25 aprile 2018
(di Felice Celato)
Verrebbe da dire: festività di san Marco, Evangelista, Patrono di Venezia e (fra gli altri) dei vetrai e degli interpreti. Ma sembrerebbe irrispettoso dei “valori della resistenza” che – secondo civile tradizione – si celebrano, come da calendario nazionale, proprio oggi. Il fatto è però che non v’è chi non veda che dei motivi di festa del 25 aprile resta ben poco, non ostante, per certi aspetti, si diffondano nel paese “sentimenti” che, invece, imporrebbero proprio di rinnovarli, non foss’altro per rinfrescare la coscienza dei rischi di una democrazia illiberale che altre volte qui abbiamo discusso. C’è chi spiega questa “frana” della festa con certe tendenze negazioniste o revisioniste che hanno messo in discussione questi famosi “valori della resistenza” (anche se non si può non riconoscere che una certa depurazione antiretorica della storia della Resistenza sia stata necessaria); anzi, c’è chi, non senza ragioni, indica proprio l’abuso di tale retorica come collante di una diffusa stanchezza della celebrazione, del resto ormai ricorrentemente inquinata da inaccettabili “trovate” ideologiche (del tipo di quella delle sfilate in kefiah sotto la bandiera palestinese – ? – dell’antisionismo, che hanno sacrosantamente indignato coloro – gli ebrei – che dal fascismo più danni hanno avuto, e dolori e lutti); c’è poi chi mette in discussione la residua sussistenza di un senso della storia del nostro paese ovvero di un sentimento propriamente nazionale storicamente radicato, anche se, poi, della nazione ci pare, ogni tanto, di sentire i brividi quando la nazionale di calcio non va ai campionati del mondo o quando ci scuote qualche nostro complesso d’inferiorità cisalpina.
L’elenco dei “c’è” potrebbe continuare a lungo, quanto numerosi sono – naturalmente – i commenti (quasi tutti mesti) su quello che, qui, chiamiamo (approssimativamente) la crisi del 25 aprile. E in ognuno di essi, forse, c’è un po' di verità, che la presente situazione di verbigerazione del paese rende anche più amara.
Io ho una sensazione più radicale e una proposta indisponente (e come ti sbagli?, direbbe qualcuno): secondo me in crisi c’è proprio il concetto di festività civile; che, per sua natura, postula, anzitutto, l’effettività di una civitas; e, poi, l’esistenza di un qualcosa del passato (sperimentato o creduto o immaginato) che tuttora, nel presente, esplichi o possa esplicare un effetto aggregante dal punto di vista valoriale o che animi un senso di appartenenza giustamente fondato e anche fondante. Che volete che aggreghi o animi più, questa rancorosa “moltitudine di soli” che siamo diventati, questa folla invecchiata ed amara che nelle fiabe cerca la medicina alle insoddisfazioni del presente, queste scettiche molecole di società ormai prive di immaginazione e di passione del futuro e annegate in una generalizzata “deflazione delle aspettative”? Il 25 aprile? O “l’oceanica” mobilitazione del 1° maggio? O la marciante festa della Repubblica del 2 giugno?
Forse varrebbe la pena di sospenderle, queste festività civili (per carità, lasciandone la funzione di pilastri dei “sacrosanti” ponti primaverili, l’unica universalmente apprezzata nel Paese!); di provare a vedere se senza le loro stilizzate retoriche magari rispunta la salutare nostalgia del “chi siamo?”, magari affiancata da quella, altrettanto necessaria, del “dove andiamo?”. Sospendiamole; facciamo, per un po', anche nella forma, una società senza feste civili, senza memorie, senza nerbo civico; teniamoci solo le graditissime scampagnate! Magari senza abolirle, ‘ste feste civili; sospenderle; provvisoriamente; come ci è proprio: forse col tempo, quando magari – per merito nostro o per opera di qualcuno o di qualcosa – finalmente ci risveglieremo dall’ipnosi del presente, ce ne tornerà la voglia, come accadde della Festa dell’Epifania.
Roma 25 aprile 2018
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