Considerazioni di un lettore dilettante
(di Felice Celato)
In questo tempo così bisognoso di evasione, una fortunata coincidenza mi ha dato il modo di avventurami – io, lettore avido ed esigente ma assolutamente “non per professione” – su un tema che da sempre mi affascina.
La coincidenza: ho intrapreso la ri-lettura di quel bellissimo romanzo che è In nome della rosa di Umberto Eco, lettura alternata con altre e più maneggevoli, in ragione del peso fisico del volumone di Eco (edizione Bompiani, 2019, 700 fitte pagine, per intenderci) e perché, in fondo, si tratta appunto di una ri-lettura, intesa non alla ri-scoperta di una trama ma al puro godimento dello scritto, lento e densissimo. Poi accade che mia figlia ci raccomanda la appassionante lettura de Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Anche qui: volume molto corposo, non adatto per i comodi del lettore steso sul letto. E dunque “scarico” il testo in e-book, più maneggevole nelle calde notti del luglio romano; e l’edizione “scaricata” è preceduta da un bellissimo saggio di Umberto Eco, ricco di considerazioni che mi piace commentare coi miei ventiquattro lettori.
Umberto Eco, da raffinato letterato e semiologo, svolge delle considerazioni, secondo me molto acute, sulla tecnica narrativa dell’autore del Montecristo e, più in generale sulla narrazione come genere letterario. [Apro una parentesi: Milan Kundera, in un bellissimo saggio pubblicato da Adelphi nel 1988, L’arte del romanzo, ripete un concetto già suo: Un romanzo non è una confessione dell'autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato. E su questo concetto mi sono più volte ritrovato nel giudicare i tanti romanzi letti: non una confessione dell’autore, non un luogo per esibizioni stilistiche o per narcisistici virtuosismi dell’autore, ma – appunto – un’esplorazione dell’esistenza. E, come ogni esplorazione, esige un percorso, una trama; perché è il percorso che dà il senso all’esplorazione e alla difficoltà dell’esplorato. Così, per esempio, si può anche dubitare che Isaac o Israel Singer, o Joseph Roth o Alexander Lernet-Holenia siano dei grandi letterati, ma non si può dubitare che siano degli straordinari narratori, capaci di avvincere il lettore anche quando narrano di ambienti remoti nel tempo o nello spazio (si pensi, per esempio, a Il mago di Lublino). Mi rendo conto che queste considerazioni sottolineano la “non professionalità” del lettore (e non me ne preoccupo affatto); ma ad esse riconnetto “l’utilità” del tempo impiegato a leggere romanzi: si legge un romanzo anche per capire “dove” con-viviamo: il romanzo che non scopre una porzione dell’esistenza fino ad allora ignota è immorale, dice paradossalmente Kundera: la conoscenza è la sola morale del romanzo.]
Ora, scrive Umberto Eco dopo aver messo a nudo certe estese indulgenze narrative di Dumas, il Montecristo…. ci dice che, se narrare è un'arte, le regole di quest’arte sono diverse da quelle di altri generi letterari. E che forse si può narrare, e fare grande narrativa, senza fare necessariamente quel che la sensibilità moderna chiama un'opera d'arte ….perché la funzione fabulatrice…. forse non è così direttamente connessa alla funzione estetica.
E – è sempre Eco che scrive – Montecristo è falso e bugiardo come tutti i miti, veri di una loro verità viscerale. Capace di appassionare anche chi conosca le regole della narrativa popolare e si accorga quando il narratore prende il proprio pubblico ingenuo per le viscere. Perché si avverte che, se c'è manipolazione, il gesto manipolatorio ci dice pur sempre qualcosa sulla fisiologia delle nostre viscere: e quindi una grande macchina della menzogna in qualche modo dice il vero.
Bene: sulla scorta di queste dotte considerazioni, continuerò a ri-leggere In nome della rosa a piccole dosi quotidiane sul divano; e, invece, forse, divorerò Il conte di Montecristo comodamente sdraiato prima di addormentarmi.
Roma 8 luglio 2020
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