Il narcisismo civico
(di Felice Celato)
E’ naturale che la cronaca di questa pandemia, associata alle (inevitabili) misure di contrasto al contagio, produca (specie in chi guarda ai numeri) un umore irritabile, aggravato dagli (inevitabili) fastidi di ogni limitazione alla propria libertà di movimento, quand’anche necessariamente da sopportare con pazienza, costanza (e ragionata disciplina). Suppongo che sia così per ciascuno di noi, perché ciascuno di noi amerebbe essere – nei limiti del lecito – pienamente arbitro delle proprie scelte, anche per il proprio tempo libero (che nel mio caso è anche ampio).
Io però, come forse qualche lettore avrà già realizzato da tempo, non ho proprio bisogno di stimoli esogeni per sviluppare insofferenze ed orticarie intellettuali di ogni genere: starei per dire che mi sento geneticamente soggetto a fastidi ambientali; una malaise pericolosamente aggravatasi con l’età (detto in termini più crudi: so di essere un rompiscatole e non ne provo rimorso!).
Detto ciò come disclaimer personale (e come avvertimento al lettore: se cercate sollazzo, interrompete la lettura di questo post), vorrei confessare ai miei venticinque lettori che la pur agiata vita nel lazzaretto non mi risparmia da un intenso prurito diffuso (negli arti, soprattutto superiori) che mi assale quando vedo diffondere, con ingenua incoscienza, i piccoli germi (sic!) di scontate retoriche che tendono ad esaltare la (presunta, presuntissima!) superiorità (mentale? Umana? Morale? Civile? Civica? Storica?) del nostro essere Italiani, come “viatico” di un futuro per definizione luminoso, direbbe qualcuno: doverosamente e meritatamente luminoso.
Che non sia così, nessuno – neanche il più ingenuo dei retori di siffatta deriva – lo può ignorare (saremo anche diffusamente ignoranti di storia, ma, certamente, almeno quella più recente parla chiaro a tutti, e tutti – sol che ne abbiano la voglia – possono leggerla nei fatti); e tuttavia si ritiene – anche qui incoscientemente – che tale retorica possa giovare a cementare il paese nella prova, a svilupparne le (per la verità assai scarse) virtù civiche, a potenziarne la resilienza; insomma: che ci faccia bene come collettività (oltre che, talora, come individui portati al canto a squarciagola e allo sbattimento di coperchi, meglio se sui tetti, come “piattisti” di una festosa banda di paese).
Bene: è mia precisa convinzione, invece, che questo tipo di retorica – al di là delle orticarie che personalmente mi provoca – abbia una congerie di risvolti negativi (per tutti) che sopravanzano largamente il beneficio del far baccano sui tetti, cantando cantando. Temo di vederne i segni già in diversi articoli di stampa che usano banalità “nazionaliste” per temi che richiederebbero molta ponderazione delle parole.
Bisogna stare molto attenti: al di là del fatto che nella storia (non solo nostra) le auto-esaltazioni non hanno portato mai bene (mi viene spesso in mente, per quanto ci riguarda, il popolo in fiamme di festa il 18 settembre 1938 a piazza dell’Unità d’Italia di Trieste o a piazza Venezia il 10 giugno 1940), c’è anche da temere che il mito di Narciso, consumato dalla vana passione di sé, ci trascini nel lago sul quale si rispecchia la nostra immagine.
Il nostro paese è gravato da una congerie di problemi non lievi (di quelli economici e finanziari abbiamo già detto tante volte; ma ci sono anche quelli sociali, quelli culturali, quelli demografici, etc); non recenti (rimando al volume di Salvatore Rossi qui segnalato qualche settimana fa, che copre l’ultimo cinquantennio di strade sbagliate percorse con baldanza); non facili da risolvere in contesti favorevoli, addirittura impervi in quelli sfavorevoli (e il presente è molto sfavorevole, per non dire drammatico); onestamente, credo, non alla portata del nostro presente politico. Cantarci le serenate non serve. E men che meno serve auto esaltarsi, fino al punto di innamorarsi dei nostri mal fare. Molto meglio farebbe il prendere atto della realtà, il perdonarsi reciprocamente per la vastità degli errori commessi (da tutti, in varia misura), il concentrarsi su soluzioni che non producano altri mali.
Può darsi che le nostre virtù (perché certamente ne abbiamo; non in esclusiva, ma ne abbiamo!) vengano fuori nei momenti di emergenza (come si è pure constatato in alcuni passaggi non remoti della nostra storia); ebbene: questa è un’emergenza, e nell’emergenza la bocca serve per stringere i denti non per cantare! Non andrà “tutto bene” ma anche l’emergenza finirà.
Roma 17 marzo 2020
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