martedì 28 luglio 2020

Babele / 3

Fare squadra

(di Felice Celato)

I miei ventiquattro lettori sanno bene della mia “mania” per i numeri; ma non per i numeri in sé, che da soli non significano nulla (tre sono le Persone della Trinità ma anche tre sono le dee fra le quali Paride scelse la più bella); bensì per quello che significano quando esprimono una quantità di qualcosa; la quantità da’ (quasi sempre) il senso alla qualità: come amo ripetere – forse troppo? – un bicchiere d’acqua disseta, un’alluvione travolge, la quantità dell’acqua ne muta la natura, da benefica a tragica; e non a caso, citando Giovenale, più volte li ho intrattenuti  con la rubrichetta Defendit numerus, il numero difende (dagli abbagli).

Ma sanno anche – sempre i miei ventiquattro lettori – che amo molto anche le parole (ne sono una prova le molte – troppe? – divagazioni sul dizionario), quando esprimono un significato (dal latino: signum facere, far segno di qualcosa), un senso o anche un sentimento, quando, cioè, non hanno perduto la loro funzione semantica, quando significano ancora qualcosa e questo qualcosa è ciò che si vuol precisamente dire. Le amo tanto le parole che, come mi è stato affettuosamente rimproverato, mi concedo fin troppi (scherzosi) sconfinamenti nell’ onomaturgia (fabbricazione di parole), da statolatria alla recentissima panpatìa; anzi, per venire al nostro tema di oggi, in questa vena onomaturgica, molti anni fa (cfr. Stupi-diario linguistico del 6 aprile 2013) avevo proposto la neo-parola polifonema, per dire di un assemblaggio di suoni linguistici elementari privi di autonomo significato (appunto i fonemi, in linguistica) per formare suoni più complessi ma egualmente privi di significato (per esempio: ambarabàciccìcoccò, o, in politica, prevalentemente nei programmi di sinistra, mettere al centro  qualcosa, chessò lo sviluppo, i lavoratori, la crescita, etc.)

Bene, allora, in queste caldissime giornate di mezza estate, ho pensato di ridare vita ad una rubrichetta che in altri tempi avevo chiamato Babele (vedansi i post Babele e Babele 2 del lontano febbraio/marzo 2017), appunto, per considerare insieme quando le parole (o le espressioni fatte di più parole) non hanno mai avuto (i polifonemi, appunto) o hanno via via perso il loro significato, o – più spesso – l’hanno talmente adulterato da non essere più utilizzabili per capirsi (non a caso nel capitolo 11 del Genesi la regione di Sinar  divenne Babele – dall’ebraico balal che vuol dire confondere – quando Dio ne volle, appunto, confondere la lingua, cioè, per dirla con de Saussure, disconnettere i significanti dai significati).

Dedichiamo allora questo nuovo capitoletto della nostra Babele ad una delle più abusate espressioni del nostro linguaggio corrente (specie in quello politicante, vedasi il bel libro del linguista Giuseppe Antonelli Volgare eloquenza – Come le parole hanno paralizzato la politica, qui segnalato in Letture del 19 maggio 2017): fare squadra.

Tratta dal linguaggio degli allenatori di calcio (o di basket o di volley), l’espressione, così tanto ricorrente nel vano cicaleccio dei nostri politicanti, ne tradisce la cultura: mi sentirei di escludere che, presso di loro, l’ispirazione del concetto affondi le sue origini in Omero (Lieve è l’oprar se in molti è condiviso); e mi viene più facile rintracciarla nelle “storiche” frasi di Lippi o di Capello o di Bearzot o di altri grandi della nostra “cultura”, senza escludere l’influsso di culture esotiche, talora dal senso inquietante (i bastoni in un fascio sono infrangibili, dice un proverbio Keniota). Il fatto è che il fare squadra per essere più efficaci postula che la squadra non sia fatta di brocchi (tanto per stare al linguaggio corrente e alle sue “fonti migliori”: undici calciatori del mio livello non farebbero un Cristiano Ronaldo, quand’anche facessimo squadra); e chi ha praticato con soddisfazione questa filosofia di management delle risorse umane, sicuramente ha avuto presente anche il principio (inseparabile da quella “filosofia”) che, nello scegliere le risorse per un vincente sforzo comune, occorre sceglierle fra le migliori (scegli fra i tuoi collaboratori chi è più bravo di te, mi sono sempre detto quando lavoravo, avendo presente che in fondo non chiedevo… una cosa difficile).

Concludendo: tolleriamola pure questa frase fatta (l’ha anche usata, sia pure per confessare la nostra incapacità di fare squadra, il nostro amato Presidente della Repubblica) ma solo ad una condizione: che i coalizzati nella invocata squadra non siano dei brocchi, perché altrimenti meglio far danni da soli.

Orbetello, 28 luglio 2020 

 

 

 

venerdì 24 luglio 2020

La banalità è il male

Proposta per un test di laboratorio

(di Felice Celato)

Altre volte, su queste pagine, mi è capitato di citare La banalità del male, di Hannah Arendt, uno dei più “intelligenti” libri del ‘900 (a mio giudizio, ovviamente; basato sul significato etimologico di “intelligente”, in latino intellegens, che capisce, participio presente del verbo latino intellego, capisco). Anzi, oltre 4 anni fa, avevo intitolato un post col gioco di parole Il male della banalità.

Mi tornavano in mente, queste riflessioni, mentre scorrevo annoiato i commenti coi quali questo sciagurato paese ha accolto l’approvazione del famoso Recovery Fund (o Next generation EU); con le debite ed onorevoli eccezioni (da Monti a Cottarelli, per esempio), i commenti sono per lo più improntati al canto di peana (inni alla vittoria, in questo caso assolutamente incongrui), agli slogan più …banali e grossolani (fregatura grossa come una casa, rischi di commissariamento, etc) o alle “pagelle” dei negoziatori in analogia con quelli dei calciatori che circolano dopo la partita sui quotidiani sportivi (8 a Ibra, 5 al Papu Gomez, etc).

Bene: credo di aver trovato, dopo sofferte ricerche che mi hanno… lacerato per mesi, un’ espressione omnicomprensiva dei nostri mali: la banalità è il nostro male! Senza esserne coscienti (forse!), magari solo per un’incongrua adorazione della cosiddetta semplicità divenuta semplicismo, in spregio della crescente complessità del reale, siamo diventati un paese dove la banalità (dei discorsi, delle opinioni e delle contro-opinioni, dei metri di giudizio, degli intendimenti e persino dei sentimenti) ha preso un campo di cui non si spiega la vastità col solo pessimo influsso di alcuni social media

Credo di aver già citato qui una fulminante “sentenza” di Karl Kraus: “Il pensiero è ciò che manca ad una banalità per essere un pensiero”. E dunque se abbonda la banalità è perché manca il pensiero (cioè, dice il Dizionario Treccani, la facoltà del pensare, cioè l'attività psichica mediante la quale l’uomo acquista coscienza di sé e della realtà che considera come esterna a sé stesso; proprio dell'uomo, lo differenzia dagli altri esseri viventi permettendogli di cogliere valori universali, di costruire nuovi modelli che trascendono i limiti spazio-temporali della percezione sensibile, di formarsi una coscienza di quello che sperimenta nella sua interiorità e nella realtà esterna).

Del resto, se proviamo (sempre col prezioso aiuto del Dizionario Treccani, che spesso ci fa compagnia nelle nostre peregrinazioni fra le parole) ad esplorare il significato dell’aggettivo banale che sta alla base del concetto di banalità, non faremo fatica a riconoscere quei caratteri che ne fanno, in qualche modo, l’antitesi del pensiero: Banale: aggettivo… - 1. privo di originalità o di particolare interesse, quindi comune, ovvio, scontato, e simili: discorso, frase, complimento banale; giudizi banali; un romanzo, una commedia, un film banali; con un banale pretesto; fare, condurre una vita banale, un’ esistenza banale, piatta, uniforme (o, nell’ esistenzialismo, inautentica). Si usa anche con significato oggettivo e non spregiativo riferito a modi, espressioni tecniche, ecc., privi di originalità o di eccezionalità in quanto ormai noti ed estesi all’uso comune: parole, locuzioni banali, un banale procedimento; o a fatti di scarso conto, di scarso rilievo, insignificanti per sé stessi.

Ora, supponendo – per gentile concessione dei miei ventiquattro lettori – che questa “diagnosi” sia provvisoriamente convincente, facciamo – per scrupolo diagnostico – un test di laboratorio per valutarne l’occorrenza nel nostro paziente; facciamo cioè l'esercizio di ri-leggere, in questa chiave e con faticosa attenzione, il dibattito politico (e, devo supporre, il corrispondente opinionare diffuso) su quanto dicevo all'inizio (l'approvazione del Recovery Fund), sulle “illuminate” intenzioni dei nostri eletti e sulle “illuminanti” aspettative dei loro elettori: se ne usciremo confortati, la “diagnosi” è infondata e, per dirla con Kraus, c’è in giro sostanza di pensiero; possiamo stare tranquilli. Se ne usciremo sconfortati, ahinoi!, è la banalità il nostro male; in questo caso la prognosi sarà doverosamente riservata.

Roma 24 luglio 2020 (vigilia di una storica ricorrenza)

 

 

 

 

 

domenica 19 luglio 2020

Stupi-diario dei dibattiti lunari

Condizionalità

(di Felice Celato)

Se c’è un difetto intellettuale (fra i tanti altri, non solo intellettuali) che, a detta di mia moglie, mi caratterizza è quello di non saper spiegare con parole semplici alcuni concetti che, essendomi familiari per ragioni di storia professionale, do – ingiustamente e forse arrogantemente – per scontati nell’altrui cultura. E devo ammettere che, come sempre, mia moglie vede ( …quasi sempre e per semi-secolare consuetudine)  più lucidamente di me i miei limiti.

Dunque, nell’intento di apparire un po' migliore a mia moglie, mi provo a spiegare con un esempio un tema che mi pare tenga il campo nei lunari dibattiti sulle attese (e per molti aspetti storiche) misure che l’UE potrebbe assumere per fronteggiare a livello europeo gli effetti della famosa pandemia: le deprecate “condizionalità” che molti vorrebbero apporre alle erogazioni ipotizzate da tali misure. [Della natura altrettanto lunare del dibattito sulla proporzione ideale fra erogazioni “a fondo perduto” e prestiti, credo di aver già fatto cenno in un precedente post del 20 giugno scorso dal titoletto scherzoso Anche il C.U.R. finalmente capisce. Unica soddisfazione: mia moglie se ne era detta soddisfatta e forse anche un po' divertita].

Bene: supponiamo che, in un triste mattino, si presenti da voi un vostro amico, a voi ben noto e caro, anzi da voi anche amato per la sua bellezza, la sua storia (magari non proprio recente), la sua vitalità talora un po' dissennata ma sempre simpatica; e che questo amico – commosso fino alle lacrime – vi confessi di avere dei seri problemi finanziari per fronteggiare un bisogno concreto, imprevisto e notevole per dimensioni (che, del resto, anche voi conoscete bene); e che, infine, viste le sue difficoltà ad accedere ai mercati dei prestiti, vi chieda di prestare la vostra garanzia per fargli ottenere quei soldi di cui abbisogna. Voi conoscete bene le sue virtù, tante volte avete goduto della sua ospitalità nei suoi bellissimi possedimenti, nei quali avete trovato tanto spesso, non solo riposo, ma anche divertimento, buon cibo e molti prodotti che mai avreste supposto fosse in grado di produrre; ma sapete anche i suoi difetti: una certa pigrizia, una notevole dissennatezza nell’uso delle sue ricchezze, una grande self-indulgence, una crescente propensione a contrarre debiti senza alcun effettivo intendimento di autolimitarsi, non ostanti i suoi ripetuti e sbandierati propositi al riguardo. 

Ma il vostro amico vi è troppo caro per negargli un aiuto; e poi, avere un buon amico come lui vi ha sempre giovato, sia – come dicevo – per i vostri sollazzi sia per le tante cose che, pure, sa fare; e sia anche per le tante cose che di solito compra proprio da voi. E dunque accettate di accompagnarlo in banca e, lì, di stipulare un debito a nome congiunto – suo e vostro – per consentirgli quell’accesso a risorse finanziarie che, altrimenti, gli sarebbero precluse o gli costerebbero una fortuna. Col vostro nome fra i debitori, la banca accetterà senz’altro di concedere, a condizioni vantaggiose, il credito al vostro amico, contando sul fatto che comunque – per quanto dissennato possa apparire e magari abbia dimostrato di essere il vostro amico – ci sareste comunque voi a garantire che i soldi dei clienti della banca (cioè di coloro che vi hanno depositato i loro risparmi) torneranno nella casse della banca stessa man a mano che l’uso di essi avrà consentito al vostro amico di riprendersi dalle sue difficoltà.

Ora vi domando: voi – in un teorico caso del genere – fareste quanto ho appena cercato di semplificare al massimo, senza pretendere di avere un occhio su che cosa egli realmente farà dei denari così conseguiti; e senza pretendere che ve ne renda conto a mano a mano che li utilizzerà? Io, che forse sono un arido ex-uomo di finanza, francamente non saprei supporre in me una generosità tale da negarmi anche queste cautele; nell’interesse del mio amico ma anche della mia famiglia che si troverà gravata dal rischio di dovere far fronte, con suoi mezzi, alle eventuali e non nuove mattane dell’amico. 

Comunque, sapendo di che impasto è composto l’uomo, conto molto sul fatto che nessuno dei miei amici – tutti assai più assennati dell’ipotetico vostro – voglia effettivamente mettere alla prova la mia generosità; e soprattutto sul fatto che nessuno di essi (né io nei loro confronti) abbia mai bisogno di farlo.

Se ho banalizzato troppo, la colpa è di mia moglie!

Roma 19 luglio 2020

 

lunedì 13 luglio 2020

Panpatìa

Parole e polvere

(di Felice Celato)

Come (tristemente) noto, la pandemìa (da pan, tutto, + dèmos, popolo) è un’epidemia estesa su vastissimi territori (e quindi su popolazioni diverse e spesso anche lontane); in sostanza la parola pandemìa, spiega la Treccani, è un rifacimento di epidemìa secondo l’aggettivo greco πανδμιος cioè “di tutto il popolo”, da cui anche Pandèmio che era l’epiteto di Eros ed Afrodite, in quanto divinità dell’amore sessuale (notoriamente… diffuso e popolare).

Ora, qui da noi, di essa pandemìa ormai tutti sappiamo tutto e perciò nulla aggiungerò (se avete dei dubbi sulla onniscienza nazionale in materia, provate ad interrogare un passante qualunque, per esempio, su droplets e sanificazioni). Mi pare però che nel nostro paese, che pure così tanto primeggia fra i più colpiti da Covid nel mondo [secondo miei calcoli su dati WHO e Protezione Civile, addirittura in Lombardia si sarebbero superati i 1650 morti per ogni milione di abitanti! Per intenderci: il doppio del dato del Belgio, paese, mi pare, primo al mondo per densità pandemica; e 14 volte quello del tanto temuto Bangladesh], nel nostro paese, dicevo, in parallelo mi pare stia dilagando un’altra infezione, questa meno recente, anzi forse endemica (Treccani: propria di un determinato territorio) perché riflessiva di un carattere per così dire etnico (inutile fare esempi tratti dalla storia) ma, alla lunga, non meno pericolosa della pandemìa che ci percuote: la panpatìa. E che cosa sarebbe (nel mio personale dizionario) la panpatìa?

La pan-patìa (da pan + pathos, emozione) è – ripeto: nel mio personale dizionario – una diffusa ipertimìa (Treccani: esagerazione del tono affettivo con impronta ora nettamente euforica ora depressiva) con manifestazioni teatrali (in senso psichiatrico) ed effetti psicomotori e (ahinoi!) politico-dinamici, nel senso che la panpatìa agita (ed è agitata da) motivazioni politiche. Fateci caso: non c’è materia, nel nostro “dibattito” socio-politico, che non sia pervasa da una forte e dominante connotazione emozionale che sembra sorreggere (e di fatto sorregge) ogni decisione (sarebbe più cauto dire: ogni enunciato di decisione “salvo intese”); non solo, si badi bene, nel momento critico in cui tale decisione viene esternata al popolo mediaticamente sovrano (a riprova di ciò che il decisore pensa di esso), ma persino nel momento in cui viene discussa (a monito di ciò che il decisore dovrebbe pensare di sé stesso) là dove dovrebbe essere assunta (chi non ci crede, ascolti per una volta attentamente un qualsiasi dibattito parlamentare, pressoché quotidianamente trasmessi da Radio Radicale; oppure si riguardi qualche video di sceneggiate ostentative spesso organizzate persino in Parlamento, appunto con ostensioni di cartellonistica a beneficio di telecamere). Tutto è emozione, sdegno, ripulsa o rivalsa, commozione, enunciazione di solidarietà e vicinanza, entusiasmo, deprecazione, infantile auto-compiacimento o altrui colpevolizzazione, etc.; tutto, da una revoca di concessione autostradale, alle “condizioni” dei prestiti comunitari, alla vendita di fregate, alla politica dell’immigrazione a quella della giustizia, etc.; e perciò tutto va gridato, pro-clamato (gridato davanti), asserito in tono perentorio ed eccitato, a coltivazione della demofollia (copyright: Michele Ainis, qui già segnalato).

A questa fiera delle emozionalità non manca – naturalmente – l’apporto decisivo dei media (quelli social, senz’altro; ma anche quelli tradizionali, traboccanti di righe e di parole pietistiche e spesso anch’esse pietose). Della ragione (del logos, umana misura del Logos) rimane traccia in qualche editoriale (Panebianco, Cottarelli, De Bortoli, S. Rossi, De Romanis, Cassese, Mingardi, etc); e rimarrà traccia sopra le polverose rovine della panpatìa. Come sempre: spero di sbagliare.

Roma 13 luglio 2020 (vigilia dell’anniversario della presa della Bastiglia)

 

 

mercoledì 8 luglio 2020

Divagazioni letterarie

Considerazioni di un lettore dilettante

(di Felice Celato)

In questo tempo così bisognoso di evasione, una fortunata coincidenza mi ha dato il modo di avventurami – io, lettore avido ed esigente ma assolutamente “non per professione” – su un tema che da sempre mi affascina.

La coincidenza: ho intrapreso la ri-lettura di quel bellissimo romanzo che è In nome della rosa di Umberto Eco, lettura alternata con altre e più maneggevoli, in ragione del peso fisico del volumone di Eco (edizione Bompiani, 2019, 700 fitte pagine, per intenderci) e perché, in fondo, si tratta appunto di una ri-lettura, intesa non alla ri-scoperta di una trama ma al puro godimento dello scritto, lento e densissimo. Poi accade che mia figlia ci raccomanda la appassionante lettura de Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Anche qui: volume molto corposo, non adatto per i comodi del lettore steso sul letto. E dunque “scarico” il testo in e-book, più maneggevole nelle calde notti del luglio romano; e l’edizione “scaricata” è preceduta da un bellissimo saggio di Umberto Eco, ricco di considerazioni che mi piace commentare coi miei ventiquattro lettori.

Umberto Eco, da raffinato letterato e semiologo, svolge delle considerazioni, secondo me molto acute, sulla tecnica narrativa dell’autore del Montecristo e, più in generale sulla narrazione come genere letterario. [Apro una parentesi: Milan Kundera, in un bellissimo saggio pubblicato da Adelphi nel 1988, L’arte del romanzo, ripete un concetto già suo: Un romanzo non è una confessione dell'autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato. E su questo concetto mi sono più volte ritrovato nel giudicare i tanti romanzi letti: non una confessione dell’autore, non un luogo per esibizioni stilistiche o per narcisistici virtuosismi dell’autore, ma – appunto – un’esplorazione dell’esistenza. E, come ogni esplorazione, esige un percorso, una trama; perché è il percorso che dà il senso all’esplorazione e alla difficoltà dell’esplorato. Così, per esempio, si può anche dubitare che Isaac o Israel Singer, o Joseph Roth o Alexander Lernet-Holenia siano dei grandi letterati, ma non si può dubitare che siano degli straordinari narratori, capaci di avvincere il lettore anche quando narrano di ambienti remoti nel tempo o nello spazio (si pensi, per esempio, a Il mago di Lublino). Mi rendo conto che queste considerazioni sottolineano la “non professionalità” del lettore (e non me ne preoccupo affatto); ma ad esse riconnetto “l’utilità” del tempo impiegato a leggere romanzi: si legge un romanzo anche per capire “dove” con-viviamo: il romanzo che non scopre una porzione dell’esistenza fino ad allora ignota è immorale, dice paradossalmente Kundera: la conoscenza è la sola morale del romanzo.]

Ora, scrive Umberto Eco dopo aver messo a nudo certe estese indulgenze narrative di Dumas, il Montecristo…. ci dice che, se narrare è un'arte, le regole di quest’arte sono diverse da quelle di altri generi letterari. E che forse si può narrare, e fare grande narrativa, senza fare necessariamente quel che la sensibilità moderna chiama un'opera d'arte ….perché la funzione fabulatrice…. forse non è così direttamente connessa alla funzione estetica

E – è sempre Eco che scrive – Montecristo è falso e bugiardo come tutti i miti, veri di una loro verità viscerale. Capace di appassionare anche chi conosca le regole della narrativa popolare e si accorga quando il narratore prende il proprio pubblico ingenuo per le viscere. Perché si avverte che, se c'è manipolazione, il gesto manipolatorio ci dice pur sempre qualcosa sulla fisiologia delle nostre viscere: e quindi una grande macchina della menzogna in qualche modo dice il vero.

Bene: sulla scorta di queste dotte considerazioni, continuerò a ri-leggere In nome della rosa a piccole dosi quotidiane sul divano; e, invece, forse, divorerò Il conte di Montecristo comodamente sdraiato prima di addormentarmi.

Roma 8 luglio 2020

giovedì 2 luglio 2020

I venti e il mare

Emozioni, semplici emozioni

(di Felice Celato)

La prima metà di quest’anno orribile se n’è già andata senza risparmiarci affanni, nuovi ed antichi. Mentre sembra scendere (a coda di topo, si direbbe negli ambienti che ho tanto a lungo frequentato) l’impatto pandemico diretto sul nostro fragile paese, cresce invece a proboscide di elefante (stesso linguaggio, stessi ambienti) l’impatto socio-economico del post-pandemia, nella speranza che di "post" si tratti e non di una tragica pausa.

Confesso che, se all’inizio di questa vicenda non mi ero aspettato una tale profondità dell’impatto sanitario, l’ampiezza di quello socio-economico mi era parsa chiara fin dall’inizio; e ciò non certo per particolari doti di preveggenza, ma per il semplice motivo che un paese-colibrì (copyright mio, con qualche debito verso il romanzo di Sandro Veronesi, cfr. post del 19 giugno 2020), così concentrato nel restare fermo a mezz’aria, una società così priva di intenzionalità collettiva (copyright: De Rita) come la nostra, mi sono parsi strutturalmente privi degli stamina necessari per trarsi fuori dai guai. Certamente, per la dimensione che ha assunto, il problema post-covid non è solo nostro; e ciascuno avrà i suoi problemi per tirarsene fuori. Ma – spero di sbagliarmi – i nostri saranno più grevi (sic, grevi!) e più incidenti nel corpo della nostra società; sia per le condizioni di partenza, sia in ragione della nostra attuale identità asistemica (copyright: De Rita), sia per le fratture della nostra collettività, sia, infine, per la nostra profonda difficoltà a fare i conti con la realtà. Vedremo.

Dunque, mentre stavo amaramente ruminando questi pensieri, proprio l’altro ieri mi è capitata sotto gli occhi la pericope di Matteo (8,23-27) sottopostaci dal Messale quotidiano del tempo ordinario e pressoché identica in Marco (4, 35-41) e in Luca (8, 22-25). E’ uno dei passi dei tre Sinottici nei quali la salvezza si declina (anche)  in termini “mondani”: Maestro, non t’importa che siamo perduti? (Mc 4,38). Il Signore è qui, anche quando, semplicemente, la barca sembra essere travolta dalle onde; e Lui sembra addormentato.

La magnifica omelia del p. De Bertolis nel giorno di San Pietro e Paolo (chiesa del Gesù, ore 10), fra le altre, esponeva una riflessione “strana”,  che mi ha colpito: in fondo – diceva più o meno il predicatore – nella famosa frase “Tu sei Pietro e su questa pietra…etc” c’è racchiusa la storia straordinaria di Roma, il luogo dove, abbandonata la terra d’Israele, Pietro e Paolo, sospinti dallo Spirito, sono venuti a far crescere la Chiesa, cattolica, apostolica e romana. Nelle mie cupe riflessioni sul nostro tempo, mi è parso di potermi dire che questa nostra vocazione storica non può essere dimenticata dal Signore del Tempo. E allora, caduto l’impero Romano, trasformato in un cumolo di rovine, il nostro faro è restato acceso, nonostante le ingiurie dei tempi e le  incurie degli uomini. E per quanto temibili, anche i nuovi barbari non praevalebunt.

Chiedo scusa ai miei lettori per questa confusa ondata di emozioni, nella quale, come in ogni emozione, i piani dei concetti si mescolano e si confondono; per una volta (forse, per la verità, non proprio unica) mi sono abbandonato pubblicamente ad essa. E mi è restato in mente l’emozionato stupore dei poveri pescatori del mare di Galilea: Chi è mai costui che perfino i venti e il mare gli obbediscono?

 

Roma, 2 luglio 2020