Primati che
nessuno ci invidia
(di Felice Celato)
Avevamo
chiamato così, Defendit numerus,
questa rubrichetta dedicata ai numeri, nella convinzione che, come implica la
citazione da Giovenale, i numeri, appunto, difendano. Nella loro nudità, nel
loro crudo significato dimensionale, nella loro capacità ordinatoria i numeri,
infatti, difendono dalla diffusa cialtroneria di tante abborracciate sintesi vagamente
qualitative di cui abbonda la comunicazione politica (e non solo politica),
specie in questo paese che i numeri li ama poco.
Con
questa attenzione mi sono precipitato a leggere un piccolo volume (l’ho letto
in ebook e quindi il numero delle
pagine è sempre un po’ oscuro ma stimo che le pagine da leggere non superino la
novantina) uscito proprio stamane da Einaudi: Ultimi, è il titolo, e il sottotitolo: Come le statistiche condannano l’Italia; l’autore è Antonio Galdo,
giornalista e scrittore che, qui, abbiamo anche ricordato qualche tempo fa come
co-autore (con Giuseppe De Rita) di ottimi saggi come L’eclissi
della borghesia e Il popolo e gli dei.
Galdo
passa in spietata rassegna numeri ed indici che fanno dell’Italia il paese di
coda fra quelli ascritti al mondo delle “economie più avanzate del pianeta”,
per comporre un ritratto che lo stesso autore annuncia così: I numeri parlano e raccontano.
Così le statistiche ci consegnano la storia di un Paese che, da decenni,
arretra e finisce ultimo anche laddove era primo. Abbiamo la maglia nera in
disoccupazione, corruzione, evasione e pressione fiscale, inefficienza della
burocrazia, fiducia nel futuro. Siamo regrediti negli asili, nella scuola,
nell’università, nella competitività delle imprese, nelle reti delle
infrastrutture, dai trasporti alla banda larga. Scivoliamo, sempre e solo verso
il basso. Passo dopo passo, gradino dopo gradino, classifica dopo classifica.
Per chi ha confidenza coi
numeri e anche con molte delle fonti statistiche che Galdo utilizza, il libro
si scorre molto rapidamente perché è scritto molto bene e poi, appunto, perché
buona parte delle evidenze raccolte erano ben note, nella sostanza se non nei numeri
e nei decimali.
[ Al riguardo, per la verità, non posso tacere che alcune sintesi
espositive, soprattutto quelle riferite a settori che meglio conosco, mi sono
parse talora un po’ sommarie!]. Quello che però di più colpisce non sono dunque
i contenuti dei singoli capitoli (scuola, università, pensioni, impresa,
ricerca, turismo, sanità, giustizia, spazzatura, corruzione, infrastrutture,
etc.) ma la visione d’insieme che deriva dalla giustapposizione dei nostri
primati negativi. Non si tratta di essere più o meno pessimisti, più o meno
inclini al “piangersi addosso”, più o meno negative
thinkers; qui, piuttosto, si tratta di accettare o non accettare l’evidenza
di una frana, anzi, di un fronte franoso che rende persino ridicole molte delle
putrelle che, con molto rumore, apprestiamo per contenerne qua e là lo
scivolamento, sempre senza riconoscere la larghezza del fronte. Né, si badi
bene, questa soffocante sensazione di frana ha qualcosa a che vedere con
contingenti giudizi politici su governi presenti o passati; qui l’onda è lunga
e il fronte della frana troppo largo per essere responsabilità di singoli
tratti di strada o di chi li ha percorsi.
Qui – temo di ripetermi e sono certo di annoiare – il problema è più
largo, coinvolgendo un degrado che in parte è endogeno (la sequenza è nota:
crisi culturale / crisi sociologica / crisi antropologica) ma in parte anche
esogeno: è in atto una trasformazione del mondo che rivoluziona i
posizionamenti relativi, a vantaggio di chi ha più energie per correre e a
svantaggio di chi è affannato (o appesantito dal cibo). Mi ha colpito una
statistica sulle migliori università del mondo che non nasce nel mondo
occidentale ma in Cina, quasi a testimoniare un’attenzione alla qualità
formativa oramai ben radicata in paesi che fino a qualche anno fa consideravamo
in via di sviluppo.
Che dire di questo quadro?
Anzitutto che occorre conoscerlo (e farlo conoscere) per, almeno in parte,fronteggiarlo; dice Galdo: per riuscirci, però, non
possiamo sentirci rassicurati e gonfiare il petto attraverso una narrazione del
Paese distante dalla realtà, piegata alle leggi della propaganda politica e
scollegata dall’analisi dei fatti. Poi, dico io (anzi, ripeto io), perdono reciproco e fatica,
tanta fatica. Ma, mi ha detto qualcuno che ne sa più di me di politica, perdono
e fatica non sono categorie politiche; e temo che abbia ragione.
Roma 23 febbraio 2016
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