giovedì 31 maggio 2012

Silenzio


Al triste vento
(di Felice Celato)
L’avevamo previsto oscuro (“2012, un anno oscuro” post del 4 gennaio), quest’anno 2012 che si avvia a svoltare verso la metà calante. E tante cose – al di là di quelle troppo facili da prevedere – non avevamo né previsto né avuto ragione di immaginare: anche -ovviamente - il terremoto che uccide fra la forte gente d’Emilia e sbriciola capannoni, case, chiese e campanili; anche il corvo della camera papale; anche le goffe beghe vaticane; anche i nuovi scandali; anche la ripresa del terrorismo non avevamo potuto prevedere (sebbene, quest’ultima, avessimo ragione di temerla).
Ed ora, mentre si avvicina il periodo più luminoso dell’anno, mi viene in mente l’oscurità che prevedevamo; in larga misura, non fino a tanto.

La tristezza e lo sgomento che ci pervadono, mi richiamano alla mente la disperata poesia di guerra di Quasimodo, ispirata al canto degli ebrei deportati a Babilonia (Salmo 136): “Alle fronde dei salici, per voto,/anche le nostre cetre erano appese,/oscillavano lievi al triste vento”.

Al triste vento che ci scuote come uomini e come società e che solleva la polvere dalle macerie di Rovereto sulla Secchia, sale la domanda di sempre: perché anche il buon parroco che voleva solo mettere in salvo la statua della Madonna? Perché anche gli operai di Medolla, di San Giacomo Roncole, di San Felice e di Cavezzo, che lavoravano per far rifluire la vita? Perché tutti gli altri?

Al triste vento che ci scuote come fedeli, risuonano le parole del Papa nell’omelia pentecostale: “Non ci accorgiamo che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele….? Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro?”

Al triste vento che ci scuote come cittadini ondeggiano i timori sui recessi maligni dell’animo umano, le memorie di un periodo folle della nostra storia e le ansie per un presente che non riusciamo a governare (e che – così pare troppo spesso – fatichiamo a comprendere).

Al triste vento oscillano le nostre domande silenziose, alcune senza umana risposta, altre non senza umana vergogna. Le nostre cetre rimarranno, temo a lungo, appese ai salici, nell’attesa di una nuova breve speranza che si affianchi a quella lunga ed  antica.


Roma, 31 maggio 2012

sabato 26 maggio 2012

Partim dolore, partim verecundia


Storie, teologie e presente
(di Felice Celato)
Eccomi qua, con un post un po’ impegnativo. Tutto (o quasi!) nasce dalla lettura di un libro molto interessante (Il problema Spinoza, di Irvin Yalom, Neri Pozza Editore), abbastanza pesante per essere un romanzo ma molto ricco di riflessioni e di spunti: vi si intrecciano, in un’eccellente trovata romanzesca, le storie vere di due personaggi storici, Baruch Spinoza (filosofo ebreo del XVII secolo) e Alfred Rosenberg (criminale nazista e campione dell’antisemitismo), il quale non riesce a capacitarsi del “problema Spinoza”, cioè del perché un ebreo come Spinoza fosse tanto ammirato da grandi personaggi della “arianissima” storia culturale tedesca, come Goethe.
Il libro è, come dicevo un po’ pesante, non ostante la prosa brillante e scorrevole, non solo perché è molto lungo (circa 450 pagine) ma soprattutto perché Spinoza vi appare, per moltissime pagine, pressoché esclusivamente come il protagonista di conversazioni filosofiche e teologiche di grande significato speculativo.
Il tema che mi ha fatto molto riflettere è quello che pone Spinoza (grande contestatore della tradizione religiosa ebraica ed egli stesso espulso dalla comunità ebraica olandese per eresia) quando dice che non è stato Dio a crearci a sua immagine e somiglianza ma siamo stati noi a “costruircelo” a nostra immagine e somiglianza, con le nostre passioni (l’amore per l’uomo, prima di tutte) e il nostro senso del bene e del male, che contrastano col requisito essenziale della divinità infinita onnisciente e onnipotente, cioè con la sua necessaria imperturbabilità (ogni turbamento, in fondo, contrasterebbe con onniscienza ed onnipotenza).
Il tema è, come è facile intendere, legato alla struttura vetero-testamentaria (diremmo noi cristiani) della religiosità ebraica, ovviamente non “completata” (diremmo sempre noi cristiani) dalla rivelazione neo-testamentaria. Ma esso mi ha riportato ad un concetto della rivelazione vetero-testamentaria che mi ha sempre affascinato, cioè alla percezione dell’Antico Testamento come una (magistrale) teologia della storia, cioè come un’interpretazione in chiave teologica della storia del popolo ebraico operata dai redattori del VT (inspirati o non inspirati che siano stati). E quindi mi ha indotto a ripensare alla natura “sconvolgente” della rivelazione del NT, non un libro ma una via, una via rivelata (non a caso dice Gesù “IO sono la via, la verità e la vita”) che paradossalmente (spero di non risultare eretico io stesso) “scolora” anche il senso del Vangelo, così come la Chiesa (che si proclama – ed io credo sia – l’autentica erede della via) lo ha definito, per esempio stabilendo quali erano i Vangeli autentici e quali quelli “apocrifi”.
E dunque, è la Chiesa la fonte della rivelazione, più assai (Dio mi perdoni!) di quanto non lo siano i Vangeli (che in fondo sono “strumenti” – sia pure essenziali – di questa suo diritto ereditario sulla via).
Forse, anzi certamente, queste cose non sono nuove (lo confesso: sono quasi sicuro che queste non siano eresie, ma….. per prudenza ho chiesto e chiedo in anticipo scusa a chi ne “sa” più di me se proprio ho esagerato!) ma mi sono venute in mente con dolore (anzi, partim dolore, partim verecundia, come direbbe De Rita) nel leggere le cronache quotidiane che coinvolgono la vita della Curia e dei suoi goffi attori di questi giorni, autentici protagonisti di un umanissimo scempio dell’immagine della Chiesa. Per fortuna, ha detto il “povero” Papa oggi, la casa fondata sulla roccia non teme tempeste (la citazione non è precisa perché l’ho sentita per radio)…. ma certo di picconatori ce ne sono molti anche nel “recinto” Vaticano! E devo dire, non se ne sentiva proprio il bisogno! Si sentirebbe bisogno, invece, hic et nunc, di una scossa forte, ma proprio forte.

PS: il fondo viola mi è sembrato appropriato

Roma, 26 maggio 2012

giovedì 17 maggio 2012

Stupi-diario spaventato



Le file greche
(di Felice Celato)
Lo stupore (uno dei “pilastri” di questa rubrichetta) ha – ho scoperto l’altro giorno ascoltando una conversazione filosofica sullo stupore – nobili ed importanti “padri” nei sommi filosofi greci Platone ed Aristotele; il primo, addirittura, pone lo stupore alla base della filosofia: “E’ veramente proprio del filosofo il provare stupore; né vi è altro cominciamento della filosofia se non questo”.
Più recentemente, siamo nel secolo dei “lumi”, il discepolo di Gottfried Wilhelm Leibniz, Ernst Platner, filosofo egli stesso, ebbe a darne – dello stupore – una definizione che mi ha colpito: “Lo stupore è un forte e veloce scuotimento dell’attenzione verso un oggetto nuovo ed inatteso”.
Forte di questi alti conforti, ho accettato, con rassegnazione lo scuotimento che mi ha generato, l’altro giorno, una discussione fra amici e colleghi (tutti eccelsi conoscitori dell’economia e della finanza e assolutamente non sospettabili di inclinazioni pressapochistiche o – men che meno – leghistico-nazionalistiche) sui possibili esiti della confusa e paurosa crisi in atto sui mercati europei dei debiti sovrani (in particolare, come è ovvio, con riferimento alla attuale situazione greca e alla possibile, analoga situazione in cui si troverebbe l’Italia se si dovesse  abbracciare la tesi che l’unica via d’uscita dai nostri guai sia l’abbandono dell’Euro come moneta nazionale); insomma, (fatto nuovo ed inatteso) ci sono persone altamente qualificate che, quando possono parlare con la libertà che si usa fra amici, non escludono che la via da percorrere per noi sarebbe quella cui sembra (appunto: sembra) avviata la Grecia: è vero, ritornando alla lira, ci sarebbe una svalutazione massiccia che potrebbe alleggerire (in parte) il carico del debito pubblico e dare all’economia un (almeno transitorio) boost atto ad arrestare il processo di caduta del nostro sistema economico. E ci sarebbe una ricongiunzione della sovranità politica con quella monetaria (che nell’attuale assetto europeo sono separate). Ma le conseguenze sarebbero, a mio modo di vedere, talmente sconvolgenti, sul piano economico, politico e sociale, da lasciar prevedere…..l’imprevedibilità degli esiti, ferma restando la loro enorme gravità.
Un “assaggio” di tale dinamica l’abbiamo avuto ieri guardando  su un telegiornale – è sempre più penoso il farlo regolarmente – le immagini delle file dei Greci per ritirare dai conti correnti, pare, fino ad 1,2 miliardi di €  fra lunedì e martedì, nel timore della devastante crisi finanziaria che seguirebbe all’uscita della Grecia dall’Euro (e forse dall’Europa).
Forse i Greci, come ci dicono alcuni sondaggi, temono assai più dei loro irresponsabili politici – peraltro da loro recentemente eletti – questo possibile evento, a conferma di mie antiche perplessità sui limiti “emotivi” di certe scelte “democratiche” che mi fanno pensare alla nota – e provocatoria – definizione della democrazia che dava quel grande genio della letteratura moderna che è stato Jorge Luis Borges (“un curioso abuso della statistica”, mi pare); ed anche della frequente maggior saggezza del cittadino quando è lontano dall’ordalia “vendicativa” delle urne, eccitata dai populisti di turno.
Ci pensino bene gli Italiani, questo popolo di (forse ex) risparmiatori, un po’ faciloni e un po’ superficiali; ci pensino bene, alle file greche, alcuni nostri politici amanti delle scappatoie. E ci pensi bene anche e soprattutto l’Europa degli egoismi e delle indecisioni strategiche: forse, anche in questa materia, vale l’antico principio “electa una via non datur recursus ad alteram” (scelta una via, non si può ricorrere ad un’altra). L’Europa è la nostra via, e su questa via vanno fatti i necessari passi avanti per procedere, anche a costo di dover stringere con forza i denti (come a noi tocca di fare, rassegniamoci a questo) per “acciuffare”  tutte le opportunità di tornare a crescere, senza soluzioni “finanziarie e monetarie” di illusorio, transitorio e pericoloso effetto.
Oggi ho controllato: le file greche hanno scosso anche i più audaci sostenitori di soluzioni tanto radicali quanto sconvolgenti.
Roma 17 maggio 2012

sabato 12 maggio 2012

Uno sguardo al futuro


Il futuro di un paese  stanco
(di Felice Celato)

Forse qualcuno dei miei amici ricorda un breve video della BBC che nel dicembre del 2010 avevo trovato e raccomandato a tutti (chi non l’ha visto può, credo, ancora trovarlo su http://www.wallstreetitalia.com/article.aspx?IdPage=1046384; in sostanza il professore Hans Rosling del Karolinska Institutet di Stoccolma, portando indietro le lancette di 200 anni, traccia, nel video,  il percorso  del benessere mondiale in 200 paesi negli ultimi due secoli realizzando un suggestivo grafico dinamico dell’evoluzione economica del mondo.
Allora, nel commentare i quattro minuti di macro-storia economica dell’uomo contemporaneo, indugiammo brevemente nel considerare quanto queste dinamiche scoloravano di senso le nostre beghe di piccolo paese di un piccolo  e vecchio continente.
Oggi, vorrei tornare sul tema con alcuni interessanti stime economiche che ho visto formulate da una banca internazionale sulla base di dati forniti da fonti primarie di grande affidabilità: in sostanza, stavolta, si è cercato di guardare al futuro misurando l’evoluzione dei PIL attesi nei maggiori Paesi del mondo per il ventennio che va dal 2010 al 2030, per tracciare una classifica di peso economico e per vederne l’evoluzione attesa nel ventennio che viviamo.
Ebbene, come a tutti è noto, l’Italia ha un PIL che per dimensione risultava essere, nel 2010, il settimo del mondo (quante volte i nostri politici, forse pensando di portarne tutto il merito, ce lo ricordano: “siamo la settima potenza economica del mondo!”): in sostanza prendendo in esame i 13 paesi più ricchi, noi ne abbiamo 6 davanti (USA, Cina, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito) e 6 dietro (Brasile, Canada, Russia, India, Spagna e Messico). Siamo cioè, per dirla calcisticamente, al centro della classifica. Bene: questo nel 2010, su dati consuntivi. Questa “classifica” è stata poi proiettata sulla base dei dati attesi per il 2030 (cioè, ormai, fra “soli” 18 anni) e questi sono alcuni risultati: gli Stati Uniti non saranno più primi, ma secondi, fra la Cina (prima) e India (terza); il Giappone non sarà più terzo ma quarto, prima di Russia, Brasile e Regno Unito, mentre la Germania da quarta diventerà ottava, la Francia da quinta decima. E l’Italia? L’Italia non ci sarà più fra le tredici più grandi economie del mondo, scomparirà dal monitor delle economie più importanti , anche il Messico, la Korea ed il Canada la sopravanzeranno.
Conosco buona parte delle obiezioni che si possono fare alle suggestioni di questo discorso, prima fra tutte che il futuro è nelle mani di Dio (e va bene!), poi che il PIL non esprime appieno la felicità di un popolo, poi che bisognerebbe vedere i dati pro-capite, poi che in fondo l’ascesa di paesi come i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) è già da tempo scontata, etc. etc. etc. Tutte cose vere, intendiamoci. Ma vorranno dire qualcosa questi dati? O no?
A me sono sembrati eloquenti, tanto più significativi, anzi, quanto più si rifletta – ancora una volta – sulla qualità delle cose che ci occupano ogni giorno sui giornali; e sulle diverse dinamiche che l’evoluzione del mondo riserva a noi, non solo nei confronti dei nuovi paesi ricchi ma anche di quelli con cui più spesso ci confrontiamo (Germania, Francia, Regno Unito).
Nel 2030 avrò (se ci sarò) 81 anni, i miei figli ne avranno 57 e 54; mia nipote che allora avrà 20 anni potrà dire: “quando sono nata l’Italia era una potenza economica; allora sì che si stava bene. Mi raccontava mio nonno che in famiglia ognuno aveva una macchina…..”


Roma 12 maggio 2012

domenica 6 maggio 2012

"Per evitare il declino"


Spending review
(di Felice Celato)

L’attenzione che i media (giustamente, stavolta) dedicano all’argomento e le polemiche sorde ma verbose che circolano fra approccio dei “tecnici”, che forse talora sottovalutano la complessità del tema, e approccio dei “politici”, che si baloccano con argomentazioni elusive (quando si parla di tasse  invocano non meglio precisati tagli di spesa, quando si progettano concreti tagli di spesa  tornano ad invocare una tassa, magari patrimoniale, su non meglio identificati “ricchi”, e così via di fuga da realtà in fuga dalla realtà), mi hanno indotto a soffermarmi con maggiore attenzione su un tema che – in parte lo sapevo, in parte l’ho scoperto – mi pare intriso di sconoscenze, approssimazioni grossolane, credulonerie e strumentalizzazioni.

Un approccio serio alla materia mi è sembrato – e, devo dire, che me lo aspettavo – quello adottato in un difficile documento del Prof. Piero Giarda, Ministro dei rapporti col Parlamento (Elementi per una revisione della spesa pubblica, l’edizione che ho trovato su internet è del 1° maggio e suppongo non sia ancora quella definitiva;  va letto con molta attenzione e col conforto di una calcolatrice; ricostruire come si fanno i conti è cosa sommamente istruttiva!), dal quale ho tratto queste supersintetiche  conclusioni e qualche mia opinione:
  • la cosiddetta spesa aggredibile (cioè quella dalla quale ha senso concreto attendersi significativi risparmi) vale circa il 35% (300 €mildi) dell’intera spesa dello Stato (circa 800 €mildi/anno interessi compresi);
  • per effettuare questa “aggressione” occorre: (a) eliminare gli sprechi; (b) modificare le procedure di spesa; (c) fare interventi “marginali” sui confini dell’intervento pubblico; (d) fare interventi “radicali” sui confini dell’intervento pubblico;
  • la spesa aggredibile a breve, quindi con interventi del tipo (a) o (c), vale circa un terzo di quei 300 €mildi, diciamo un novantina di €mildi (singolare notazione del documento è che negli ultimi 30 anni il costo di produzione dei servizi pubblici è aumentato più del costo dei consumi privati! Ci sarà pure una ragione, o no?); per il resto - interventi di tipo (b) e (d) – beh….occorre attrezzarsi (culturalmente e politicamente);
  • rispetto a questa esigenza di breve periodo “non è facile innovare” rispetto alla procedura dei tagli lineari (di Tremontiana, deprecata memoria);
  • rispetto all’ esigenza di più largo respiro occorrono tempi medi e una disponibilità a ripensare seriamente molti dei modi in cui abbiamo organizzato il nostro Stato (rapporti centro-periferia), le sue procedure funzionali e, soprattutto, le sue aree di intervento.

Ce n’è abbastanza per il lavoro, necessariamente a breve (perché, fra l’altro, urgente), dei “tecnici” e per quello, di più lungo respiro, dei “politici”. Solo che si voglia e si riesca ad essere seri (e, per dirla tutta come me la sento, non è certamente con le mail della “ggente” che si è seri! Queste cose lasciamole fare ai capi-popolo! Ci sono già documenti sufficienti per lavorare, senza dare la stura all’opinionismo istantaneo cui il Paese è, peraltro, pericolosamente proclive!). Ce n’è abbastanza anche per un sincero esame di coscienza (dei “politici”, stavolta, e di chi li ha eletti) su come sono state concepite e realizzate certe riforme (volute o fatte per ragioni elettorali) che sono state presentate come “svolte storiche” (per esempio: la sanità regionalizzata!).
Sul piano dei “ripensamenti” del tipo (d), cioè interventi “radicali” sui confini dell’intervento pubblico, quelli che sarebbero il compito precipuo della politica (o meglio della nuova politica che spero per dopo “il purgatorio”), torno a segnalare un altro documento che è interessante rileggere e meditare (Perché l’Italia non si spenga, del professor P. Capaldo, leggibile sul sito www.perunanuovaitalia.it) ove si parla, con competenza e lungimiranza, della “rivoluzionaria” possibilità di autorganizzare alcune delle funzioni che lo Stato non ha saputo organizzare con efficacia, efficienza e attenzione alla qualità (anche umana) di certe sue prestazioni: l’alternativa, come dice efficacemente il documento (pag. 8 e seguenti), non è fra più Stato e meno Stato, ma per uno Stato diverso. Il tutto, per evitare (l’altrimenti inevitabile) declino.

Roma, 6 maggio 2012





venerdì 4 maggio 2012

Stupi-diario divertente


La Nemesi delle stupidaggini
(di Felice Celato)

Le vicende della ”tesoreria” della Lega obbligano ad un momento di pietoso sorridere: pare, dunque, (sempre pare, eh!), che il tesoriere della Lega volesse investire una somma rilevante nel paese dei “bingo-bongo” e che “i bingo-bongo” abbiano rifiutato l’investimento non sentendosi tranquilli della trasparenza dell’investimento. E pare, altresì, (sempre pare; il dubbio è d’obbligo ma il sorriso non si trattiene comunque) che il mancato Delfino (meglio noto come “Il Trota”), dopo le difficoltà sperimentate per conseguire una banalissima maturità italiana pur davanti ad una commissione “celtica”, abbia deciso, a spese della Lega, di trasferire la propria formazione nel Paese da cui provengono i temuti invasori “barbari” dei nostri sacri lidi, cioè in una prestigiosa università dell’ Albania.
Bene, se così fosse ci sarebbe di che ridere; ma, poiché non tutto quel che si scrive sui giornali è vero, noi ci limiteremo per ora a sorridere di questa eventuale inattesa propensione alla globalizzazione che verrebbe dai più aspri recessi dell’orgoglio nordista.
Se così fosse (ma non vorremmo proprio crederci) sarebbe proprio il caso di dire che anche le stupidaggini hanno una loro (salutare) Nemesi!

Roma (ladrona), 4 maggio 2012