sabato 27 febbraio 2016

Il volto e il deserto

Diario triste
(di Felice Celato)
Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo…vedrai le mie spalle ma il mio volto non si può vedere”. Così dice il Signore a Mosè nel deserto del Sinai (Es. 33, 20-23).
Eppure gli uomini hanno continuato ad invocare su di loro stessi il volto di Dio: “Non nascondermi il tuo volto nel giorno della mia sventura” (Sal.102); “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, faccia risplendere il suo volto su di noi” (Sal. 67); perché “il volto è l’immagine dell’anima” come diceva Cicerone e tutti vorremmo conoscere a fondo l’anima di chi ci sta davanti (e anche di noi stessi, quando abbiamo modo di guardarci allo specchio).
Ma l’anima di ciascuno è conoscibile solo da Dio, nemmeno noi stessi la conosciamo, la nostra, soprattutto nel momento del dolore e della prova, nel momento del deserto.
Ci ho pensato a lungo in questi giorni in cui ho avuto il doloroso modo di sfiorare il mistero di ciò che c’è dietro i nostri volti, spesso atteggiati a negare a noi stessi ed agli altri i viluppi dolenti dell’anima, come fossimo attori di un testo su di noi, ma scritto solo per gli altri.
Già, strana vita, quella dell’attore, che, come ogni uomo, non conosce a fondo il vero volto di se stesso ma che presta la sua arte per mettere in scena quello degli altri; magari illuso che mostrare il volto dei suoi personaggi possa aiutare qualcuno (e prima di tutti  se stesso) nella dolorosa ricerca del proprio vero volto. E quindi della propria anima, quando vaga nei deserti della vita.
Da qualche parte mi attende il mio vero volto”, scrive uno scrittore francese nel raccontare l’avventura della propria conversione, appunto nel deserto (E.E. Schmitt: La notte di fuoco, e/o ed.); infatti…..da qualche parte, in terra o in cielo; in mezzo agli uomini o in grembo alla misericordia di Dio.

Roma, 27 febbraio 2016

martedì 23 febbraio 2016

Defendit numerus / 5

Primati che nessuno ci invidia
(di Felice Celato)
Avevamo chiamato così, Defendit numerus, questa rubrichetta dedicata ai numeri, nella convinzione che, come implica la citazione da Giovenale, i numeri, appunto, difendano. Nella loro nudità, nel loro crudo significato dimensionale, nella loro capacità ordinatoria i numeri, infatti, difendono dalla diffusa cialtroneria di tante abborracciate sintesi vagamente qualitative di cui abbonda la comunicazione politica (e non solo politica), specie in questo paese che i numeri li ama poco.
Con questa attenzione mi sono precipitato a leggere un piccolo volume (l’ho letto in ebook e quindi il numero delle pagine è sempre un po’ oscuro ma stimo che le pagine da leggere non superino la novantina) uscito proprio stamane da Einaudi: Ultimi, è il titolo, e il sottotitolo: Come le statistiche condannano l’Italia; l’autore è Antonio Galdo, giornalista e scrittore che, qui, abbiamo anche ricordato qualche tempo fa come co-autore (con Giuseppe De Rita) di ottimi saggi come  L’eclissi della borghesia e  Il popolo e gli dei.
Galdo passa in spietata rassegna numeri ed indici che fanno dell’Italia il paese di coda fra quelli ascritti al mondo delle “economie più avanzate del pianeta”, per comporre un ritratto che lo stesso autore annuncia  così: I numeri parlano e raccontano. Così le statistiche ci consegnano la storia di un Paese che, da decenni, arretra e finisce ultimo anche laddove era primo. Abbiamo la maglia nera in disoccupazione, corruzione, evasione e pressione fiscale, inefficienza della burocrazia, fiducia nel futuro. Siamo regrediti negli asili, nella scuola, nell’università, nella competitività delle imprese, nelle reti delle infrastrutture, dai trasporti alla banda larga. Scivoliamo, sempre e solo verso il basso. Passo dopo passo, gradino dopo gradino, classifica dopo classifica.
Per chi ha confidenza coi numeri e anche con molte delle fonti statistiche che Galdo utilizza, il libro si scorre molto rapidamente perché è scritto molto bene e poi, appunto, perché buona parte delle evidenze raccolte erano ben note, nella sostanza se non nei numeri e nei decimali.
[ Al riguardo, per la verità,  non posso tacere che alcune sintesi espositive, soprattutto quelle riferite a settori che meglio conosco, mi sono parse talora un po’ sommarie!]. Quello che però di più colpisce non sono dunque i contenuti dei singoli capitoli (scuola, università, pensioni, impresa, ricerca, turismo, sanità, giustizia, spazzatura, corruzione, infrastrutture, etc.) ma la visione d’insieme che deriva dalla giustapposizione dei nostri primati negativi. Non si tratta di essere più o meno pessimisti, più o meno inclini al “piangersi addosso”, più o meno negative thinkers; qui, piuttosto, si tratta di accettare o non accettare l’evidenza di una frana, anzi, di un fronte franoso che rende persino ridicole molte delle putrelle che, con molto rumore, apprestiamo per contenerne qua e là lo scivolamento, sempre senza riconoscere la larghezza del fronte. Né, si badi bene, questa soffocante sensazione di frana ha qualcosa a che vedere con contingenti giudizi politici su governi presenti o passati; qui l’onda è lunga e il fronte della frana troppo largo per essere responsabilità di singoli tratti di strada o di chi li ha percorsi.  Qui – temo di ripetermi e sono certo di annoiare – il problema è più largo, coinvolgendo un degrado che in parte è endogeno (la sequenza è nota: crisi culturale / crisi sociologica / crisi antropologica) ma in parte anche esogeno: è in atto una trasformazione del mondo che rivoluziona i posizionamenti relativi, a vantaggio di chi ha più energie per correre e a svantaggio di chi è affannato (o appesantito dal cibo). Mi ha colpito una statistica sulle migliori università del mondo che non nasce nel mondo occidentale ma in Cina, quasi a testimoniare un’attenzione alla qualità formativa oramai ben radicata in paesi che fino a qualche anno fa consideravamo in via di sviluppo.
Che dire di questo quadro? Anzitutto che occorre conoscerlo (e farlo conoscere) per, almeno in parte,fronteggiarlo; dice Galdo: per riuscirci, però, non possiamo sentirci rassicurati e gonfiare il petto attraverso una narrazione del Paese distante dalla realtà, piegata alle leggi della propaganda politica e scollegata dall’analisi dei fatti. Poi, dico io (anzi, ripeto io), perdono reciproco e fatica, tanta fatica. Ma, mi ha detto qualcuno che ne sa più di me di politica, perdono e fatica non sono categorie politiche; e temo che abbia ragione.

Roma 23 febbraio 2016

venerdì 19 febbraio 2016

Letture ariose

Esercizi di iconoclastia
(di Felice Celato)
Osservando me stesso – come, forse, ognuno dovrebbe fare ogni tanto, per capire come cambiamo, in meglio o in peggio, col passare del tempo (e, per quanto mi riguarda, non è un esercizio confortante) – constato che, con l’età, fra l’altro mi si è accentuata una mai del tutto latente iconoclastia. Niente a che vedere con quelli che chiamiamo i “simboli iconici” del nostro tempo (chessò i tablets o gli smartphones o anche qualche cantante pop) né coi “santini” o le immaginette sacre, cui, pure, noi cattolici spesse volte ci affezioniamo con devozione che talora sfiora la superstizione; per iconoclastia intendo, nel mio caso, una irriverente tendenza a giudicare con fastidio e, ahimè!, spesso, anche con disprezzo (con la vecchiaia i difetti del carattere si accentuano!), le opinioni convenzionali, le formule del pensiero corrente accettate e seguite dalla maggioranza; che si ipostatizzano in “icone culturali” adorate per default, perché ormai ci siamo abituati ad esse e considereremmo una bestemmia, appunto, non adorarle acriticamente o anche il solo metterle in discussione; e che si “condensano”, con automatismo pavloviano, in slogan acritici dei quali sentiamo far uso anche quotidianamente, prevalentemente, per la verità, nella materia economica dove – questa può esser una spiegazione del loro successo – sono più densi e resistenti, almeno in Italia, i pregiudizi ideologici e, spesso, l’ autentica ignoranza. Di esempi se ne possono fare a iosa (e talora qui di alcuni di essi abbiamo pure parlato): il capitalismo sfrenato, la finanziarizzazione dell’economia, il profitto per il profitto, la speculazione predatoria, e così via, di banalità in banalità.
Sarà per questa turbolenta iconoclastia senile con cui mi trovo a convivere, ma mi sono lasciato veramente catturare da un bellissimo libro di Alberto Mingardi (L’intelligenza del denaro – Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto, Marsilio, 2013, disponibile anche in ebook), dal titolo provocatorio e, secondo me, forse anche infelice, ma dai contenuti veramente “rinfrescanti”.
Non è il caso di ripercorrere qui, nemmeno in estrema sintesi,  l’analisi ampia che Mingardi svolge con acume e chiarezza (e anche con vastità di riferimenti culturali) sulle distorsioni che  “l’ideologia” statalista (culturalmente dominante in Italia) ha via via apportato nella percezione dei funzionamenti del mercato (e del denaro che  rappresenta la lingua in cui si esprimono i prezzi: esso consente anche al più superficiale dei consumatori di valutare velocemente la convenienza di un acquisto). Per dare un’idea dell’aria fresca che – in mezzo alla cappa ideologica che ci asfissia – si respira invece nelle 300 e passa pagine del libro, dal blocco delle note che ho via via preso durante la lettura (potenza della lettura in  ebook!) estraggo alcune citazioni: ci si rivolge continuamente ai «mercati» come fossero soggetti in carne e ossa, dotati di volontà propria, che di tanto in tanto «sono nervosi», «ci puniscono», «premiano le scelte del governo», «scommettono su Monti», «aspettano l’esito del nuovo vertice di Bruxelles», «reagiscono bene». In realtà, il mercato non è nervoso né calmo, non punisce né premia, non frequenta le bische, non aspetta alcunché, non reagisce neppure al peggiore degli insulti. Il mercato non è un essere vivente dotato di volontà propria. Fra i comunicatori, gente che per mestiere deve farsi capire, c’è sempre la tentazione di reificare concetti astratti. Con il mercato si fa di peggio: lo si antropomorfizza, facendone una sorta di eroe negativo perennemente impegnato a smontare i disegni benevoli dei grandi del pianeta. In realtà, invece, il mercato siamo noi…. il mercato è…..una torta impastata da milioni di inconsapevoli pasticceri……una metafora: si fa riferimento a uno spazio, con cui tutti o quasi abbiamo consuetudine, per riferirsi a un complesso di relazioni fra persone, ciascuna delle quali ha fini propri….che cooperano senza che nessuno impartisca gli ordini,…dove scambiando si impara…perché il mercato non ha una «sua» idea di che cosa sia l’interesse della società nel suo complesso. È una vasta rete di relazioni sociali, nelle quali ciascuna delle parti coinvolte mira a uscire dallo scambio meglio di quanto vi fosse entrata.
Ah! si respira! Senza sentire alcuna pretesa di verità!
Sento già qualche tenace statalista alzare il ciglio con l’idea che, in fondo, anche questa del mercato sia un’icona. No, non è un’icona perché il mercato non è una cosa, una persona, un’entità: il mercato è un complesso di relazioni fra persone, un luogo astratto dove queste relazioni si intessono; e dunque, forse, il libro di Mingardi ne è una mappa.
Conclusione: lettura obbligatoria per tutti (fra l’altro il libro si legge benissimo)  specialmente per i più riottosi, che vi troveranno, appunto, non verità ma salutari spunti di riflessione!
Roma 19 febbraio 2016


lunedì 15 febbraio 2016

Comprendere per decidere

Mosè e il Faraone
(di Felice Celato)
Un amico, che da più tempo di me (e con maggior “grazia” ed audience di me) si sforza di mantenere vivo un colloquio fra umani in questo deserto della ragione che sta diventando il nostro paese, ha mandato agli amici una riflessione che considero molto saggia (e perciò la trascrivo – e la sottoscrivo – integralmente) : “Depende, de qué depende, de según como se mire todo depende”, ripeteva un successo dei Jarabe de Palo: gli eventi non hanno mai una sola dimensione, non si esauriscono mai in una sola narrazione; la loro interpretazione e la loro drammaticità dipendono dal nostro punto di osservazione e da quanto il loro esito tocca da vicino la nostra vita. Più numerosi e più diversi tra loro sono i punti di osservazione in cui riusciamo a immedesimarci, maggiore sarà la probabilità di avere un quadro realistico e di riuscire a farci una opinione più oggettiva e completa. E allora (forse) riusciremo anche a capire per quale soluzione tifare.
Non per dargli torto (mi piacciono immensamente le diatribe fra persone dotate di testa non solo per spartire le orecchie, ma non fino al punto da negare gli enunciati più veri per il gusto di un’amichevole polemica!), però ci ho riflettuto sopra a lungo ed eccovi qua il “frutto” (poco succoso) di questa riflessione.
Partirò da una frase che mi ha molto colpito, tratta dal libro che ho segnalato qualche giorno fa (Ponzio Pilato, di A. Schiavone, Einaudi, 2016): Per l’occhio di Dio il tempo non è un fiume che scorre imprevedibile [come è per noi umani, NdR], ma un immobile blocco di ghiaccio, interamente percettibile con un unico sguardo.
Bene, questa è “la prospettiva” di Dio che tutto sa; ahimè! tanto distante da quella degli uomini che poco o nulla sanno (anche quando credono di sapere) e che, pure, come dice il mio amico, devono sforzarsi di “comprendere” la dimensione degli eventi nella varietà dei punti di vista (troppo giusto!).
E che, però, alla fine, nel loro tempo devono agire (magari si trattasse solo di tifare!).
Ma “comprendere” non è “agire”; purtroppo, del tempo, non siamo solo spettatori ma anche attori, ancorché ogni azione ragionevole presupponga uno sforzo quanto più intenso possibile per “comprendere” ( e anche per comprendere il punto di vista degli altri, beninteso) prima di “agire”. L’azione nel tempo (un fiume che scorre imprevedibile) purtroppo è soggetta alla naturale imprevedibilità dei suoi effetti, non solo statica (cioè, per così dire, a bocce ferme) , ma anche dinamica (cioè in funzione di come gli altri faranno rotolare le loro bocce, in un bocciodromo, peraltro, senza sponde, dove ogni boccia tende a seguire l’impulso dinamico di chi l’ha lanciata). Il tempo non è, per noi, un immobile blocco di ghiaccio, interamente percettibile con un unico sguardo; è invece, mi si passi l’abuso della banalizzazione, il bocciodromo senza sponde dove ognuno fa il suo gioco, in parte prevedibile (cioè “conoscibile” o stimabile ex ante) in parte imprevedibile. Ogni decisione dell’uomo, come ben sa chiunque abbia dovuto prendere delle decisioni, viene assunta – per quanto se ne siano studiati accuratamente natura ed effetti – in condizione di incertezza, non solo del futuro ma anche della qualità della comprensione del presente (e del passato che su tale presente stende comunque la sua ombra). E, per l’uomo, il metro di questa decisione, per quanto amaro possa apparire il confessarlo, è ciò che è meglio fare per lui, al quale – con tutti i suoi limiti – la sua comunità è affidata; forse ben poteva Mosè immedesimarsi (segùn como se mire) nelle ragioni del Faraone (“Ecco, ora che il popolo è numeroso nel paese, voi vorreste far loro interrompere i lavori forzati?”Es.5,5), ma ciononostante decise per l’Esodo, perché alla sua azione la comunità degli Israeliti era stata affidata.
Certo l’uomo può ben decidere, nell’incertezza, di non agire; ma anche questa è una scelta, in qualche modo la decisione di non decidere è essa stessa una decisione, con i suoi intrinseci  rischi, spesso non diversi da quelli dell’azione (ragionevole).
Concludo: todo depende de segùn come se mire, ma l’azione ragionevole, dopo un’intensa attività di comprensione, esige una sintesi attiva, dove, magari, qualche punto di vista risulti sacrificato; e senza che un punto di vista (una narrazione, come dice il mio amico, o come direbbe Vendola) venga elevato a puntello paralizzante.
Sennò, avrà anche compreso bene, l’agricoltore che non sa quale cereale seminare, studiando e ristudiando, i vantaggi del grano rispetto all’orzo o della segale rispetto al sorgo o del riso rispetto al mais; ma se non semina prima che cada la neve, in estate il suo campo sarà sterile.
Roma 15 febbraio 2016




sabato 13 febbraio 2016

Stupi-diario episcopale

Rispettosi silenzi
(di Felice Celato)
Una premessa: come tutti i lettori di questa rubrichetta sanno, lo “stupi” che figura nel suo stesso titolo non deriva da “stupido” ma da “stupore”, ancorché l’etimo delle due parole sia lo stesso. Detto ciò vengo allo stupore episcopale.
Con tutto il rispetto che volentieri sento di dovere ad ogni esponente gerarchico della Chiesa di cui faccio orgogliosamente parte, mi pare che il vescovo Galantino propenda per enunciazioni talora intese a piacere alla (prevalente ) opinione dei politici, secondo un costume che non ho mai amato in nessuno: ”Per rispetto al Parlamento preferisco non parlare” ha detto – con scarsa solidarietà istituzionale – il segretario della CEI (secondo i giornali) dopo che il Presidente della stessa CEI, cardinale Bagnasco, era stato bruscamente rimproverato (dal solito coro dei “veri laici democratici” puri e duri ) per aver espresso la sua convinzione che il voto di coscienza fosse il più appropriato per materie come quella in discussione al Parlamento (unioni gay ed adozioni laterali). Anche il Presidente del Consiglio, sdegnato, si è esercitato in una brusca ovvietà: “sarà Grasso a decidere sul voto segreto, non la CEI!” E chi ha mai preteso il contrario?
Lascio da parte il merito della questione sul quale ho già detto quello che penso; e vengo invece all’opinione (anzi alla non-opinione) di mons. Galantino: dunque, nel paese che immagina il segretario della CEI, il Parlamento non può ricevere richieste o critiche da chicchessia; e se questa richiesta (o critica) viene dalla Conferenza episcopale di cui Galantino è segretario,  questa è una mancanza di rispetto.
Ora credo di sapere che in Italia (ma forse mi sbaglio!) ognuno può esprimere la propria opinione, non solo sugli attesi comportamenti del Parlamento e dei politici, ma anche sulle azioni o sulle non-azioni o sulle semplici opinioni delle maggiori istituzioni (dal Presidente della Repubblica a quello del Senato o della Camera, da quello del Consiglio dei Ministri a quello della Corte Costituzionale o del Consiglio Superiore della Magistratura); senza che ciò integri nessuna mancanza di rispetto ad alcuno. E per fortuna, sennò ogni giorno di che riempiremmo i giornali?
Si potrebbe dire (sento già il distinguo dei “veri laici democratici” puri e duri): Bagnasco può parlare a titolo personale, come cittadino italiano (e grazie della concessione!); ma non come presidente della Conferenza Episcopale.
Risponderebbe qualsiasi persona dotata di buon senso (semplice e costituzionale): ma come? Possono parlare, e di fatto parlano assai spesso, a nome della loro associazione, il Presidente della Confindustria, quello dell’Associazione Bancaria, quello dei Consumatori e persino quello dei Calciatori, o quello dell’Arci-Gay, o quello dei Coltivatori Diretti, o quello di Magistratura Democratica, senza che nessuno ravveda nelle opinioni di questi “una mancanza di rispetto” verso questa o quella istituzione di cui si richiede o si biasima l’intervento o il non-intervento; e il presidente della Conferenza Episcopale no? e perché no?
Dunque, secondo me, il “rispetto” che mons. Galantino ostenta per l’istituzione Parlamento (che è abituata a ben altre pressioni...assai più efficaci di quelle dei Vescovi)  mi pare francamente, appunto, ostentato e perciò inopportunamente enunciato.

Roma 13 febbraio 2016