sabato 28 marzo 2020

Le ore nel lazzaretto

Il sole e le lampade ad olio
(di Felice Celato)
Stanotte, come ogni anno, entra nel nostro quotidiano l’ora legale. Questo piccolo “trucco” che il nostro mondo pone in essere stagione per stagione (mettere in avanti, per qualche mese, le lancette dell’orologio per rubare tempo all’oscurità) prende il posto del consueto conteggio delle ore secondo la convenzione del “tempo solare”. 
In fondo l’ora legale, pensata per risparmiare energia elettrica quando il tempo del buio si fa più breve, corrisponde anche al desiderio di luce che abbiamo connaturato, da quando lasciamo l’utero delle nostre madri: ci piace avere, ogni giorno, più ore di chiaro a disposizione, per godere più a lungo, durante la nostra giornata, della luce e di quello che essa significa per ciascuno di noi, se abbiamo la fortuna di vedere. Così, quando le notti si fanno più brevi, ci pare opportuno di abbandonare il convenzionale conteggio del tempo quotidiano e rubare alle ventiquattro ore uno spazio più largo per la luce vissuta. Ci siamo abituati da tempo (mi pare che nella nostra generazione si cominciò ad usare l’ora legale a metà degli anni ‘60), sicché l’annuale rito delle lancette spostate in avanti non avrebbe nulla per farsi notare. Eppure quest’anno il ritorno dell’ora legale ha assunto per me un sapore speciale: mi pare portare con sé, quest’anno, un desiderio particolare di luce, una voglia spasmodica di voltare in fretta le pagine di questo buio periodo di “peste”; non solo per i molti morti e i tanti dolori, per fortuna non vicini; non solo per l’oscuro vagare delle nostre conoscenze del male che gira in mezzo alle nostre case e ci fa temere anche la vicinanza di nostri consimili; non solo per il triste conteggio quotidiano dei nuovi attinti dal virus,  per l’isolamento fisico da familiari ed amici o per le limitazioni alla nostra libertà; ma anche per le cupe ombre sul nostro futuro, di cui parlano le pagine di questo buio periodo: non abbiamo ancora idea di quanto sarà pesante il fardello che “la peste” sta caricando sulle nostre spalle, sappiamo solo che sarà molto pesante, al limite delle nostre capacità di portarlo. Ah! certo, hanno a loro modo ragione i tanti “continuisti” (che si ripetono scioccamente, passerà, andrà tutto bene, in fondo il mondo ne ha visti tanti di mali, anche peggiori!). Se guardiamo alla nostra storia, certamente, ore così buie non sono nuove (ce ne è state anzi di molto peggiori, anche se noi forse non le abbiamo direttamente vissute); e alla fine, in qualche modo ne siamo usciti: l’uomo è più resistente di quanto esso stesso non sia portato a credere di sé. 
Tutto vero. Ma noi siamo qui ed ora; il passato – proprio perché è passato – non ci sta davanti, sta alle nostre spalle e possiamo solo rievocarlo, magari sfogliando libri di storia comodamente seduti sul divano o ascoltando i nostri genitori – se li avessimo ancora – mentre ci raccontano come l’hanno vissuto, allora, quando il nostro passato era il loro oggi o il loro sperato futuro. Ma la nostra vita, per il tempo che Dio ci vorrà concedere, a noi ed ai nostri cari, si dipanerà tutta nel futuro, che ci preme più di ogni rievocazione del passato. E la luce ci preme per questo tratto della nostra vita, per quanto breve possa essere.
Ecco, la luce cui aneliamo (e che questo piccolo "trucco" dell’ora “legale” in qualche modo, forse emozionato, mi evoca) è certamente luce di vita; ma anche di intelligenza e di umanità. Al buio (quello della notte e dei dolori) vorremmo lasciare meno tempo, meno spazio nelle nostre giornate; e con esso – speriamo – anche ai tristi mestatori di discordie e di rancori, ai maneggioni di opinioni, ai pescatori nel torbido, agli intorbidatori di acque, che con maleodoranti lampade ad olio sanno solo inquadrare i tratti del buio più vicino. Le più numerose ore di luce che ci apprestiamo a vivere ogni giorno, portino con sé molto sole; anche se la luce lascia intravvedere strade molto dure, se  c’è il sole non servono lampade ad olio.
Roma 28 marzo 2020

mercoledì 25 marzo 2020

Lettori nel lazzaretto?

Dal salace al serio
(di Felice Celato)
In questo tempo franoso (e la frana è vasta!) pochi hanno la serenità per godersi delle letture che “in tempi normali” (vi ricordate quando avevamo le scuole?) si studiavano ed anche seriamente; in fondo oggi avremmo il tempo per riprenderle in mano! Certo, il tempo, lo avremmo; ma, come dicevo, forse non la serenità. Eppure spesso vale la pena di rispolverarle; ed alcuni, ne sono convinto, riescono a farlo. Per esempio, io mi figuro che il nostro Premier Umanista abbia sempre vicino a sé una copia del capolavoro di uno dei precursori dell’Umanesimo (e quindi certamente un suo ispiratore), Giovanni Boccaccio: in fondo il Decamerone costituisce tuttora un modello di fuga fisica ma soprattutto intellettuale e “cortese” dalla peste nera (che imperversava a Firenze attorno al 1350) attraverso un indefesso esercizio dell’arte narrativa, spesso umoristica, e talora anche erotica, finalizzata soprattutto ad una specie di spiritosa (e magari licenziosa) evasione dalla realtà.
Più trascurata – ahimè! – immagino che sia, in ambienti governativi, la lettura (spero che per alcuni di essi si tratti almeno di una ri-lettura, ma non ne sarei sicuro per tutti!) di quel monumento di scrittura letteraria e civile che fu Alessandro Manzoni, veramente un grande della storia della nostra cultura.
Certo, il Manzoni, se tanto piaceva a Luigi Einaudi (che considerava i Promessi Sposi uno dei migliori trattati di economia politica che siano stati mai scritti), ben difficilmente – penso – sarebbe gradito al palato più rustico dei nostri Umanisti di governo, avvezzi a mettere le mani operose dappertutto, anzi, magari solo a desiderare di farlo, talora nemmeno avendone idea del come. Eppure, ne sono certo, due o tre capitoli del romanzo Manzoniano anche i Nuovi Umanisti farebbero bene a rileggerli; non dico – ovviamente – quelli sulla peste (sarebbe veramente benefico, per carità, ma, altrettanto veramente, sarebbe di cattivo augurio per noi tutti!), ma quello sulle gride sì! In fondo basta solo il I capitolo de I Promessi Sposi, sono solo poche pagine, anche chi non è andato molto avanti con gli studi (e non è il caso del Premier Umanista!) può arrivarci! Sono convinto, per esempio, che la (incerta) repressione delle uscite ripetute – ancorché solitarie e bardate – con la banale scusa della provvista alimentare al supermercato, ne trarrebbe un conforto di saggezza e di …senso (direbbe il Manzoni scorrendo uno dei tanti decreti di questi giorni: all’udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che al solo rimbombo di esse tutti i furbetti della spesa siano scomparsi per sempre.) [Forse dato il favor legis di cui godono i cani nelle cure dei nostri normatori, le uscite ripetute potrebbero essere concesse tutt’al più per i negozi di pet food; naturalmente purché vicini a casa del temuto furbetto, fortunato proprietario di cane magari un po' tonto. C’è materia per un prossimo decreto!].
Ma queste, lo riconosco, sono cose destinate a passare, non presto e non senza, purtroppo, tanti altri dolori; in fondo, forse, anche la lettura di questo capitolo, può essere trascurata. Majora premunt, direbbe qualche nostro ministro di studi classici. E avrebbe ragione (in fondo siamo secondi solo alla Cina per numero di contagiati e addirittura primi per numero dei morti, un primato che – stavolta – nessuno al mondo ci invidia).
Quella che ritengo, però, essenziale – anche per un Ministro sotto pressione – è la lettura del capitolo XXVIII de I promessi sposi perché la materia ivi trattata (era il capitolo che più piaceva ad Einaudi!) può essere di imminente attualità: la carestia. Eh! Sì, ci manca, dopo la peste anche la carestia! Intendiamoci: il concetto di carestia applicabile ai tempi presenti non significa necessariamente  carenza di cibo; ma grave shock della domanda e dell’offerta aggregate con effetti economici e finanziari molto gravi, sì! E la “botta” di questa nostra triste vicenda – l’abbiamo già detto qui – sarà dura, temo assai più di quanto intravvedano i Nuovi Umanisti e comunque ben al di là delle loro capacità di approntare soluzioni (che, del resto, per la natura dei problemi, non possono che travalicare le possibilità di intervento di un singolo Paese, specie se culturalmente e politicamente isolato).
E allora la lettura del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi a che potrebbe giovare? A non illudere (o illudersi), intanto, che l’abbondanza possa crearsi per decreto (con la galera e con la corda, direbbe Manzoni). 
E questo, in attesa del nuovo necessario, sarebbe già tanto.
Roma, 25 marzo 2020 (Festa dell’Annunciazione, si sarebbe detto una volta)

venerdì 20 marzo 2020

Letture dal lazzaretto

Il sentimento del ferro
(di Felice Celato)
Privato del calcio (fresco), del golf teletrasmesso (oltreché di quello praticato), delle partite di snooker fra maestri del biliardo e del sumo (ancora raro sulle nostre tv), allergico ad ogni talk-show, passo le mie giornate nella difficile pratica dei 10.000 passi quotidiani (lecitissimi perché ampiamente giustificati dalla spesa per tutte le famiglie della mia vasta famiglia e dalle esigenze della mia salute; e poi effettuati indossando il burka, da solo e a distanza di sicurezza, talora anche nella tarda serata, quando le strade deserte e i supermercati chiusi farebbero, per la verità, venir meno la giustificazione alimentare); e, ovviamente, nelle letture.
Non starò qui a parlarvi di quella che più mi prende (un corposo volume del Cardinal Ravasi sull’Antico Testamento, che sto cercando di incastonare nei miei appunti di storia dell’antico Israele), perché sarebbe troppo lungo parlarne; e poi, questo luogo (formalmente "laico") non è adatto per farlo diffusamente (come il libro meriterebbe); eccomi allora a segnalarvi un magnifico libro regalatomi da un amico ed adattissimo, per lunghezza e per capacità di avvincere, al tempo disperso di questa “peste”.
Si tratta de Il sentimento del ferro, di Giaime Alonge (Fandango, 2019); apparentemente una specie di spy-story molto avvincente, ma sostanzialmente un romanzo storico nel quale la vicenda di una lunga vendetta fa da fil-rouge ad una crepuscolare storia del mondo negli anni compresi fra l’inizio della seconda guerra mondiale e il passato recente (dal 1941 tedesco al 1982 Honduregno). Il narratore è uno scrittore Italiano, padrone di un’ottima capacità narrativa che si dipana secondo una tecnica assai difficile: i personaggi, inizialmente dispersi nelle brume del tragico tramonto nazista, si vanno via via riducendo di numero per comporsi ed aggregarsi nelle pagine finali nelle quali si consuma la vendetta di un ebreo scampato alla barbarie della soluzione finale del problema ebraico; un testo drammatico e – come dicevo – molto avvincente, che si avvale anche di uno sforzo di documentazione ambientale a largo raggio, che vale a conferire alla narrazione la dignità culturale del romanzo storico.
Le quasi 500 pagine del libro (al quale l’editore ha voluto assicurare anche il beneficio di caratteri nitidi e sufficientemente larghi da non stancare la vista degli “anziani”, come troppo spesso accade ai libri corposi editi da editori avari) scorrono veloci, attraverso sequenze brevi, sfalsate nel tempo, nel luogo e nei personaggi, fino alla sintesi finale veramente bella.
Una lettura che mi sento di raccomandare ai lettori di questo blog, anche per i tempi "normali" dei quali sentiamo la nostalgia ed il desiderio: la “peste” finirà; e, forse, oltre al dolore per tanti (troppi!) morti, ci lascerà anche qualche insegnamento sul nostro mondo, sul nostro tempo meravigliosamente interconnesso, sulla struttura interdipendente della nostra “europeietà”, sui tanti errori che abbiamo commesso quando ci siamo cuciti addosso una impossibile dimensione valligiana con ingenue venature etno-identitarie, sul nostro comune patrimonio di umanità.
In fondo le vicende da cui prende le mosse Il sentimento del ferro non sono una “peste” così tanto lontana nel tempo da poterci permettere di considerala un argomento per storici, perché (come scrive Camus nell’ultima pagina del suo capolavoro) il bacillo della peste non muore nè scompare mai,… può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, …aspetta pazientemente nelle camere da letto , nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, …e forse [potrebbe venire] il giorno in cui, per disgrazia e monito degli uomini, la peste [avrà] svegliato i suoi topi e li [avrà]  mandati a morire in una città felice.
Roma, 20 marzo 2020, vigilia di primavera.



martedì 17 marzo 2020

Cronache dal lazzaretto / 4

Il narcisismo civico
(di Felice Celato)
E’ naturale che la cronaca di questa pandemia, associata alle (inevitabili) misure di contrasto al contagio, produca (specie in chi guarda ai numeri) un umore irritabile, aggravato dagli (inevitabili) fastidi di ogni limitazione alla propria libertà di movimento, quand’anche necessariamente da sopportare con pazienza, costanza (e ragionata disciplina). Suppongo che sia così per ciascuno di noi, perché ciascuno di noi amerebbe essere – nei limiti del lecito – pienamente arbitro delle proprie scelte, anche per il proprio tempo libero (che nel mio caso è anche ampio).
Io però, come forse qualche lettore avrà già realizzato da tempo, non ho proprio bisogno di stimoli esogeni per sviluppare insofferenze ed orticarie intellettuali di ogni genere: starei per dire che mi sento geneticamente soggetto a fastidi ambientali; una malaise pericolosamente aggravatasi con l’età (detto in termini più crudi: so di essere un rompiscatole e non ne provo rimorso!).
Detto ciò come disclaimer personale (e come avvertimento al lettore: se cercate sollazzo, interrompete la lettura di questo post), vorrei confessare ai miei venticinque lettori che la pur agiata vita nel lazzaretto non mi risparmia da un intenso prurito diffuso (negli arti, soprattutto superiori) che mi assale quando vedo diffondere, con ingenua incoscienza, i piccoli germi (sic!) di scontate retoriche che tendono ad esaltare la (presunta, presuntissima!) superiorità (mentale? Umana? Morale? Civile? Civica? Storica?) del nostro essere Italiani, come “viatico” di un futuro per definizione luminoso, direbbe qualcuno: doverosamente e meritatamente luminoso.
Che non sia così, nessuno – neanche il più ingenuo dei retori di siffatta deriva – lo può ignorare (saremo anche diffusamente ignoranti di storia, ma, certamente, almeno quella più recente parla chiaro a tutti, e tutti – sol che ne abbiano la voglia – possono leggerla nei fatti);  e tuttavia si ritiene – anche qui incoscientemente – che tale retorica possa giovare a cementare il paese nella prova, a svilupparne le (per la verità assai scarse) virtù civiche, a potenziarne la resilienza; insomma: che ci faccia bene come collettività (oltre che, talora, come individui portati al canto a squarciagola e allo sbattimento di coperchi, meglio se sui tetti,  come “piattisti” di una festosa banda di paese).
Bene: è mia precisa convinzione, invece, che questo tipo di retorica – al di là delle orticarie che personalmente mi provoca – abbia una congerie di risvolti negativi (per tutti) che sopravanzano largamente il beneficio del far baccano sui tetti, cantando cantando. Temo di vederne i segni già in diversi articoli di stampa che usano banalità “nazionaliste” per temi che richiederebbero molta ponderazione delle parole.
Bisogna stare molto attenti: al di là del fatto che nella storia (non solo nostra) le auto-esaltazioni non hanno portato mai bene (mi viene spesso in mente, per quanto ci riguarda, il popolo in fiamme di festa il 18 settembre 1938 a piazza dell’Unità d’Italia di Trieste o a piazza Venezia il 10 giugno 1940), c’è anche da temere che il mito di Narciso, consumato dalla vana passione di sé, ci trascini nel lago sul quale si rispecchia la nostra immagine.
Il nostro paese è gravato da una congerie di problemi non lievi (di quelli economici e finanziari abbiamo già detto tante volte; ma ci sono anche quelli sociali, quelli culturali, quelli demografici, etc); non recenti (rimando al volume di Salvatore Rossi qui segnalato qualche settimana fa, che copre l’ultimo cinquantennio di strade sbagliate percorse con baldanza); non facili da risolvere in contesti favorevoli, addirittura impervi in quelli sfavorevoli (e il presente è molto sfavorevole, per non dire drammatico); onestamente, credo, non alla portata del nostro presente politico. Cantarci le serenate non serve. E men che meno serve auto esaltarsi, fino al punto di innamorarsi dei nostri mal fare. Molto meglio farebbe il prendere atto della realtà, il perdonarsi reciprocamente per la vastità degli errori commessi (da tutti, in varia misura), il concentrarsi su soluzioni che non producano altri mali.
Può darsi che le nostre virtù (perché certamente ne abbiamo; non in esclusiva, ma ne abbiamo!) vengano fuori nei momenti di emergenza (come si è pure constatato in alcuni passaggi non remoti della nostra storia); ebbene: questa è un’emergenza, e nell’emergenza la bocca serve per stringere i denti non per cantare! Non andrà “tutto bene” ma anche l’emergenza finirà.
Roma 17 marzo 2020

venerdì 13 marzo 2020

Cronache dal lazzaretto /3

Cupe attività motorie
(di Felice Celato)
“Forte” della prescrizione OMS di fare almeno 10.000 passi al giorno a tutela della salute; rassicurato in ordine alla piena liceità dell’attività motoria (quand’anche estranea a nobili finalità fisiologico-canine); bardato con burka regolamentare (lo scalda-collo di cui ho già detto); attento alle norme sulle distanze di sicurezza; insofferente, invece, ai meri consigli di stampo paternalista, quand’anche di buon senso; refrattario ad ogni simulazione (tipo: portati con te un pacco di riso, per poter giustificare l’uscita con ragioni alimentari) e tuttavia pronto – se necessario, dato il luogo – ad assumere un pesante passo da anziano praticante di jogging, mi sono impavidamente avviato, stamane, per una lunga camminata dentro Villa Pamphili, bella come sempre anche se – romanamente – tenuta molto male. 
Non so valutare se la frequentazione della villa sia stata in linea con quella di una normale giornata feriale (già, ma oggi è davvero una giornata feriale? Comunque non normale!), ma certamente non era deserta; c’era anche una pattuglia motorizzata della Polizia Municipale che – per quanto posso aver osservato – sembrava saggiamente intenzionata a non avviare controlli sulla natura autenticamente motoria dei numerosi cittadini in relax (né ad esigere autodichiarazioni di legalità).
L’occasione si prestava ad un “rimuginamento” da Camminatore Urbano, ancorché in versione da parco pubblico. Ed è stato inevitabile che mi avvitassi in ragionamenti (sconsolati) sul terribile conto di questa esperienza che certamente nessuno di noi avrebbe voluto fare. Si può grossolanamente stimare che questo nostro leggiadro paese produca ogni giorno, mediamente, 5 miliardi di Prodotto Interno Lordo (il famoso PIL); e siccome il PIL è la sommatoria dei valori aggiunti di tutta la baracca (ricavi meno costi esterni, quindi quanto "rimane" per remunerare lavoro e capitale), si può (sempre grossolanamente) stimare che una parte non secondaria di questa ricchezza quotidianamente prodotta stia andando in fumo, per lo meno per quanto riguarda le tante attività “sospese” (si pensi, a Roma,  al commercio e ai sevizi turistici) o gravemente limitate. 5 miliardi per 20 giorni fanno 100 miliardi di PIL; a ciò - senza contare il riflesso industriale della situazione - è ragionevole aggiungere l’effetto della caduta delle prenotazioni turistiche almeno per l’estate che arriva. La “botta”, insomma,  si avvia a superare molto probabilmente quella che l’economia italiana subì nell’ormai lontano 2008 (quando il PIL, su base annua, calò di una settantina di miliardi).
Di fronte a questa mezza catastrofe (economica, finanziaria ed occupazionale), come mi è parsa la reazione degli Italiani, per come la si può giudicare solo guardandosi intorno? Direi seria, nel complesso: cautele quasi ovunque rispettate, talora con vaghe ironie ma con insolita serietà complessiva; che tuttavia non ha impedito (e anche questo è un dato positivo) la consueta esplosione dell’innata (e gradevole) nostra capacità di sorridere, che si è manifestata in una pletora di video e di battute (più o meno spiritose) per sdrammatizzare, nei limiti del possibile. Meno adeguata alla circostanza, invece, mi è risultata la congerie di retoriche consunte sulle capacità del paese di uscire dalle difficoltà del presente, quasi come per appropriarsi di una virtù (la resilienza) che certamente non ci è esclusiva.
Meno chiara mi pare ancora la percezione della gravità delle conseguenze di quel che ci accade, col consueto spostamento dell’ottica dall’economia alla finanza (stanziamenti, sforamenti, deroghe, etc): non sarà la finanza (che pure è una leva da attivare) a salvare il futuro se non ci sarà una svolta economica, che – per la verità – non mi pare nelle corde della nostra autocoscienza, almeno per come da diversi anni ormai essa si è manifestata nella percezione politica della natura dei nostri problemi. Purtroppo non servirà a nulla cantare a squarciagola l’inno di Mameli.
Ma è sicuramente troppo presto per tirare le somme di queste vaghe sensazioni: in fondo il morbo infuria ancora e con ritmi di crescita impressionanti (negli ultimi 5 giorni i casi e i decessi sono, rispettivamente, più che raddoppiati e più che triplicati, anche nelle zone rosse istituite per prime). Vedremo nei prossimi giorni, con speranza ma con grande ansia.
In questo blue mood, mi ha commosso che alcuni (non molti, per la verità) abbiano fatto notare che io resto a casa vale solo per chi la casa ce l’ha.
Roma 13 marzo 2020

mercoledì 11 marzo 2020

Cronache dal lazzaretto / 2

Il C.U.R. nella peste
(di Felice Celato)
Dal capitolo XXXV dei Promessi sposiS’immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila appestati; quello spazio tutt’ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichìo, come un ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì, sopraffatto e compreso. Questo spettacolo, noi non ci proponiam certo di descriverlo a parte a parte, né il lettore lo desidera; solo, seguendo il nostro giovine nel suo penoso giro, ci fermeremo alle sue fermate, e di ciò che gli toccò di vedere diremo quanto sia necessario a raccontar ciò che fece, e ciò che gli seguì.
Dunque il “vostro giovine” oggi si è avventurato nel "lazzaretto romano" (per la buona ragione che considera un libro come bene di prima necessità e la camminata come attività motoria consentita; e dunque passeggiata – SOLITARIA e munito di uno “scaldacollo” tirato su a mo’ di mascherina – fino alla libreria Feltrinelli di Piazza Argentina – regolarmente aperta –, con fugace affaccio nella Chiesa del Gesù, anch’essa aperta ma con ingresso laterale, monitorato da sagrestano con “mascherina”).
Se il “vostro giovine” fosse un “buon” giornalista, parlerebbe di città spettrale o di scenari surreali; ma essendo solo un modesto raccontatore di camminate eccolo a dirvi che, in giro, non c’era una cane (si fa per dire, perché qualche passante mascherato e con cane al guinzaglio in – lecita – missione fisiologica c’era); qualche piccola fila (esterna) alle farmacie e ai supermercati; tram del ritorno (l’8) vuoto (3 persone con mascherina in aggiunta al “vostro giovane” mascherato – come sopra detto – con lo “scaldacollo” usato come un burka, in altri tempi additato come pericolo per la sicurezza).
In libreria (di solito gremita a tutte le ore) 5 clienti a distanza regolamentare, anch’essi con mascherina; alle casse, un apposito cordone garantisce la distanza fra cassiere (con mascherina) e l’eventuale cliente.
Il caffè di mezza mattina – solo al tavolo (il servizio al banco è proibito), servito dal barman con mascherina – è stato bevuto in assoluta solitudine, l’inutile cucchiaino accostato alla tazzina e immerso in un bicchierino colmo d’acqua.
La Chiesa vuota (o meglio, a distanza di super-sicurezza – una dozzina di metri – c’era una fedele ) risplendeva di luce solare, per la bellissima giornata; ma alle 12 veniva chiusa e i due fedeli (il “vostro giovine” e l’altra fedele) invitati a sgombrare, quasi subito. Lo Spirito Santo, ha immaginato il “vostro giovine”, sorrideva benevolo, forse rassicurato dalla pronta adesione dei Vescovi Italiani alla sospensione delle messe nel tempo della peste.
Al ritorno ho attraversato (sempre con lo “scaldacollo” indossato a mo’ di burka) un mercatino di quartiere, di solito affollato ma oggi vuoto, coi commercianti tristemente presi dall’attività di riporre il largo invenduto.
Speriamo solo che serva (e che le conseguenze non siano disastrose come ora ci pare). Ciò che ne seguirà, a noi (differentemente da quanto accadeva al Manzoni  al momento della narrazione del penoso giro di Renzo) non è noto.
Roma, 11 marzo 2020


domenica 8 marzo 2020

Cronache dal lazzaretto

Cercando di guardare avanti
(di Felice Celato)
Dunque, pare (cfr. Ourworldindata, v. link, sotto) che l’Italia sia il quarto paese al mondo per numero di casi da Coronavirus (dopo Cina, South Korea e Iran) ed il secondo per numero di morti (qui abbiamo largamente scavalcato     Iran e South Korea) [NB: i dati sono aggiornati a oggi].
E dunque la situazione, oltreché grave, è anche seria (coincidenza che da noi, si sa, è rara); e difatti il Governo ha emanato, notte tempo, misure di straordinaria rilevanza civica (sicuramente le più severe a mia memoria) che stanno trasformando il paese in un grande lazzaretto, come il nostro Premier Umanista paventava per paradosso solo qualche giorno fa. Rinviato il referendum (il che, dicevamo qualche post fa, è l'unico risvolto positivo della situazione), ma anche chiuse le scuole, le università, le attività culturali (musei, teatri, cinema, etc), drasticamente ridotta la mobilità interna (in alcune aree addirittura interdetta, salvo motivazione); persino le funzioni religiose, funerali, matrimoni, etc. e in generale tutte le manifestazioni che determinino assembramenti (ancorché non sediziosi), sono state limitate e talora precluse.
Non mi azzardo a fare considerazioni sull’utilità, l’adeguatezza e la proporzionalità delle misure adottate, trattandosi di emergenza per la quale è doveroso presumere (salvo prova contraria) la responsabilità (tecnica e politica) di chi le ha assunte. Se dovessi giudicare dalla quella recentemente mostrata dal Governo degli Umanisti in materia di civiltà giuridica del paese, dovrei solo tremare.
Più alla portata della mia debole vista è cercare di gettare uno sguardo sulle (prevedibili) implicazioni economiche di questa straordinaria lazzarettizzazione dell’Italia.
Cominciamo dalla finanza pubblica. Nessuno è tanto fesso da criticare l’adozione di misure economiche per fronteggiare (direi meglio: attutire) i disastrosi effetti dell’incidente che ci è capitato; semmai destano amarezza due considerazioni: la prima – contingente ma tipicamente nostrana – riguarda la gara al rialzo che si è aperta nell’invocare “stanziamenti” da parte di tutte le parti politiche (di governo e di opposizione); qui il coro è unanime: stanziam, stanziam, stanziamo, 5?, no! 10, no! 30, no! 50, no! 100 miliardi di € (tanto i soldi li prendiamo a prestito!). La seconda – permanente ma anch’essa nostrana – mi ha rimandato alla semplice morale di Esopo, quella della formica e della cicala: “Che cosa hai fatto durante l'estate, mentre noi faticavamo per prepararci all’ inverno?” “Io? Cantavo e riempivo del mio canto cielo e terra!” “Hai cantato?” replicò la formica: “adesso balla! Cari politici-cicale (che riempite del vostro vacuo canto cielo e terra), i conti in ordine (come dite voi e qualsiasi cosa voglia dire) si mantengono durante l’estate perché, appunto, l’inverno non ci sorprenda sprovvisti di mezzi per fronteggiarlo! Non vorrei che qualcuno (chessò, magari i famosi mercati) abbia a dirci: adesso ballate! Intendiamoci: non accadrà (o meglio: non prevedo che accadrà) durante questa contingenza. Ma accadrà, inevitabilmente prima o poi, con restrizioni della quantità o rialzi del costo del nostro accesso ai mercati. Ma ce lo ricorderemo? Tenderei a dubitarne (e comunque, di questi tempi, una nuova estate delle nostre condizioni economiche, per fare tesoro di quel che ci ha insegnato la sventura, mi pare lontana).
E veniamo, infine, all’economia reale del Paese: non occorre essere degli economisti per capire cosa sta accadendo sul piano della domanda: gli alberghi sono vuoti, negozi, bar e ristoranti quasi vuoti, le strade urbane sono percorribili come fosse ferragosto; l’Italia è indicata fra i paesi a rischio [NB: fra impatto diretto ed indiretto, il turismo vale più o meno il 13-14% del nostro PIL]. I negozi sono semi vuoti, supermercati a parte. Facile prevedere una forte flessione (speriamo temporanea) del PIL, da contrazione della domanda (non foss’altro quella legata al turismo).
Più difficile invece, per il momento, mi è la percezione degli effetti della “peste” (o meglio: della dimensione dei suoi effetti) sul piano dell’offerta: certamente, a parte le ubbìe di un subitaneo re-shoring (che avrebbe anche poco a che fare con la natura del problema che ci occupa), il colpo alla produzione (e alla produttività) ci sarà e sarà duro. Dunque facile attendersi, anche sul lato dell’offerta, un effetto pesante sull’occupazione e sul PIL (e, come noto, se cala il PIL ma aumenta il debito….).
Fin qui quello che con i miei occhiali (appannati) riesco a vedere davanti. Da cittadino e da cattolico mi sembrerebbe appropriata qualche novena; ma le funzioni sono sospese …fino a nuovo ordine del Governo degli Umanisti, si intende.
Roma 8 marzo 2020 (Festa delle Donne, ma non ho visto in giro molte mimose)
N.B. I dati di ourworldindata sono in continuo aggiornamento; il sito, visitato nuovamente alle 20,30 di oggi 8 marzo, ci pone ora secondi anche nel numero dei casi rilevati.
https://ourworldindata.org/coronavirus

mercoledì 4 marzo 2020

Lettura per due letture

I Gesuiti
(di Felice Celato)
Si presta ad una duplice lettura il corposo volume che segnalo oggi e che mi ha occupato, per molte ore, in questi ultimi giorni, fortunatamente in gran parte piovosi (di Gianni La Bella: I Gesuiti – Dal Vaticano II a papa Francesco, Guerini editore, 2019): la prima è ovviamente quella che ne ho fatto come cattolico e “amico” della Compagnia di Gesù; la seconda è quella che ne ho fatto come appassionato del nostro tempo, pur così difficile da interpretare e (spesso, almeno per me) da amare.
Forse la duplice lettura di cui sto per dire corrisponde al profilo culturale dell’autore, cattolico appassionato, sì, ma soprattutto storico di professione; o forse (anche) al profilo vocazionale dei pp. Gesuiti, al loro essere contemplativi nell’azione nel mondo e immersi in una missione per sua natura di frontiera (fisica e culturale), radicata profondamente (come del resto voluto dal loro fondatore) nella realtà in cui esercitano il loro apostolato nell’ambito della Chiesa Cattolica.
Fatto sta che – in questo volume – la scansione dell’inquietudine, storicamente tipica della storia dei Gesuiti, riflette chiaramente – nello scorcio di tempo considerato dall’autore – l’inquietudine dei nostri giorni, così convulsi nelle loro dinamiche  culturali e così vasti nelle loro connessioni; e perciò ne risulta, in qualche modo, l’espressione in corpore vili.
E, dunque la lettura del volume di La Bella finisce per essere, allo stesso tempo, quella di un testo specialistico sulla storia recente della Compagnia (documentato, attento, intelligente, nel senso etimologico della parola, ma anche di gradevole lettura, merito non secondario per un denso libro di oltre 350 pagine) e quella di una rassegna dei tempi, geo-politici e culturali, che hanno fatto da pro-vocatoria controparte alle vicende della Compagnia.
Scrivere un libro di storia recente è talora un rischio per l’autore, perché, magari, non sempre o non del tutto si sono depositate le scorie del tempo che possono offuscare la vista dell’analista; ma leggerlo è spesso un vero piacere perché, in fondo, nelle vicende rassegnate finiamo per rileggere parte della nostra diretta esperienza (in questo caso, di cattolici e di cittadini del mondo). E anche sotto questo punto di vista il libro mi è risultato molto interessante.
Veniamo brevemente al nostro consueto (in queste segnalazioni) tentativo di tracciare una (abusiva e mortificante) super-sintesi del libro. La storia della Compagnia di Gesù è – come sanno gli appassionati – costellata di “incidenti”, anche gravi, credo assai più della storia di ogni altro Ordine Religioso: espulso da diversi paesi europei nel corso del 1700, l’Ordine fu addirittura soppresso, nel 1773, dal papa (francescano!) Clemente XIV e ricostituito da Pio VII nel 1814. Nel periodo post-conciliare (e dunque poco dopo l’inizio delle vicende raccontate nel libro), la Compagnia di Gesù conobbe diverse difficoltà nei rapporti coi vertici della Chiesa (preoccupati di molti indirizzi teologici e disciplinari della Compagnia), sotto Paolo VI e – ancora di più – sotto Giovanni Paolo II che, fra il 1981 e il 1983, la affidò ad un suo delegato (p.Dezza), non fidandosi degli indirizzi che la Compagnia avrebbe potuto assumere per la successione di padre Arrupe, il Preposito Generale (il papa nero nella vulgata giornalistica) gravemente ammalatosi nell’agosto del 1981.
Da allora, per opera dei Prepositi Generali succedutisi, la Compagnia di Gesù ricostituì progressivamente la piena consonanza coi vertici della Chiesa (del resto naturalmente implicata dal famoso IV voto dei pp. Gesuiti), fino al 2013 quando, addirittura, per la prima volta nella storia, un gesuita fu eletto papa (Francesco, succeduto a Benedetto XVI), a chiusura (auspicabilmente) del tumultuoso periodo post-conciliare analizzato nel libro.
Una bella storia, nel suo complesso, quella della Compagnia di Gesù dei nostri anni; e anche appassionante, non ostanti le sofferte vicende; un ruolo fondamentale nella vita della Chiesa nel mondo, costellata di pagine di grande spessore apostolico  e culturale, come pure di confuse pulsioni lungo i margini della frontiera fra "mondo" e Santa Madre Chiesa; pulsioni, come accennavo sopra, anche indotte dalla complessa storia dei nostri tempi e dall’ampiezza degli scenari geo-politici nei quali si è sempre radicata l’opera missionaria dei Gesuiti.
Il libro dunque merita di essere letto, anche da chi non condivida la principale delle chiavi di lettura (quella ecclesiale); l’unico appunto che, da anziano, mi sento di fare è verso l’edizione fisica del libro, denso per contenuti ed idee ma anche di caratteri troppo chiari e minuti.
Roma 4 marzo 2020