Una domanda
(di
Felice Celato)
Capisco
che ragionare di numeri è cosa poco piacevole, specie quando i numeri ci dicono
verità amare. Però, forse, ogni tanto occorrerà pensarci! O no?
Io
dico di si e, ragionando, provo a stabilire una provocatoria relazione:
- nei tre anni appena decorsi il debito pubblico italiano è passato da 1843 a 2093 (stima) miliardi di € (cioè è aumentato di 250 miliardi, che, soprattutto in tempi di cosiddetta austerity, non sono pochi!);
- in percentuale del Prodotto Interno Lordo (PIL), il Debito pubblico è passato dal 117% del 31 12 2010 al circa 132% di fine 2013 (+ 15 punti percentuali);
- il PIL reale dell’Italia nell’ultimo triennio è stato di +05 nel 2011, -2,5 nel 2012 e (forse) -1,5% nel 2013 (secondo le classifiche di World Fact Book –aggiornate al 2012– appunto in tale anno l’Italia era al 211° posto su 220 stati considerati);
- la pressione fiscale, nello stesso periodo, è passata dal 42,5 del 2011 al 44% e oltre del 2013;
- la disoccupazione, nello stesso periodo, è passata dall’ 8,4 del 2011 al 12% e oltre del 2013.
C’è
di che allarmarsi seriamente, o no?
Ebbene:
ora provo a mettere giù un altro numero, preso dall’interessatissimo rapporto dell’Istituto
Bruno Leoni “Indice delle liberalizzazioni 2013”: l’Italia è, fra i paesi
europei, quello, di gran lunga, col più basso indice di liberalizzazione (IdL)
della propria economia (l’indice misura, sinteticamente, i vincoli di varia
natura – barriere all’ingresso, barriere all’uscita e barriere all’esercizio,
quindi, di solito, vincoli normativi – che frenano l’apertura di un mercato;
più l’indice di liberalizzazione di un determinato paese è basso, maggiormente
frenata è l’economia di quel paese): per fare qualche esempio: l’IdL Italiano è
di 28 contro l’84 del Regno Unito, il 51 della Germania, il 52 della Francia,
il 36 della Grecia, penultimo paese della graduatoria).
E
vengo alla domanda: può essere che ci sia una relazione fra i disastrosi dati
sopra sintetizzati e quest’ultimo indice di liberalizzazione dell’economia?
Io
penso di sì, perché sono convinto che sta all’economia di produrre ricchezza (e
posti di lavoro) e allo Stato di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la
crescita, anche (quando serve) disciplinando intelligentemente i mercati,ben s’intende, ma con regole chiare, semplici e costanti nel tempo, senza
vessazioni burocratiche e senza indebite intromissioni. [Penso anche che sia
inevitabile che lo stato riduca il perimetro della sua operatività diretta; ma
di questo abbiamo già parlato. Sono sicuro che fra non molto occorrerà
riparlarne.]
Altri
invece, e pare che siano la maggioranza, pensano che la cosa migliore sia fare
altri debiti, maggiori di quelli che già dovremmo fare (che altro vuol dire, se no, “sfondare il 3%” nel rapporto
Deficit/PIL?) e solo fingere di occuparsi dei costi dello stato, condendo il tutto con pompose banalità.
Diceva
Einstein che fare le stesse cose e aspettarsi risultati diversi è una
manifestazione della follia.
Vedremo
chi ha ragione, alla lunga.
Roma
,12 gennaio 2014
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