vi è sepolto. Non mi dovrebbe essere difficile guadagnarmi questo credito, soprattutto presso chi meglio mi conosce; e pur tuttavia sento la necessità di richiederlo perché – stimolato, come è ovvio, da quanto leggiamo del mondo ma senza alcun concreto riferimento a ciò – mi appresto a svolgere alcune considerazioni sulla guerra; in controtendenza, come è mia natura, rispetto alle solite retoriche spesso intrise di erratici pregiudizi.
Partiamo dal punto di vista etico: la guerra è, secondo me, la manifestazione collettiva del peccato originale, nel senso che riproduce a livello – appunto – collettivo le istanze più violente del comportamento dell’uomo singolo; e, come è proprio della “scala” collettiva, le dinamiche di queste istanze assumono una dimensione ampliata e pervasiva, per molti aspetti più difficile da dominare, come se l’originaria violenza di Caino contro Abele diventasse violenza di popolo contro un altro popolo, moltiplicando l’intento distruttivo dell’odio al punto da renderlo ingovernabile. E infatti, se ci spostiamo lentamente verso il punto di vista storico, constatiamo che da sempre la guerra accompagna la vita dei popoli né più né meno come la violenza privata, la corruzione, la discordia, la dissolutezza e le altre opere della carne(per dirla con San Paolo) da sempre accompagnano e segnano la vita dell’uomo. Purtroppo.
Ora facciamo un passo avanti verso l’esperienza concreta della storia: se non abbiamo imparato a dominare il peccato degli individui, nemmeno quando l’odio per l’altro si estrinseca e diviene reato (tipicamente: l’omicidio), ben difficilmente saremo in grado di dominare quello delle collettività, quando da odio collettivo (magari suscitato artificialmente) diviene guerra. Infatti, mentre le leggi penali, che disciplinano i comportamenti degli individui, operano – con mutevoli risultati – attraverso la minaccia e l’applicazione di una violenza superiore di incontrastata cogenza (la repressione di un reato, questo è!), non altrettanto si riesce a conseguire con la guerra, per quanto possiamo affannarci a proclamare “regole” che (starei per dire: paradossalmente) giuridicizzano l’esercizio della violenza collettiva; e ciò perché l’applicazione di una violenza superiore (come sarebbe, per esempio, un intervento internazionale che imponga la pace con la forza) è, per sua natura, soggetta a procedure apparentemente democratiche che la rendono oltremodo macchinosa, incerta e spesso assolutamente inefficace.
Ma c’è di più: come i presupposti della violenza privata possono esser svariati (rancori, vendette, avidità, fanatismo, patologiche follie omicide, etc.), così sono anch’essi molteplici i presupposti di quella collettiva; tanto per fare qualche esempio: dalla cupidigia delle altrui risorse alla volontà di compensare torti (veri o presunti) subiti dalla storia, dalla brama di espansione territoriale alla volontà di dominio ideologico, dalle follie dell’odio razziale alla necessità di proteggersi da questo; e così via, scorrendo la lunga galleria di orrori suscitati dagli uomini nel corso dei secoli. Va da sé – non occorre cioè essere particolarmente saggi per capirlo – che l’esercizio della semplice ragione potrebbe svuotare di senso la gran parte di queste collettive manifestazioni di odio e di violenza: basterebbe solo – tanto spesso – porre su una bilancia i guadagni collettivi e le perdite collettive dell’esercizio della violenza in forma bellica. Cosi ci si potrebbe domandare – ad esempio (ma con molto senno del poi) – se, razionalmente, lo spostamento, spesso di pochi chilometri, di un confine proclamato apoditticamente “sacro”, giustifichi interminabili guerre di confine del tipo di quelle che si sono combattute in ogni parte del mondo, con enormi spargimenti sangue.
D’altro canto, però è innegabile, credo, che l’esercizio della ragione – per risultare più forte di quello della forza – presuppone, fra l’altro, un certo grado di bilateralità, nel senso che contro la fanatica irragionevolezza di una parte o l’odio mortale che una parte nutre verso l’altra, la ragione può non bastare; sicché – se un’attiva resistenza non è sufficiente – si pone come necessaria un’alternativa drammatica: cedere all’altrui violenza o accedere alla tragica logica del mors tua vita mea (la storia della seconda guerra mondiale insegna molto al riguardo; eppure persino Stalin aveva solennemente “ragionato” con Hitler).
Una volta che si sia fatto questo tragico passo, purtroppo, vengono meno tutti i meccanismi di giurdicizzazione della guerra e alla violenza fra le parti non c’è più argine serio (se non retorico, e quindi quasi inutile, o postumo, coi processi per crimini di guerra): e allora tragicamente non c’è più differenza fra mezzi (dai bombardamenti a tappeto, alla bomba atomica, ai gas tossici) e nemmeno fra obbiettivi (militari o civili che siano, secondo un’ipocrita ottica per la quale un giovane in armi può essere ucciso più a cuor leggero di un vecchio, solo perché disarmato). La follia dilaga, come dilagò all’interno dell’animo di Caino quando il Signore gradì l’offerta di Abele (Gn, 4); e, con essa follia, uno spietato pedaggio di morti.
Ma quando la follia è dilagata, è possibile che – sciaguratamente – una superiore violenza sia necessaria per porvi fine. Con tutte le possibilità di errore (e di inquinamento delle intenzioni) che sono insite in ogni azione di uomini.
Roma 14 aprile 2018.
N.B.: il post che precede è stato pubblicato poco dopo le 24 di ieri; perciò non necessariamente si applica a quanto accaduto stanotte (nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione del post), di cui si è avuto confusa notizia proprio ora. Del resto la natura "astratta" delle considerazioni svolte era chiaramente evidenziata in premessa.
Roma, 14 aprile 2018 ore 6,50
Nessun commento:
Posta un commento