venerdì 30 dicembre 2011

Addio 2011!

Lasciamoci così, senza rancore


 
(di Felice Celato)

 
Dunque si chiude il 2011, un anno denso di cose non buone; proviamo solo ad elencarle (forse ne dimentico qualcuna):

 
 l’incendio del Mediterraneo (l’abbiamo chiamato subito Primavera araba, ma….vedremo);

 
 la tragedia di Fukushima;

 
 la guerra di Libia;

 
 le violenze in Egitto e Siria;

 
 la strage di Oslo;

 
 la crisi dei debiti sovrani;

 
 la crisi Greca ed i balbettii dell’Europa;

 
 la crisi Italiana e le 5 manovre;
  1. il “decreto sviluppo” (maggio, Governo Berlusconi)
  2. la “manovra” di luglio (Governo Berlusconi)
  3. la “manovra” di agosto (Governo Berlusconi)
  4. la “legge di stabilità” (Governo Berlusconi)
  5. la “manovra” di Natale (Governo Monti)
 Fra le poche cose “buone” (per me): lo scudetto del Milan. Fra le poche cose buone, senza virgolette e sicuramente per tutti: l’allontanamento inglorioso del Governo ridanciano e godereccio che non credeva alla crisi, la gestione della crisi da parte del Presidente della Repubblica, il discorso del Papa al Bundenstag, la nomina di Draghi alla BCE.
Come al solito, basta una cosa buona per farne dimenticare tante cattive; e poi di cose cattive che possono diventare buone col tempo ce ne sono pur state: l’incendio del Mediterraneo che, appunto, può rivelarsi un’autentica primavera araba; ma anche la crisi del debito sovrano europeo può diventare una cosa buona, se l’Europa si sveglierà dal suo torpore istituzionale (diceva Monnet: “l’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni applicate”). Dalle poche cose buone del 2011, invece, non credo che possiamo aspettarci evoluzioni negative.

 
Ce ne è abbastanza per non portare rancore al 2011, che pure non abbiamo amato; temo non sarà facile nemmeno amare il 2012 (anno bisesto), per così come si prospetta; ma bisogna provarci!

 
Auguri a tutti gli amici lettori.

 
30 dicembre 2011

 

mercoledì 28 dicembre 2011

Stupi-diario di Natale

Grandi, piccole notizie
(di Felice Celato)



A conferma che in questa rubrichetta ( che, fin dal suo inizio, gioca sull’ambiguità fra stupore e stupidità) ogni tanto ci si stupisce anche di belle cose, copio,dal Corriere.it di oggi, questa notiziola:


Prima l'hanno denunciata e poi l'hanno portata a cena. I militari di Torgiano (Perugia) sono intervenuti in un supermercato dove i titolari avevano pizzicato una donna a rubare carne per un valore di 20 euro. L' intervento dei militari ha consentito di fermare la donna che stava tentando di allontanarsi e di recuperare l'intera refurtiva. Una volta condotta in caserma, la donna, una pensionata 60enne, ha ammesso con un certo imbarazzo le proprie responsabilità. Ma la storia non è finita con la stesura del verbale. Dopo aver raccontato ai carabinieri la dinamica del furto, ha spiegato i motivi del suo gesto, dettato dal fatto di non avere i soldi per fare la spesa e di non sapere come fare a sbarcare il lunario con la magra pensione. I militari, commossi dalla sincerità della donna, dato anche il periodo di feste, prima hanno fatto una colletta per farle la spesa e poi l'hanno invitata a pranzo. La pensionata, pur consapevole dell'errore commesso e per il quale risponderà di furto davanti alla magistratura di Perugia, non ha mancato di ringraziare i Carabinieri per l'umanità, la vicinanza e la gentilezza dimostrati.


Non ci sarebbe nemmeno da stupirsi, essendo ben noti il profilo umano dei nostri Carabinieri e le condizioni di effettiva indigenza di molti nostri pensionati; ma..... mi sono stupito lo stesso perché, sullo stesso giornale, pochi titoli più sotto, c’era anche quest’altra notiziola (che – mentre temiamo per la rabbia che serpeggia nel Paese – mi fa credere per un po’ che Natale non sia passato invano!):


Una famiglia già numerosa, un solo lavoro, una gravidanza inaspettata in un periodo di crisi. Ma l'aborto, già deciso con tanto di appuntamento fissato in clinica, è stato fermato dopo l'intervento di «padre Nike», al secolo don Maurizio De Sanctis, il sacerdote-ballerino al quale la coppia aveva deciso di comunicare la loro decisione. È successo a Livorno, nel quartiere «rosso» della Rosa, dove sarà la parrocchia ad adottare il nascituro. «La mia comunità parrocchiale ha un mutuo di 200 mila euro, ma un cuore più grande: oggi abbiamo salvato la vita di un bambino» ha scritto padre Nike sulla sua bacheca di Facebook il 20 dicembre, raccontando poi la storia ai fedeli della chiesa di Santa Rosa durante la messa di Natale.


La coppia abita proprio in zona, alla Rosa, storicamente tra le più a sinistra della città quando si aprono le urne, ma intorno alla cui chiesa gravitano almeno cinquemila persone. «Compreremo noi ciò che serve al bambino: la carrozzina, l'abbigliamento, il biberon. Tutto ciò che serve quotidianamente - assicura don Maurizio, laureato peraltro in psicologia, oltre che in filosofia e teologia - Solo così sono riuscito a convincere i genitori». Il dialogo tra il prete e la coppia è durato per ore, ma pur condividendo le idee del parroco sul valore della vita, i due erano rimasti scettici: lui lavora, lei no e le spese con tre figli sono già considerevoli. «Così mi sono giocato l'ultima carta e ho detto loro che li avremmo aiutati. Abbiamo fatto di questo Natale il nostro Natale - chiosa padre Nike - È stato come accogliere Gesù».


Due notizie “tenere” nello stesso giorno, in questi tempi amari sono fonte di stupore.

28 dicembre 2011

sabato 24 dicembre 2011

Lyssavirus rabies

La rabbia e la cognizione del male


(di Felice Celato)


Il Lyssavirus rabies, insegnano i veterinari, è il virus della rabbia (apprendo che la parola viene dal sanscrito “rabbahas” che vuol dire”fare violenza”), “malattia contagiosa che causa encefalomielite ad esito inesorabilmente mortale in tutti i mammiferi, uomo compreso”. L’Italia, però, dicono sempre i veterinari, dal 1997 è considerata paese indenne.


Mah! Sicuramente i veterinari, nel loro campo, hanno ragione e non c’è da temere dal punto di vista medico; ma io temo che il 2012 conoscerà una nuova epidemia della terribile malattia, nella sua manifestazione più pericolosa, distruttiva e pandemica: quella sociologica.


La situazione in cui per lunghi anni ci siamo crogiolati incoscienti e festosi è esplosa nel 2011 con le conseguenze che tutti sappiamo; le misure tardivamente adottate (ammesso, ma non concesso, che bastino, per entità e natura!) hanno colpito con durezza inattesa, producendo ulcerazioni sociali ed economiche che sarà lento guarire e delle quali sarà difficile lenire il dolore. Bene, anzi male: se fossimo stati meno cialtroni (Devoto Oli: cialtrone, dicesi di “persona volgare e spregevole, priva di serietà e di correttezza nei rapporti umani o che manca di parola negli affari”) non ci saremmo trovati nelle condizioni di dover fare quanto, frettolosamente, siamo stati costretti a fare con asprezza inusitata. Ma tant’è! Ora non ci resta che stringere i denti e guardare con speranza alle nostre risorse interiori, ai nostri stamina,come dicono gli inglesi per riferirsi alla capacità di resistenza, alla fibra, al vigore. E ci sarebbero ragioni, storiche ed umane, per credere che, anche stavolta, gli italiani possano farcela a trarsi dalla melma; se non ci fosse il Lyssavirus rabies (socialis).


Che invece c’è ed è già all’opera. Basta seguire i giornali (anche i più sorvegliati nel linguaggio) o i “dibattiti” sulla fiducia o le prese di posizione dei sindacati o gli yelling show televisivi. Anche i “buoni” politici (alla cui gestione del paese dobbiamo la situazione che ora è in atto) affilano le armi “dialettiche” in vista del posizionamento elettorale, con usurati “argomenti” di sapore radical-islamico (l’articolo 18 “non si tocca”, come una sura del Corano o come uno iota del Vangelo, il solo parlarne “è roba da matti”, la patrimoniale mai! etc. Già, anche le pensioni “ non si toccano”, l’età pensionabile, l’esenzione delle imposte sulla prima casa, i diritti acquisiti, etc., nulla si poteva toccare, prima che lo si dovesse toccare e toccare con mano pesante! E come se quella approvata, anch’essa a grande maggioranza, non sia una patrimoniale, sia pur rateizzata!). Non è bastata, per alcuni nostri politici, la paura del crack, è già dimenticata l’ansia per i (sempre più prossimi) rifinanziamenti del debito pubblico: ora, come dicono i miei amici di sinistra, “occorre tornare a fare politica”,ovvero, come lasciano intendere a destra, gestire “lo stacco delle spina”. Mah! Speriamo bene, anche se i risultati di un certo “fare politica” (dal governo o dall’opposizione) sono davanti agli occhi di tutti e la spina, quando era attaccata, non ha portato energia.


Ma quello che mi preoccupa non sono certo i vuoti proclami, presi in sé e letti alla luce delle mille retromarce (anche nell’ambito della stessa giornata) di cui possiamo anche ridere amaramente (o solo pensare, come fa un mio amico più indulgente di me, che siano la manifestazione di una non ancora superata adolescenza della nostra democrazia). All’origine della mia ansia sta, credo ben più fondatamente, il senso di rabbia rancorosa che serpeggia, anche comprensibilmente ma non per questo saggiamente, nella società ulcerata e che rischia di prendere rapidamente il posto di una diffusa e profonda (per dirla alla Gadda) cognizione del male, del male social-culturale che ci ha corroso per anni. La diffusione di un’idea continuista che “occorra tornare a fare politica” (intendendosi per ciò non decidere nulla e lasciare che il male avanzi, solo accompagnandolo col rumorare sincopato delle dichiarazioni tonitruanti o autoingannatrici ), che chi prende misure forti è l’espressione di poteri forti banco-pluto-cratici e anti-popolari, è un potente incentivo a questo scambio esiziale fra rabbia e cognizione del male, una nuova iniezione di populismo incosciente: nulla, di questa nostra politica, dovrà e potrà più essere come prima, dopo questa tempesta (che non è ancora cessata); se questa occasione di verità e di presa di coscienza che stiamo dolorosamente vivendo sarà anch’essa persa, se alla ragionata forza del comprendere dove abbiamo sbagliato (come paese e come cittadini) verrà sostituita la festosa o falsamente concettosa riproposizione dei vecchi stilemi politichesi, allora saranno guai e guai anche più seri di quelli ,seri, in cui già ci troviamo.


Ci pensino bene, i politici per bene: occorre isolare i portatori insani di Lyssavirus rabies: non ci serve la rabbia, anche se ci sorregge nei sondaggi, ci serve la comprensione del male e la sua cura tenace, ragionata e pietosa ( sì, pietosa!). E ci servono da subito i toni adeguati alla fase di cura (e questo vale anche per i politici per bene).


Jeffrey D. Sachs, eminente professore di economia e direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University, commemorando Vaclav Havel (di cui era stato amico) scrive (Ilsole24ore.it del 22 dicembre): “Il potere di dire la verità, quell’anno (1989) creò un abbagliante senso di possibilità”.


Ebbene, in questo cruciale momento della nostra storia recente, sappiano i nostri migliori politici riscoprire il gusto di dire la verità che per tanti anni è stata negata, nascosta, adulterata: l’Italia ha vissuto per anni al di sopra delle sue possibilità, finanziando l’insensatezza dei suoi cittadini (o anche solo dei suoi politici) con svalutazioni e debito pubblico (anche la tanto sbandierata solidità patrimoniale delle famiglie e, quando c’è, il loro apparente benessere hanno lì le loro radici); ora ricominciamo da capo, non “a fare (la vecchia) politica” ma a fare sacrifici per i nostri figli, come hanno fatto i nostri genitori all’indomani della guerra perduta.


E sappiano farlo, i politici, rinunciando a slogan vacui e pomposi, finti sdegni e focosi quanto effimeri slanci retorici: la rabbia,“malattia contagiosa ad esito inesorabilmente mortale in tutti i mammiferi, uomo compreso”, non è fonte di verità ma di confusione delle menti e dei sentimenti; l’unico modo per combatterla è la amorosa (sì, amorosa!) medicazione delle morsicature e l’ immediata somministrazione del siero (della verità).






24 Dicembre 2011, Vigilia di Natale


PS: leggendo, in questi giorni che hanno preceduto il Natale, alcuni indirizzi augurali (quello di Benedetto XVI ai cardinali della Curia, quello del card. Martini ai lettori del Corriere, ed altri) mi sono convinto – e per questo le ho sottolineate – che in alcune parole (pietosa e amorosa) che ho usato istintivamente e senza merito alcuno, può stare il senso di ciò di cui abbiamo più bisogno.









domenica 18 dicembre 2011

Humiles ad cunas

Natale 2011
(di Felice Celato)

Natale turbato quest’anno, ma non per questo non è Natale, anzi forse lo è più veramente.


Questo sofferto passaggio della nostra storia recente sta lasciando il segno pesante di ogni brusco risveglio: d’improvviso sulla estate rumorosa di troppi anni nei quali ci siamo nascosti l’evidenza dei nostri problemi (sì, l’evidenza!) è calato il gelido inverno del redde rationem.


E come sempre, quando il redde rationem arriva con foga violenta, forse non tutti i conti erano pronti per essere regolati secondo il giusto computo del dare e dell’avere (ci torneremo sopra, magari ad anno nuovo).


Ma, insomma, è pur sempre Natale, una festa che ci ricorda l’eterna scommessa di Dio sull’uomo, che ogni anno cancella il passato con il nuovo Bambino che riaccende la storia con vece mai doma, nuova ed eterna.


E per quanto turbato, il Natale è festa della speranza, speranza di un mondo nuovo, di una svolta vera e profonda, di una palingenesi umana, nel segno di Betlemme.


Non è proprio pensare, in questi giorni, ai rumori di fondo, ai gorgogliare osceni delle nostre pance che fanno temere che il nostro piccolo mondo non sarà del tutto nuovo come oggi – dalla festa – siamo chiamati a sognarlo, che il fondo oscuro dei nostri confusi pensieri ritorni a farci egoisti e grossolani.


Non pensiamoci, oggi, e, come il Bambino che nasce, guardiamo al mondo con fiducia ed incanto.


Auguri a tutti ma soprattutto ai nostri figli perché il Natale è la festa della loro speranza ed il nostro mondo il luogo del loro futuro (noi, più vicini al tramonto, abbiamo già goduto di lunghe giornate di sole, non sempre meritandone i raggi).


18 dicembre 2011

domenica 11 dicembre 2011

Racconti sul potere

Un libro (o forse due) da leggere



(di Felice Celato)

Sembra passato un secolo, ma solo poche settimane fa, nell’accennare, oscuramente, ai suoi rapporti col Premier, l’allora ministro Tremonti, che sembra si sentisse spiato, segnalò una lettura istruttiva: Il Presidente di George Simenon. Come è inevitabile in questi casi, deve esserci stata, nelle librerie, una forte domanda, curiosa di questo libro, se l’Adelphi, che lo aveva pubblicato nel 2007, lo ha ristampato e le librerie l’hanno posto al centro del banco di solito dedicato alle novità o all’esposizione della (eccellente) collana di cui Il Presidente fa parte.


Bene; a parte la curiosità suscitata dalla citazione, vale proprio la pena (o meglio: il piacere) di leggere questo romanzo, scritto da Simenon oltre mezzo secolo fa (1957) ma di straordinaria attualità ed anche di illuminante lucidità rivolta ai recessi del potere, dove l’informazione segreta, còlta lungo il confine esistenziale che ne determina l’irrilevanza, diviene, essa stessa, oscuro strumento del potere,


La storia (ambientata in Normandia) è costruita attorno alla (stupenda) figura di un vecchio ex Presidente del Consiglio (si disse, negli anni successivi alla sua uscita, che il libro alludesse a Clemenceau) che, giunto in prossimità della morte, si arrovella attorno all’uso di informazioni riservate accumulate durante la sua lunga carriera politica. Nella macerazione emotiva che ne consegue, il Presidente rivive le pagine, non tutte commendevoli, del suo lungo esercizio del potere, provandone un distaccato disgusto non disgiunto da una vaga indulgenza che l’approssimarsi della morte rende pietosa.


Analogamente ad un altro ben più recente romanzo sul potere (Elogio del silenzio di Boris Biancheri, Feltrinelli editore ) – di cui pure raccomando la lettura – il libro di Simenon costituisce una meditazione sulla natura ambigua e controversa dei modi attraverso i quali gli uomini si governano; qui (ne Il Presidente) con una chiave di lettura concreta e sofferente, lì (nell’Elogio del silenzio) in forma più paradigmatica e decontestualizzata, quasi metaforica; in entrambi però con commossa partecipazione.
11 Dicembre 2011




mercoledì 7 dicembre 2011

Outlook

Caute speranze

(di Felice Celato)
Attendendo le nuova manovra ci eravamo detti che eravamo certi che sarebbe stata dura (e dura, fors’anche durissima, è stata), che speravamo fosse equa ( e possiamo dire che si è tentato di essere equi senza, forse, esserci sempre riusciti), che confidavamo che fosse risolutiva (e qui non sappiamo ancora) e che infine temevamo che potesse essere depressiva (come sicuramente lo sarà, in larga misura in maniera inevitabile). Avremmo preferito una patrimoniale durissima one shot, invece si è andati verso una patrimoniale a rate (ICI, bollo, superbollo,scudati, etc) che manterrà più a lungo gli effetti depressivi, del resto propri di ogni tassa che comprime il reddito disponibile. Sulle pensioni si è andati giù con la mannaia, come forse era inevitabile dopo le stupide demagogie dei tanti anni passati. Sui costi della politica (rilevanti in gran parte solo a fini del costume) si è imboccata la strada giusta, ma siamo solo all’inizio; speriamo soprattutto che scompaia la cachistocrazia che ci ha afflitto negli ultimo anni.


La manovra è arrivata in tempi brevi, ancora è, secondo me, incompleta e carente sul lato propulsivo; ma, mi pare che la svolta nella coscienza dei problemi, nello stile proprio per risolverli, nella urgenza delle soluzioni ci sia stata e, per fortuna, prima che dovesse deflagrare lo shock che da tanto tempo pensavamo fosse necessario per svegliare il paese (avevo più volte pensato, con terrore, ad un’asta di titoli di stato che andasse deserta; per fortuna l’evento è stato solo evocato e lo scenario conseguente solo delineato a beneficio di chi non capisca che cosa vorrebbe dire).


Non è questa la sede per parlare delle misure; c’è abbondanza di analisi e di sintesi su molti giornali. Mi piace invece – nella presunzione di azzeccare le mie previsioni, rafforzata dalle esperienze di questa per me prevedibilissima crisi – abbandonarmi alle congetture sul dopo: che succederà quando la scena sarà restituita ai politici (diciamo marzo /aprile 2013)?


E’ pensabile che gli italiani, svegliati dalla “botta”, ritornino sui percorsi usati? Che siano disposti a rimettere in gioco chi è stato all’origine dei nostri mali? Che si perdonino le triviali banalità populiste e gli sciocchi demagogismi? Non lo so, ma non credo: l’operazione verità è appena cominciata; vediamo come prosegue e come saranno le reazioni di chi si vede inoculata una scarica di adrenalina dopo anni di tranquillanti euforizzanti. Ci sono due possibili linee di reazione: quella del costruttivo tutti a casa, piazza pulita, ritentiamo ex novo; ma anche quella temibilissima della foga rabbiosa becera ed irrazionale, focalizzata su fantasmi appositamente inventati. Credo che questa seconda ci sarà (la stimolazione frenoclastica e fantapoietica è già cominciata) ma non sarà prevalente (non praevalebunt; gli italiani sono superficiali e spesso giocherelloni ma non cretini; e già hanno letto sui propri libri di storia che cosa vuol dire abbandonarsi alle facili emozioni di piazza, o di prato, si direbbe oggi); credo anche che la prima avverrà solo in parte ma anch’essa avverrà, necessariamente (speriamo che avvenga almeno con precisione chirurgica la selezione fra chi assolutamente deve andare a casa, sia essa in Sardegna, in Brianza o alle Antille, e chi invece può restare, magari in prova di ravvedimento operoso). Dunque, per dirla nel convenzionale politichese, credo che ci ritroveremo con estreme più dure e, se possibile, più becere e un centro nuovo rafforzato, ancorché, forse, bicefalo: il tutto, speriamo, nel contesto di un' Europa che abbia saputo uscire dalla crisi più forte e più centralista almeno nelle politiche finanziarie e di bilancio (la cessione di sovranità in materia, lungi dall’essere un fantasma contro cui batterci, sarà un grosso passo avanti!).


Quanto c’è di irenico in questo esercizio di previsione? Non saprei dire, mi riservo di aggiustare il tiro nelle settimane a venire. Intanto è già una cosa da notare che la nuova situazione mi abbia indotto a formulare aspettative meno deprimenti di quelle che, però giustamente, avevo fino a qualche settimana fa.


Perché tutto ciò funzioni, però, occorre che la politica del denominatore (quello, cruciale, del rapporto Debito/PIL) dia i suoi frutti, anche se ancora non è fiorita. Se la sveglia resterà solo politica e non invece anche e soprattutto produttiva, imprenditoriale e temperamentale (o culturale, come scrive Zingales), allora non ci sarà manovra che tenga, il declino sarebbe irreversibile (il peso del debito, già opprimente, sarebbe insopportabile per chi non produce mezzi di rimborso). Vedremo, presto.


PS: mi sono divertito a formare parole nuove o quasi (cachistocrazia, frenoclastico, fantapoietico, etc); ma dati i tempi che tanto ci hanno avvicinato alla Grecia …. attingendo proprio al greco.


7 dicembre 2011, Sant'Ambrogio









domenica 4 dicembre 2011

En attendant Godot

"Lo scheletro contadino"
(di Felice Celato)

Aspettiamo trepidanti le misure del Governo, sapendo che dovranno essere dure, sperando che riescano ad essere eque (chi più ha più paghi), confidando che siano risolutive (come lo sarebbero misure patrimoniali per problemi patrimoniali), temendo che possano essere (involontariamente) depressive,auspicando che comunque vengano varate subito. Nel frattempo osserviamo, gelidi, forse spietati, il travaglio dei partiti (che non sanno più che cosa dire) e dei sindacati (che scelgono di dire vacue ovvietà, del tipo: contrasteremo le misure sbagliate, e quindi, aggiungerei a complemento “logico”, siamo favorevoli a quelle giuste!). Buona parte di ciò  che doveva accadere, sta accadendo; vedremo nelle prossime settimane come reagirà il Paese all’operazione verità che i partiti, nei troppi anni incoscienti e folli, non hanno saputo fare e che le circostanze hanno delegato a questa pallida Europa.


Nel frattempo, è arrivata la consueta boccata di ossigeno intellettuale e di passione civile che, come ogni anno, ci viene dall’annuale Rapporto del Censis (il 45°, quest’anno). A parte la congerie di dati molto interessanti (alcuni dei quali, se attentamente studiati, eviterebbero a molti di sparare pericolose panzane) sul modo di essere e di evolvere di questa nostra confusa società, ci sono, come sempre da leggere integralmente, le Considerazioni Generali nelle quali si coglie la colta mano sensibile, tagliente e pietosa, di Giuseppe De Rita.


Provo a sintetizzarne il senso, in larga parte usando (in corsivo, le  sottolineature sono mie) alcuni dei passi che mi sono sembrati più significativi:


Partim dolore, partim verecundia, cioè un po’ con dolore e un po’ con vergogna, abbiamo vissuto in questi ultimi mesi una retrocessione evidente della nostra immagine nazionale dovuta alla caduta del nostro peso economico e politico nelle vicende internazionali ed europee. Abbiamo scontato certo una triplice e combinata insipienza: aver accumulato per decenni un abnorme debito pubblico, che non ci permette più autonomia di sistema; esserci fatti trovare politicamente impreparati a un attacco speculativo che vedeva nella finanza pubblica italiana l’anello debole dell’incompiuto sistema europeo; aver dimostrato per mesi e mesi confusione e impotenza nelle mosse di governo volte alla difesa e al rilancio della nostra economia.
…….
Il ritorno a un obbligo di credibilità internazionale che è in corso nelle ultime settimane non ci esime dal corrispettivo obbligo di guardarci dentro con severità, per capire le coordinate elementari dei problemi che abbiamo di fronte, seguendo l’antica saggezza chassidica: “le parole fondamentali sono quelle tra l’uomo e se stesso”.
…….
In questo complessivo affanno, non ci aiuta l’isolamento. Una società che aveva realizzato la sua ricostruzione post-bellica, il suo boom economico, la sua industrializzazione (di massa come di qualità) nell’alveo di una riconquistata appartenenza occidentale, di un primigenio protagonismo europeista e di una presenza planetaria del suo made in Italy, sembra oggi fuori dai grandi processi internazionali; al massimo, li rincorre faticosamente. Non ha più la potenza da socio fondatore della costruzione europea; non ha la forza di stare con pienezza di responsabilità nelle alleanze occidentali; non è partecipe di quanto sta avvenendo nell’Africa settentrionale, praticamente alle porte di casa; non ha rapporti sistemici con i rampanti free rider dell’economia mondiale (al massimo, li hanno i tanti imprenditori medi e piccoli presenti in quelle aree lontane); sta perdendo l’occasione di essere presente sull’asse di penetrazione verso l’Europa sudorientale (con il ritardo sulla Lione-Torino e con le difficoltà di fare del Nord-Est la piattaforma logistica di tale penetrazione).
……..
Per capire cosa ci sia sotto il carattere fragile, isolato ed eterodiretto della nostra attuale società occorre, con severità verso se stessi, capire perché i nostri più antichi punti di forza ‒ la collettiva capacità di continuo adattamento e i processi spontanei di autoregolazione (nel campo dei consumi come in quello del welfare, come in quello delle strategie d’impresa) ‒ non riescano più a funzionare come nel passato. E, ancora, realismo vuole che si prenda coscienza che l’adattamento e l’autoregolazione faticano a esercitarsi perché si è accentuata la dispersione delle idee, delle decisioni e del linguaggio:
- delle idee, perché……….;
- delle decisioni, perché……..;
- del linguaggio, perché…..;

È facile capire che diventa fatale, con queste dispersioni, il declino del dibattito socio-politico ………
Sembra quasi che esso segua una logica del “parlare per parlare” o del “parlare del parlare” che rende quasi inconsistente il pensiero collettivo: potrebbe ormai essere definito “pensiero povero”, non meritando neppure la vecchia e criticata, ma non indecorosa, connotazione di “pensiero debole”.
…….
Non è possibile pensare che di fronte a questa regressione del nostro sviluppo sociale, economico e civile si possa restare neghittosi e immobili, rimpiangendo lo sviluppo che fu e dubitando che “in noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento”.
……..
la crisi dura e un po’ scarnificante degli ultimi anni sta rimettendo in giuoco un carattere fondativo (anch’esso soggettivistico e antropologico) del solido “scheletro contadino”, che resta il riferimento quasi occulto delle nostre vicende di evoluzione sociale, anche se reso occulto e dimenticato dalle bolle di vacuità e banalità con cui abbiamo importato l’agiatezza e la modernità occidentali.
……
È quindi lo scheletro contadino, forse, la metafora più coerente con la nostra attuale innegabile fatica di vivere, di adattarsi alla crisi, di cercare di andare oltre la brutta stagione.
…….
Di qui, le cinque caratteristiche di questo scheletro contadino che De Rita intravvede come via d’uscita dalla presente condizione di “soli ma senza solitudine” e che individua ne: (1) il primato dell’economia reale; (2) la lunga durata; (3)l’articolazione socio-economica interna; (4) la relazionalità; (5) la rappresentanza, sociale e politica.


Dunque, se si vuole (e De Rita se ne è dichiarato incurante), il mood delle Considerazioni Generali si colora di terragno conservatorismo: La riproposizione potrà apparire un manifesto di orgoglioso conservatorismo, ma ha un sottile vantaggio: quello di esplicitare l’ipotesi che, se è giusto che uomini ragionevoli, quando serve, mettano ordine alla realtà, è anche accettabile qualche volta che sia la realtà a mettere ordine. In questo vale ancora San Tommaso: non ratio est mensura rerum, sed potius e converso.


Bene, fin qui la sintesi che solo nella parte in corsivo rende anche la colta piacevolezza della prosa.
In questi giorni di attesa, ci sia utile riflettere, con pietà ma senza risparmiarci lucidità dell’analisi. Se la ricarica delle nostre spente batterie deve passare per lo “scheletro contadino”, ben venga anche il terragno conservatorismo di De Rita, dopo tanti anni di altrui luccicanti banalità.


3 dicembre 2011