Fare squadra
(di Felice Celato)
I miei ventiquattro lettori sanno bene della mia “mania” per i numeri; ma non per i numeri in sé, che da soli non significano nulla (tre sono le Persone della Trinità ma anche tre sono le dee fra le quali Paride scelse la più bella); bensì per quello che significano quando esprimono una quantità di qualcosa; la quantità da’ (quasi sempre) il senso alla qualità: come amo ripetere – forse troppo? – un bicchiere d’acqua disseta, un’alluvione travolge, la quantità dell’acqua ne muta la natura, da benefica a tragica; e non a caso, citando Giovenale, più volte li ho intrattenuti con la rubrichetta Defendit numerus, il numero difende (dagli abbagli).
Ma sanno anche – sempre i miei ventiquattro lettori – che amo molto anche le parole (ne sono una prova le molte – troppe? – divagazioni sul dizionario), quando esprimono un significato (dal latino: signum facere, far segno di qualcosa), un senso o anche un sentimento, quando, cioè, non hanno perduto la loro funzione semantica, quando significano ancora qualcosa e questo qualcosa è ciò che si vuol precisamente dire. Le amo tanto le parole che, come mi è stato affettuosamente rimproverato, mi concedo fin troppi (scherzosi) sconfinamenti nell’ onomaturgia (fabbricazione di parole), da statolatria alla recentissima panpatìa; anzi, per venire al nostro tema di oggi, in questa vena onomaturgica, molti anni fa (cfr. Stupi-diario linguistico del 6 aprile 2013) avevo proposto la neo-parola polifonema, per dire di un assemblaggio di suoni linguistici elementari privi di autonomo significato (appunto i fonemi, in linguistica) per formare suoni più complessi ma egualmente privi di significato (per esempio: ambarabàciccìcoccò, o, in politica, prevalentemente nei programmi di sinistra, mettere al centro qualcosa, chessò lo sviluppo, i lavoratori, la crescita, etc.)
Bene, allora, in queste caldissime giornate di mezza estate, ho pensato di ridare vita ad una rubrichetta che in altri tempi avevo chiamato Babele (vedansi i post Babele e Babele 2 del lontano febbraio/marzo 2017), appunto, per considerare insieme quando le parole (o le espressioni fatte di più parole) non hanno mai avuto (i polifonemi, appunto) o hanno via via perso il loro significato, o – più spesso – l’hanno talmente adulterato da non essere più utilizzabili per capirsi (non a caso nel capitolo 11 del Genesi la regione di Sinar divenne Babele – dall’ebraico balal che vuol dire confondere – quando Dio ne volle, appunto, confondere la lingua, cioè, per dirla con de Saussure, disconnettere i significanti dai significati).
Dedichiamo allora questo nuovo capitoletto della nostra Babele ad una delle più abusate espressioni del nostro linguaggio corrente (specie in quello politicante, vedasi il bel libro del linguista Giuseppe Antonelli Volgare eloquenza – Come le parole hanno paralizzato la politica, qui segnalato in Letture del 19 maggio 2017): fare squadra.
Tratta dal linguaggio degli allenatori di calcio (o di basket o di volley), l’espressione, così tanto ricorrente nel vano cicaleccio dei nostri politicanti, ne tradisce la cultura: mi sentirei di escludere che, presso di loro, l’ispirazione del concetto affondi le sue origini in Omero (Lieve è l’oprar se in molti è condiviso); e mi viene più facile rintracciarla nelle “storiche” frasi di Lippi o di Capello o di Bearzot o di altri grandi della nostra “cultura”, senza escludere l’influsso di culture esotiche, talora dal senso inquietante (i bastoni in un fascio sono infrangibili, dice un proverbio Keniota). Il fatto è che il fare squadra per essere più efficaci postula che la squadra non sia fatta di brocchi (tanto per stare al linguaggio corrente e alle sue “fonti migliori”: undici calciatori del mio livello non farebbero un Cristiano Ronaldo, quand’anche facessimo squadra); e chi ha praticato con soddisfazione questa filosofia di management delle risorse umane, sicuramente ha avuto presente anche il principio (inseparabile da quella “filosofia”) che, nello scegliere le risorse per un vincente sforzo comune, occorre sceglierle fra le migliori (scegli fra i tuoi collaboratori chi è più bravo di te, mi sono sempre detto quando lavoravo, avendo presente che in fondo non chiedevo… una cosa difficile).
Concludendo: tolleriamola pure questa frase fatta (l’ha anche usata, sia pure per confessare la nostra incapacità di fare squadra, il nostro amato Presidente della Repubblica) ma solo ad una condizione: che i coalizzati nella invocata squadra non siano dei brocchi, perché altrimenti meglio far danni da soli.
Orbetello, 28 luglio 2020
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