venerdì 20 marzo 2020

Letture dal lazzaretto

Il sentimento del ferro
(di Felice Celato)
Privato del calcio (fresco), del golf teletrasmesso (oltreché di quello praticato), delle partite di snooker fra maestri del biliardo e del sumo (ancora raro sulle nostre tv), allergico ad ogni talk-show, passo le mie giornate nella difficile pratica dei 10.000 passi quotidiani (lecitissimi perché ampiamente giustificati dalla spesa per tutte le famiglie della mia vasta famiglia e dalle esigenze della mia salute; e poi effettuati indossando il burka, da solo e a distanza di sicurezza, talora anche nella tarda serata, quando le strade deserte e i supermercati chiusi farebbero, per la verità, venir meno la giustificazione alimentare); e, ovviamente, nelle letture.
Non starò qui a parlarvi di quella che più mi prende (un corposo volume del Cardinal Ravasi sull’Antico Testamento, che sto cercando di incastonare nei miei appunti di storia dell’antico Israele), perché sarebbe troppo lungo parlarne; e poi, questo luogo (formalmente "laico") non è adatto per farlo diffusamente (come il libro meriterebbe); eccomi allora a segnalarvi un magnifico libro regalatomi da un amico ed adattissimo, per lunghezza e per capacità di avvincere, al tempo disperso di questa “peste”.
Si tratta de Il sentimento del ferro, di Giaime Alonge (Fandango, 2019); apparentemente una specie di spy-story molto avvincente, ma sostanzialmente un romanzo storico nel quale la vicenda di una lunga vendetta fa da fil-rouge ad una crepuscolare storia del mondo negli anni compresi fra l’inizio della seconda guerra mondiale e il passato recente (dal 1941 tedesco al 1982 Honduregno). Il narratore è uno scrittore Italiano, padrone di un’ottima capacità narrativa che si dipana secondo una tecnica assai difficile: i personaggi, inizialmente dispersi nelle brume del tragico tramonto nazista, si vanno via via riducendo di numero per comporsi ed aggregarsi nelle pagine finali nelle quali si consuma la vendetta di un ebreo scampato alla barbarie della soluzione finale del problema ebraico; un testo drammatico e – come dicevo – molto avvincente, che si avvale anche di uno sforzo di documentazione ambientale a largo raggio, che vale a conferire alla narrazione la dignità culturale del romanzo storico.
Le quasi 500 pagine del libro (al quale l’editore ha voluto assicurare anche il beneficio di caratteri nitidi e sufficientemente larghi da non stancare la vista degli “anziani”, come troppo spesso accade ai libri corposi editi da editori avari) scorrono veloci, attraverso sequenze brevi, sfalsate nel tempo, nel luogo e nei personaggi, fino alla sintesi finale veramente bella.
Una lettura che mi sento di raccomandare ai lettori di questo blog, anche per i tempi "normali" dei quali sentiamo la nostalgia ed il desiderio: la “peste” finirà; e, forse, oltre al dolore per tanti (troppi!) morti, ci lascerà anche qualche insegnamento sul nostro mondo, sul nostro tempo meravigliosamente interconnesso, sulla struttura interdipendente della nostra “europeietà”, sui tanti errori che abbiamo commesso quando ci siamo cuciti addosso una impossibile dimensione valligiana con ingenue venature etno-identitarie, sul nostro comune patrimonio di umanità.
In fondo le vicende da cui prende le mosse Il sentimento del ferro non sono una “peste” così tanto lontana nel tempo da poterci permettere di considerala un argomento per storici, perché (come scrive Camus nell’ultima pagina del suo capolavoro) il bacillo della peste non muore nè scompare mai,… può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, …aspetta pazientemente nelle camere da letto , nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, …e forse [potrebbe venire] il giorno in cui, per disgrazia e monito degli uomini, la peste [avrà] svegliato i suoi topi e li [avrà]  mandati a morire in una città felice.
Roma, 20 marzo 2020, vigilia di primavera.



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