martedì 28 gennaio 2014

Segnalazioni

Il Nazareno
(di Felice Celato)
Non ho passione alcuna per il tema che, invece, sembra appassionare gli Italiani  (o meglio: i loro politicanti) in questo periodo: sono infatti convinto che è la qualità del tessuto culturale e sociale di un Paese che fa buono o cattivo il sistema elettorale con il quale ci si confronta alle elezioni; e non il contrario, come si finge di credere quando ci si arrabatta per costruire (o per impedire la costruzione di) strumenti che rispondano alle esigenze politiche a breve dei cosiddetti legislatori. E credo che, ferma l’esigenza di averne uno, di sistema elettorale, comunque e subito, l’esperienza degli ultimi trent’anni Italiani costituisca la migliore conferma di questa mia scettica convinzione, certamente non frutto di positive aspettative.
Anche per questo (ma certamente non solo per questo!) ho passato molte ore in questi giorni (e in queste notti), piuttosto che a leggere di sbarramenti e soglie minime, fra le tante pagine di un libro denso e commovente che mi sento di segnalare ai lettori tenaci: Il Nazareno, di Sholem Asch (Castelvecchi), lo scrittore ebreo che ho scoperto da poco (anche se è morto da oltre mezzo secolo) e del quale abbiamo brevemente parlato a proposito de L’Apostolo, la straordinaria biografia di San Paolo segnalata in un post di qualche tempo fa.
Anche Il Nazareno, pur essendone non nuova la formula, è un libro straordinario, perché – con un lieve artifizio narrativo – riesce a riproporre il testo (rispettoso e commosso) di un’unitaria biografia di Gesù, riletta attraverso gli occhi di tre originali ri-narratori: un goy tipicamente romano (il braccio destro di Pilato), e due ebrei, Giuda Iscariota e Giovanni, un giovane fariseo –quest’ultimo–  affascinato dalla persona del Nazareno. Ne viene fuori un racconto largamente fedele – nella sostanza – all’originale, o, meglio, agli originali testi sacri della nostra religione, ma in realtà intriso di prospettive culturali estranee al contesto cristiano ma da questo profondamente toccate.
Inutile dire di più sulla storia narrata; menziono solo due o tre cose: la bellissima parte dedicata al periodo del “nascondimento” di Gesù (praticamente dall’infanzia ai 30 anni della sua vita), quando la coscienza della Sua missione prende corpo nel giovane uomo (un tema analogo, lo ricorderanno i lettori di questo blog, è sviluppato, forse in maniera anche più suggestiva, da Eric Emmanuel Schmitt ne Il Vangelo secondo Pilato); le bellissime figure di Giuseppe D’Arimatea e di Nicodemo, i capi farisei affascinati da Gesù; e, infine, la ri-lettura delle dinamiche del processo, ovviamente in chiave ebraica e anti-sadducea ma certamente compatibile con la letteratura cristiana specialistica (vedasi, per tutte, l’opera interessantissima di Josef Blinzler: Il Processo a Gesù, di molti anni fa). Il tutto, condito da larghi scorci di contestualizzazione geografica, storica e culturale e da una verve narrativa estremamente efficace.
Un solo ulteriore commento sulla struttura della affascinante sensibilità “cristiana” di questo scrittore ebreo che molto dovette patire, in vita, per essere apparso, a suoi, fin troppo attratto dalla religione “figlia” dell’ebraismo: come del resto aveva fatto ne L’Apostolo (anzi qui con inevitabile maggior rilievo), Scholem Asch torna a sfiorare anche ne Il Nazareno il tema della “continuità” religiosa fra ebraismo e cristianesimo, arrivando a sintetizzarne l’essenza così: “L’unica differenza fra noi e loro (qui è il giovane ebreo Giovanni che parla, dopo la morte di Gesù) consisteva nel fatto che loro credevano che il Messia fosse già stato una volta sulla terra e dovesse ritornarvi, mentre secondo noi questo era impossibile….perché l’umanità non era redenta dal male ma piena di malvagità. Noi credevamo che il Messia dovesse venire, loro che dovesse tornare”.
Insomma: salvo che proprio non vi interessi la rassegna degli emendamenti al nuovo progetto di legge elettorale, prendete in mano questo (corposo) libro e immergetevi nella sua lettura: vi piacerà senz’altro e state tranquilli: il “vivace” dibattito “intellettuale” in corso nel nostro magnifico paese può andare avanti anche senza la nostra partecipazione!
Roma 28 gennaio 2014


mercoledì 22 gennaio 2014

Segnalazioni

Ombre sull'Hudson
(di Felice Celato)
Lo dico subito: Ombre sull'Hudson (il romanzo “americano”di Isaac Singer, che ho appena finito di rileggere a distanza di nove anni dalla prima lettura, TEA editore) è un libro impegnativo. Non solo perché si compone di 600 pagine, fitte fitte e dense di intrecci esistenziali talora paradossali, qua e là vagamente comici; ma soprattutto perché l' umanità che si agita  sotto la penna pietosa di Singer rimugina soffertamente temi complessi e profondi, di valore universale e solo in parte radicati in tematiche squisitamente ebraiche. Così i ricorrenti tormenti sulla "natura" dell'ebraismo ("senza Dio non ci sono ebrei" dice uno dei protagonisti, il più macerato), sull'assimilazionismo o sulla valutazione "religiosa" dell'Olocausto, sfociano naturalmente in più vaste tematiche, starei per dire di portata universale, come il problema del male o quello dell'attrito fra valori religiosi e mondo "secolarizzato", facendo del libro, appunto, una lettura impegnativa; anzi, direi che, se Isaac Singer non fosse lo straordinario narratore che conosciamo, il romanzo probabilmente soffocherebbe sotto lo spessore del libro!
L'ambientazione, come dice il titolo stesso, è americana, anzi Newyorkese e, ancora più specificamente, ebraico-Newyorkese; il periodo narrato è quello del primissimo secondo dopoguerra (anni 1947-48, direi); la pubblicazione è invece del 1957/58, a puntate, in yiddish, su un giornale pubblicato a New York (The forward).
I personaggi sono molti ed intensi (le ombre umane che vagano intorno all’Hudson) ma ruotano tutti attorno alla figura di Boris (già Borukh) Makaver, un abile uomo d'affari fuggito negli Usa dalla Polonia e divenuto ben presto un personaggio di spicco nella locale comunità ebraica, un punto di riferimento per l'attaccamento ai valori morali e religiosi della sua matrice culturale. Boris, da questo punto di vista è l'omologo americano di un altro personaggio singeriano, il polacco Calman Jacoby de La fortezza (grandissimo libro!): vive ed opera con successo nel mondo ma ne teme l'azione corrosiva, ne rifugge i comportamenti e le logiche secolarizzate, anzi, nel suo ambito sociale, vi si oppone con ogni mezzo anche a prezzo di mettere in crisi il rapporto più caro, quello con la figlia Anna, ormai divenuta un'americana vigorosa, agnostica, libera e spregiudicata nei suoi affetti quanto affezionata al vecchio padre del quale eredita anche l'abilità commerciale. Una buona parte delle vicende ha proprio per protagonista questa Anna e il suo amore tormentato per un altro personaggio "forte" del libro, Herz Dovid Grein, un professore laico e libertino, scosso da tremendi sensi di colpa che lo spingono alla più radicale conversione, peraltro trainata dal valore pedagogico della religione (“siccome i filatteri tengono legata la tigre che ho dentro di me, non posso fare altro che mettermeli”) piuttosto che dai suoi contenuti teologici e morali.
Insomma, come dicevo, il tema di fondo, come  ne La fortezza, è quello dell’assedio del mondo alla fortezza della fedeltà alla religione, un assedio tanto più intenso quanto più il contesto vitale è quello del “nuovo mondo” dove i valori dell’ebraismo (ma più in generale, direi, di ogni religione) sono dispersi all’interno di una società profondamente secolarizzata.
Come si vede, un tema che travalica l’ambiente ebraico in cui si dipanano le vicende e che mette in discussione molti temi presenti nell’anima di ogni uomo cosciente della sua dimensione verticale; ancora una volta, in fondo, la riprova della radice ebraica che caratterizza la civiltà occidentale che definiamo cristiana (con buona pace di chi non ha voluto riconoscere i fondamenti giudaico-cristiani della nostra cultura).

Roma, 22 gennaio 2014.

lunedì 13 gennaio 2014

Segnalazioni

La vita sognata di Ernesto G.
(di Felice Celato)
Il 2013 è stato per me un anno eccellente  (per le letture, intendo dire, e solo per queste!). Nell’anno appena finito ho avuto modo di imbattermi in una serie di letture di grande qualità, sia nel settore della narrativa (ri-segnalo, fra tutte, La famiglia Karnowsky di Israel Singer, e poi Limonov di Emmanuel Carrère e La tana dell’odio di Giovanni D’Alessandro) sia in quello della saggistica storica e sociologica (ri-segnalo, fra tutte, le biografie di Bonhoeffer di Eric Metaxas e de L’Apostolo di Sholem Asch e il bel libro sulla democrazia di Zagrebelsky). [ Maggiori dettagli su queste letture e su altre rimarchevoli del 2013 sono rinvenibili nel blog, perché le ho tutte puntualmente segnalate nel corso dell’anno].
Sarà difficile che il 2014 risulti di eguale soddisfazione; comunque non è cominciato male, perché La vita sognata di Ernesto G. di Jean Michel Guenassia (Salani editore) senza essere – a mio giudizio – del livello del romanzo (*) di tardo esordio di Guenassia come narratore (fino all’età di sessant’anni ha fatto l’avvocato), è senz’altro un libro piacevole ed avvincente. Fra l’altro, i due romanzi hanno anche in comune l’impianto di fondo, essendo, entrambi, direi, romanzi “storici” nel duplice senso che entrambi sono profondamente immersi nella storia e che, della storia, fanno una co-protagonista, anzi, se così si può dire, un’antagonista dei vitali personaggi principali.
L’ambientazione, stavolta, è articolata: Parigi – Algeri - Praga; le vicende storiche sono quelle fra le due guerre mondiali (Parigi ed Algeri) e quella dell’ultimo dopoguerra nell’est-Europeo (Praga) fino al crollo del Muro e poco oltre; i protagonisti sono i membri di una complicata famiglia, sballottata nelle vicende della storia che, anzi, nel tratto finale del lungo romanzo, si affaccia con prepotenza nella loro vita con la comparsa di un personaggio veramente esistito (appunto Ernesto G.) ma, forse, nella realtà, nemmeno mai transitato per Praga.
Scritto molto bene (ho avuto qualche dubbio su alcuni passaggi della traduzione, ma si tratta di dubbi di minor rilevanza), è, come dicevo, soprattutto avvincente; senza essere forse un capolavoro, è comunque un libro che si legge con gusto e che coglie con grande acume il senso di fragilità delle esistenze umane trascinate dai flutti della storia e della vita, che talora le sovrastano e tentano di sommergerle, senza tuttavia riuscire a cancellarle anche quando le portano a fondo. Non c’è – nella “storia” secondo Guenassia – la potente dimensione provvidenziale che opera in quella de I promessi sposi, ma una “fede” semplicemente laica come quella de La peste di Camus (che, di sfuggita, viene richiamata dalle vicende ambientate in Algeri), ma non per questo meno suggestiva. Alla fine – è forse questo, infatti, il “messaggio” delle vicende narrate da Guenassia – la forza indomabile dell’umanità attaccata ai propri valori riesce a costruire un baluardo sul quale anche l’onda della storia si infrange e che, quando l’onda è passata, riemerge tenace.
Roma, 13 gennaio 2014

(*)Il club degli incorreggibili ottimisti, Salani editore, anch’esso segnalato su questo blog.


domenica 12 gennaio 2014

Einstein

Una domanda
(di Felice Celato)
Capisco che ragionare di numeri è cosa poco piacevole, specie quando i numeri ci dicono verità amare. Però, forse, ogni tanto occorrerà pensarci! O no?
Io dico di si e, ragionando, provo a stabilire una provocatoria relazione:
  • nei tre anni appena decorsi il debito pubblico italiano è passato da 1843 a 2093 (stima) miliardi di € (cioè è aumentato di 250 miliardi, che, soprattutto in tempi di cosiddetta austerity, non sono pochi!);
  • in percentuale del Prodotto Interno Lordo (PIL), il Debito pubblico è passato dal 117% del 31 12 2010 al circa 132% di fine 2013 (+ 15 punti percentuali);
  • il PIL reale dell’Italia nell’ultimo triennio è stato di +05 nel 2011, -2,5 nel 2012 e (forse) -1,5% nel 2013 (secondo le classifiche di  World Fact Book –aggiornate al 2012–  appunto in tale anno l’Italia era al 211° posto su 220 stati considerati);
  • la pressione fiscale, nello stesso periodo, è passata dal 42,5 del 2011 al  44% e oltre del 2013;
  • la disoccupazione, nello stesso periodo, è passata dall’ 8,4 del 2011 al 12% e oltre del 2013.

C’è di che allarmarsi seriamente, o no?
Ebbene: ora provo a mettere giù un altro numero, preso dall’interessatissimo rapporto dell’Istituto Bruno Leoni “Indice delle liberalizzazioni 2013”: l’Italia è, fra i paesi europei, quello, di gran lunga, col più basso indice di liberalizzazione (IdL) della propria economia (l’indice misura, sinteticamente, i vincoli di varia natura – barriere all’ingresso, barriere all’uscita e barriere all’esercizio, quindi, di solito, vincoli normativi – che frenano l’apertura di un mercato; più l’indice di liberalizzazione di un determinato paese è basso, maggiormente frenata è l’economia di quel paese): per fare qualche esempio: l’IdL Italiano è di 28 contro l’84 del Regno Unito, il 51 della Germania, il 52 della Francia, il 36 della Grecia, penultimo paese della graduatoria).
E vengo alla domanda: può essere che ci sia una relazione fra i disastrosi dati sopra sintetizzati e quest’ultimo indice di liberalizzazione dell’economia?
Io penso di sì, perché sono convinto che sta all’economia di produrre ricchezza (e posti di lavoro) e allo Stato di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la crescita, anche (quando serve) disciplinando intelligentemente i mercati,ben s’intende, ma con regole chiare, semplici e costanti nel tempo, senza vessazioni burocratiche e senza indebite intromissioni. [Penso anche che sia inevitabile che lo stato riduca il perimetro della sua operatività diretta; ma di questo abbiamo già parlato. Sono sicuro che fra non molto occorrerà riparlarne.]
Altri invece, e pare che siano la maggioranza, pensano che la cosa migliore sia fare altri debiti, maggiori di quelli che già dovremmo fare (che altro vuol dire, se no, “sfondare il 3%” nel rapporto Deficit/PIL?) e solo fingere di occuparsi dei costi dello stato, condendo il tutto con pompose banalità.
Diceva Einstein che fare le stesse cose e aspettarsi risultati diversi è una manifestazione della follia.
Vedremo chi ha ragione, alla lunga.

Roma ,12 gennaio 2014

lunedì 6 gennaio 2014

Stupi-diario di fine feste

S.F.C.
(di Felice Celato)
Per chiudere in maniera forse simpatica questo periodo di feste religiose e laiche, vorrei proporre a tutti gli amici un piccolo e divertente esercizio da praticare durante l’anno appena cominciato. E’ un esercizio semplice e forse anche utile che cercherò di illustrare brevemente sperando però che sia praticato da tutti noi lungamente. E per compiacere la nostra linguistica anglo-filia vorrei dargli un nome inglese: il Silence Fillers Chasing (in sigla SFC), che in Italiano potremmo chiamare la-caccia-ai-riempitori-di-silenzio. Sgombriamo subito il campo da equivoci: credo che Silence filler sia un gioco enigmistico americano, col quale il nostro SFC non ha nulla a che vedere; né il nostro SFC ha nulla a che vedere (propriamente) col vezzo dei parlatori timidi che, temendo le pause del loro stesso eloquio, lo riempiono di parolette non aventi pertinente significato (tipo: come dire, voglio dire, etc) o di fonemi e vocalizzi del tipo quelli cui indulgono (insopportabilmente) i giornalisti radio-televisivi per dare ritmo (?) o continuità (?) ai loro parlari.
No, l'SFC è un esercizio un po’ più avanzato e si rivolge alla caccia dei riempitori di silenzio “ideologici”, cioè a coloro che fanno del riempimento del silenzio una propria ideologia, una specie di conscia o inconscia ragione di vita o anche, più spesso, un mestiere.
Per rendersi conto di quanto ampio sia il nostro terreno di caccia mettiamoci in critico ascolto dei nostri media o dei nostri politici. E per individuare le “prede” da cacciare proviamo a domandarci, dopo aver letto un pezzo o ascoltato, chessò?, una dichiarazione di qualche “portavoce” di partito: che cosa voleva dire che non fosse già noto? Perché vuole evitare che noi si abbia il tempo (e il silenzio necessario) per pensare a quello che sicuramente aveva già detto, ammesso che ne valesse la pena? Perché si è preso il rischio di dire una banale ovvietà o, peggio, una stupidaggine? Per quale ragione non ha preferito il tacere? Bene: se la risposta a questa o ad analoghe domande è che l’unica ragione di tale “esternazione” sta nell’affermare la propria “esistenza in vita”, secondo il moderno principio che esse est percipi (essere è essere percepito) o nel semplice disprezzo del silenzio, allora quella è la preda del nostro SFC!
E quando si è individuata la preda, che fa il cacciatore? Mira e scocca la freccia! E poiché noi siamo cacciatori non violenti, che proiettile o freccia potremmo sparare? Qui abbiamo una scelta: se stiamo leggendo, saltiamo a piè pari l’intero articolo, costi quel costi (cioè a rischio di perdere qualcosa che non sapevamo, annegato fra le banalità che sapevamo); se, invece, siamo davanti alla radio o al televisore, impugniamo il telecomando e cambiamo canale (ci sono degli ottimi programmi di musica classica!) o, meglio, godiamoci un po’ di silenzio.
E, siccome essere contro la caccia è politically correct, noi, che ci teniamo tanto alla nostra political correctness, rivolgiamo agli editori e ai direttori di media una preghiera: non induceteci in tentazione! Eliminate o restringete al minimo indispensabile il nostro terreno di caccia! Non fateci più leggere o ascoltare i silence fillers, i vacui riempitori di silenzio alla ricerca della (altrimenti improbabile)  loro percezione!
Roma, 6 gennaio 2014, Epifania di N.S.


PS: Se, per caso, queste righe vi sembrano un mero riempimento di silenzio, da pomeriggio festivo in casa, trattatemi come un volgare silence filler e dimenticate questo post!