lunedì 13 luglio 2020

Panpatìa

Parole e polvere

(di Felice Celato)

Come (tristemente) noto, la pandemìa (da pan, tutto, + dèmos, popolo) è un’epidemia estesa su vastissimi territori (e quindi su popolazioni diverse e spesso anche lontane); in sostanza la parola pandemìa, spiega la Treccani, è un rifacimento di epidemìa secondo l’aggettivo greco πανδμιος cioè “di tutto il popolo”, da cui anche Pandèmio che era l’epiteto di Eros ed Afrodite, in quanto divinità dell’amore sessuale (notoriamente… diffuso e popolare).

Ora, qui da noi, di essa pandemìa ormai tutti sappiamo tutto e perciò nulla aggiungerò (se avete dei dubbi sulla onniscienza nazionale in materia, provate ad interrogare un passante qualunque, per esempio, su droplets e sanificazioni). Mi pare però che nel nostro paese, che pure così tanto primeggia fra i più colpiti da Covid nel mondo [secondo miei calcoli su dati WHO e Protezione Civile, addirittura in Lombardia si sarebbero superati i 1650 morti per ogni milione di abitanti! Per intenderci: il doppio del dato del Belgio, paese, mi pare, primo al mondo per densità pandemica; e 14 volte quello del tanto temuto Bangladesh], nel nostro paese, dicevo, in parallelo mi pare stia dilagando un’altra infezione, questa meno recente, anzi forse endemica (Treccani: propria di un determinato territorio) perché riflessiva di un carattere per così dire etnico (inutile fare esempi tratti dalla storia) ma, alla lunga, non meno pericolosa della pandemìa che ci percuote: la panpatìa. E che cosa sarebbe (nel mio personale dizionario) la panpatìa?

La pan-patìa (da pan + pathos, emozione) è – ripeto: nel mio personale dizionario – una diffusa ipertimìa (Treccani: esagerazione del tono affettivo con impronta ora nettamente euforica ora depressiva) con manifestazioni teatrali (in senso psichiatrico) ed effetti psicomotori e (ahinoi!) politico-dinamici, nel senso che la panpatìa agita (ed è agitata da) motivazioni politiche. Fateci caso: non c’è materia, nel nostro “dibattito” socio-politico, che non sia pervasa da una forte e dominante connotazione emozionale che sembra sorreggere (e di fatto sorregge) ogni decisione (sarebbe più cauto dire: ogni enunciato di decisione “salvo intese”); non solo, si badi bene, nel momento critico in cui tale decisione viene esternata al popolo mediaticamente sovrano (a riprova di ciò che il decisore pensa di esso), ma persino nel momento in cui viene discussa (a monito di ciò che il decisore dovrebbe pensare di sé stesso) là dove dovrebbe essere assunta (chi non ci crede, ascolti per una volta attentamente un qualsiasi dibattito parlamentare, pressoché quotidianamente trasmessi da Radio Radicale; oppure si riguardi qualche video di sceneggiate ostentative spesso organizzate persino in Parlamento, appunto con ostensioni di cartellonistica a beneficio di telecamere). Tutto è emozione, sdegno, ripulsa o rivalsa, commozione, enunciazione di solidarietà e vicinanza, entusiasmo, deprecazione, infantile auto-compiacimento o altrui colpevolizzazione, etc.; tutto, da una revoca di concessione autostradale, alle “condizioni” dei prestiti comunitari, alla vendita di fregate, alla politica dell’immigrazione a quella della giustizia, etc.; e perciò tutto va gridato, pro-clamato (gridato davanti), asserito in tono perentorio ed eccitato, a coltivazione della demofollia (copyright: Michele Ainis, qui già segnalato).

A questa fiera delle emozionalità non manca – naturalmente – l’apporto decisivo dei media (quelli social, senz’altro; ma anche quelli tradizionali, traboccanti di righe e di parole pietistiche e spesso anch’esse pietose). Della ragione (del logos, umana misura del Logos) rimane traccia in qualche editoriale (Panebianco, Cottarelli, De Bortoli, S. Rossi, De Romanis, Cassese, Mingardi, etc); e rimarrà traccia sopra le polverose rovine della panpatìa. Come sempre: spero di sbagliare.

Roma 13 luglio 2020 (vigilia dell’anniversario della presa della Bastiglia)

 

 

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