sabato 31 dicembre 2022

In morte di Benedetto XVI

Il lascito di un maestro

(di Felice Celato)

Con la morte terrena di Joseph Ratzinger, scompare per me il sommo maestro nella fede (non della fede che ha un Altro e Unico Maestro). Si allontana verso la casa del Padre colui che ne ha parlato e scritto per una vita intera con  parole che – via via che le scoprivo – mi si sono rivelate la miniera dalla quale attingere per “giustificare” tutti i passaggi intellettuali e spirituali che fanno parte del  “mio” cammino nella fede.

Questo patrimonio di conoscenza, che noi fedeli crediamo donato dallo Spirito Santo, a me è giunto ovviamente attraverso la Chiesa, la famiglia e l’ambiente che ho frequentato, varcando, nel tempo, l’infanzia, la giovinezza, la maturità e ora la vecchiaia. Ma nelle parole di Joseph Ratzinger e di Benedetto XVI si è via via arricchito per modo che il Dio, creatore e signore del cielo e della terra, si facesse, via via, il Senso (il Logos) di tutte le cose e della vita stessa, dell’amore e della morte.

Non coerceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est, amava dire Joseph Ratzinger citando Holderlin: quello spirito senza confini che porta in sé la totalità dell'essere, supera ‘il più grande’, tanto che per lui è piccolo, e si abbassa nel più piccolo, perché nulla è per lui troppo piccolo…. La fede cristiana in Dio comporta innanzitutto la decisione per il primato del logos sulla pura materia. L'affermare “Io credo che Dio esiste” include l'opzione in favore dell'idea che il logos, ossia il pensiero, la libertà, l'amore, non stanno soltanto alla fine, ma anche al principio; che il logos è la potenza che dà origine e abbraccia ogni essere… La spiegazione della realtà nel suo complesso non si trova in una coscienza universale o in una indifferenziata materialità; al vertice sta piuttosto una Libertà che pensa e, pensando, crea altre libertà, e in questo modo fa della libertà la forma strutturale di tutto l'essere.

Grande teologo (la teologia come interrogativo sulla ragione della fede), poi Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, poi papa Benedetto XVI, poi Papa Emerito, Joseph Ratzinger è stato un baluardo della fede e nel contempo un cultore della ragione, che, nel Logos, trova il suo fondamento.

Non mi mancherà, l’urbano eremita papa emerito, che pure seguiva la Chiesa nella preghiera, con trepidazione e con fede; perché, di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, seguiteranno a farmi compagnia i pensieri che ha allineato nel tempo e nei ruoli, spaziando con occhio di aquila sulle vie del cielo e della terra.

In questi giorni leggeremo molti commenti sulla figura storica di Benedetto XVI, sul suo papato, sulle polemiche che ha suscitato col suo amore per la Verità, sulle sue controverse dimissioni. Io, in queste righe destinate ad amici, sento solo il bisogno di aggiungere il mio tributo di gratitudine per quello che, con le sue parole e i suoi scritti, ha fatto per me come cristiano e cattolico, sorpassando ogni altro maestro nella fede.

Roma 31 dicembre 2022

 

 

lunedì 26 dicembre 2022

Il biglietto del clandestino

 Dal 22 al 23

(di Felice Celato)

Dunque, affrettiamoci a dare addio al 2022 (sperando che gli ultimi giorni non ci riservino altre sgradite sorprese)!

L’anno della devastante guerra vicino casa, della crisi energetica, del rimbalzo pandemico, della ripresa dell’inflazione, dell’insicurezza generale, delle minacce atomiche, etc., ci lascia sperare che il 2023 possa veramente (al di là degli auspici di rito decembrino) essere migliore dell’anno che lasciamo.[Per la mia innata propensione alla cautela, devo però ricordare quanto ci diceva un mio mitico capo, di Speranza tenace e di favella toscana, nel fare gli auguri di fine anno ai suoi collaboratori: rihordatevi sempre, però, che il peggio unn’è mai morto; e tuttavia, indefessamente speriamo, perché senza speranza siamo noi che siamo già morti!]

E dunque, ancora, speriamo: anzitutto, ovviamente, che la guerra finisca prima che sia possibile, perché nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra (dal radiomessaggio di Pio XII alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale). E fino a qui sono certo che siamo tutti d’accordo. 

Poi inevitabilmente le nostre individuali speranze si disperdono secondo i misteriosi criteri stocastici che distribuiscono nel tempo, nello spazio e nell’animo i nostri pensieri e le nostre sensibilità. I miei pensieri e le mie sensibilità (per tutto ciò che va oltre agli orizzonti strettamente personali) credo di averli qui esposti nel corso dell’anno e che sia inutile ricapitolarli, anche se solo per esprimere la speranza che qualcuno di essi o di esse si incarni nella realtà. Meglio, forse, rubare al Censis (56° Rapporto sulla situazione sociale del paese) la bellissima metafora del clandestino che viaggia sulla grande nave della storia [il corpo sociale prende la strada bassa, in presa diretta con l’emozione, rinuncia al contrapporsi fra declino e sviluppo, tra crescita e recessione e si affida ad un quotidiano inconsapevole, latente appunto, come un clandestino sulla grande nave della storia: né assente né presente] per proporre la collettiva speranza che la nostra società riesca, nell’anno che viene, a ….regolarizzare – sia pure mentre la navigazione è già in corso – il biglietto che ne legittima, appunto, la sua presenza sulla nave della storia.

Quanto al “luogo” dove lo si trova e al “prezzo” a cui questo biglietto si compra, la risposta sta tutta in questa bellissima citazione da Sant’Agostino che mi viene da un biglietto di un raffinato amico: Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi. Noi siamo, dunque, il nostro tempo, il “luogo” dove “si compra il biglietto” per il viaggio sulla grande nave della storia; e il “prezzo” è la rinuncia a quella “fiscalizzazione della realtà” (di cui dicevo qui in un post dell’agosto scorso) cui forse ci siamo lasciati avvezzare, tutte le volte che abbiamo creduto possibile trasformare ogni evidenza del reale che postuli faticosa – e talora dolorosa – gestione, in un qualcosa di gelatinoso che può, anzi deve, essere trasferito a carico del bilancio pubblico, per modo che ogni cittadino venga posto al riparo dalla realtà (direbbe Luigi Sturzo: con la bacchetta magica del potere statale).

Con queste caute aspettative, a tutti gli amici uno speranzoso augurio di un 2023 che le superi tutte.

Roma, 27 dicembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

domenica 18 dicembre 2022

Gli auguri di Natale

Dio non si stanca

(di Felice Celato)


Succisa virescit: tagliata alla base (succisa), vicino alla radice, la quercia scolpita sullo stemma dell’Abazia di Montecassino rigenera teneri rami fogliosi (virescit).

Questo può essere il senso del nostro Natale, nel tempo in cui le scuri violente dell’uomo hanno reciso il tronco delle nostre perenni speranze di pace.

Anche la nostra speranza, nel segno del Dio che eternamente ritorna a scommettere sull’uomo, è chiamata a rigenerarsi, nonostante tutto.

E allora, nonostante tutto, noi fideles, torniamo a guardare al Natale come icona vivente di questo eterno ritorno dell’Emanuele, il Dio-con-noi della profezia di Isaia (VII, 13 e seg.): Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto, il Signore vi darà un segno. Ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.

Certo, ci è difficile scorgere nuove foglie fra le macerie dell’Ukraina o, ancora più vicino a noi, sui campi aridi delle nostre umane miserie; ma per nostra fortuna, Dio non si stanca perché è innamorato delle Sue creature e ritorna a dare il Suo segno. A noi spetta, ancora una volta, di riconoscerlo, questo segno, di trarre da Lui la nostra speranza per nuove foglie, simbolo della vita; e di coltivarli, con l’amore e l’intelligenza che ci sono stati donati, questi nuovi rametti fogliosi, perché tornino a promettere una nuova quercia.

Dio non si stanca; noi forse sì, specie quando molte forze della nostra gioventù lentamente ci abbandonano. Ma Dio è la nostra forza, non invecchia il nostro Padre Eterno, non ci abbandona il suo Santo Spirito: ci sorride di nuovo nel Natale che viene; dalla grotta dove si è fatto uomo.

Auguri a tutti, fideles o non fideles, di trovare negli occhi del Bambino (e dei bambini) la luce che da sempre smarriamo per strada e che – stavolta, ancora una volta, perché è Natale – speriamo di trattenere.

 

Roma, 18 Dicembre 2022 (Ultima domenica di Avvento)

 

mercoledì 7 dicembre 2022

Segnalazione breve


L’uomo che guardava attraverso i volti 
( di Felice Celato) 

In queste giornate un po' convulse, mi sono immerso nella lettura di un nuovo libro di Eric Emmanuel Schmitt: L’uomo che guardava attraverso i volti (edizioni e/o, 2022, disponibile anche in ebook, ma uscito in Francia nel 2016). 

Un libro che raccomando ai miei lettori, come del resto credo di aver fatto su queste colonnine per diversi dei tanti racconti (se ne veda un piccolo elenco in calce al post del 27 aprile u.s.) di questo autore, a me particolarmente caro. 

Si tratta di racconto surreale e metafisico (c’è anche un’intervista a Dio!) costruito sui temi classici di questo autore, un intellettuale convertito al cristianesimo in età matura (vedasi il bellissimo racconto autobiografico ne La notte di fuoco, segnalato qui con un post del 19 dicembre 2019) ma perennemente inquieto (il mio dubbio e la mia fede camminano in parallelo lungo una frontiera comune, perché non abitano nello stesso paese; dice di lui sua figlia, che compare nel racconto: pur avendogli cambiato la vita, la grazia non aveva minato il suo umanesimo, se non “sfondando il soffitto” dentro di lui e rendendolo più aperto, più tollerante e meno incline al narcisismo antropocentrico). 

Il tutto, magistralmente montato su una trama avvincente (con un bell’intreccio di narrazioni, soprattutto nel finale), fatta di situazioni surreali, dove i morti di ciascuno costituiscono un invisibile patrimonio di relazioni lontane e un flusso di misteriose ingerenze metafisiche, nel bene e nel male. 

Insomma: un libro da leggere, godendone anche la tensione emotiva che sfocia in un sorprendente finale. 

A meno che, ovviamente, non ci si senta più attratti dalla metafisica del romanzo del POS, alla quale le cronache politiche dei nostri giorni aggiungono, anch’essi, un tocco di surrealtà. 

NB: Come avranno notato i miei più affezionati lettori, quest’anno – per la prima volta dopo tanti e solo per circostanze legate ad una tragica notizia pervenutami proprio mentre ne era in corso la presentazione – ho omesso la tradizionale noticella sull’evento del primo venerdì di dicembre: l’annuale Rapporto Censis, per me, da sempre, l’analisi più affidabile e stimolante delle vicende della nostra società nel flusso del tempo che scorre. Ma torneremo a parlarne quando avrò digerito almeno una parte del corposo volume (che non mi è ancora pervenuto). Per ora, lascerei alle nostre “meditazioni” questa fulminante sintesi, inclusa nelle Considerazioni generali: Il nostro paese, nonostante lo stratificarsi di crisi e difficoltà, non regredisce grazie allo sforzo e al rischio individuale, ma non matura. Riceve e produce stimoli a mettersi sotto sforzo, a confrontarsi con le ferite della storia, ma non manifesta una sostanziale reazione, vive in una sorta di latenza di risposta. 
Roma, 7 dicembre 2022

domenica 27 novembre 2022

Nonostante tutto

Avvento 2022

(di Felice Celato)

Da un’omelia di Benedetto XVI (2009) traggo questa citazione, come invito pressante alla speranza, per quanto impervio ci possa apparire il suo percorso hic et nunc.

Il significato dell’espressione “avvento” comprende (….) anche quello di visitatio, che vuol dire semplicemente e propriamente “visita”; in questo caso si tratta di una visita di Dio: Egli entra nella mia vita e vuole rivolgersi a me. Tutti facciamo esperienza, nell’esistenza quotidiana, di avere poco tempo per il Signore e poco tempo pure per noi. Si finisce per essere assorbiti dal “fare”. Non è forse vero che spesso è proprio l’attività a possederci, la società con i suoi molteplici interessi a monopolizzare la nostra attenzione? Non è forse vero che si dedica molto tempo al divertimento e a svaghi di vario genere? A volte le cose ci “travolgono”. L’Avvento, questo tempo liturgico forte che stiamo iniziando, ci invita a sostare in silenzio per capire una presenza. E’ un invito a comprendere che i singoli eventi della giornata sono cenni che Dio ci rivolge, segni dell’attenzione che ha per ognuno di noi. Quanto spesso Dio ci fa percepire qualcosa del suo amore! Tenere, per così dire, un “diario interiore” di questo amore sarebbe un compito bello e salutare per la nostra vita! L’Avvento ci invita e ci stimola a contemplare il Signore presente. La certezza della sua presenza non dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi? Non dovrebbe aiutarci a considerare tutta la nostra esistenza come “visita”, come un modo in cui Egli può venire a noi e diventarci vicino, in ogni situazione?

Altro elemento fondamentale dell’Avvento è l’attesa, attesa che è nello stesso tempo speranza. L’Avvento ci spinge a capire il senso del tempo e della storia come “kairós”, come occasione favorevole per la nostra salvezza. ….L’uomo, nella sua vita, è in costante attesa: quando è bambino vuole crescere, da adulto tende alla realizzazione e al successo, avanzando nell’età, aspira al meritato riposo. Ma arriva il tempo in cui egli scopre di aver sperato troppo poco se, al di là della professione o della posizione sociale, non gli rimane nient’altro da sperare. La speranza segna il cammino dell’umanità, ma per i cristiani essa è animata da una certezza: il Signore è presente nello scorrere della nostra vita, ci accompagna e un giorno asciugherà anche le nostre lacrime. Un giorno, non lontano, tutto troverà il suo compimento nel Regno di Dio, Regno di giustizia e di pace.

Ma ci sono modi molto diversi di attendere. Se il tempo non è riempito da un presente dotato di senso, l’attesa rischia di diventare insopportabile; se si aspetta qualcosa, ma in questo momento non c’è nulla, se il presente cioè rimane vuoto, ogni attimo che passa appare esageratamente lungo, e l’attesa si trasforma in un peso troppo grave, perché il futuro rimane del tutto incerto. Quando invece il tempo è dotato di senso, e in ogni istante percepiamo qualcosa di specifico e di valido, allora la gioia dell’attesa rende il presente più prezioso. Cari fratelli e sorelle, viviamo intensamente il presente dove già ci raggiungono i doni del Signore, viviamolo proiettati verso il futuro, un futuro carico di speranza. L’Avvento cristiano diviene in questo modo occasione per ridestare in noi il senso vero dell’attesa, ritornando al cuore della nostra fede che è il mistero di Cristo, il Messia atteso per lunghi secoli e nato nella povertà di Betlemme. Venendo tra noi, ci ha recato e continua ad offrirci il dono del suo amore e della sua salvezza. Presente tra noi, ci parla in molteplici modi: nella Sacra Scrittura, nell’anno liturgico, nei santi, negli eventi della vita quotidiana, in tutta la creazione, che cambia aspetto a seconda che dietro di essa ci sia Lui o che sia offuscata dalla nebbia di un’incerta origine e di un incerto futuro. A nostra volta, noi possiamo rivolgergli la parola, presentargli le sofferenze che ci affliggono, l’impazienza, le domande che ci sgorgano dal cuore. Siamo certi che ci ascolta sempre! E se Gesù è presente, non esiste più alcun tempo privo di senso e vuoto. Se Lui è presente, possiamo continuare a sperare anche quando gli altri non possono più assicurarci alcun sostegno, anche quando il presente diventa faticoso.

Roma 27 novembre 2022 (I° domenica di Avvento, inizio dell’anno liturgico Cristiano)

 

 

venerdì 18 novembre 2022

Il mantello

Appunti liberal-democratici

(di Felice Celato)

Diciamoci la verità: da qualche tempo (l’avranno notato i miei ventiquattro lettori) non mi va più di scrivere questi post, che pure per tanto tempo hanno costituito il filo conduttore di gradevoli (e interessanti) conversazioni asincrone con amici coi quali vale la pena di scambiare idee e visioni del mondo. Anche se gli stimoli della realtà che ci scorre dattorno (e nella quale scorrono le nostre vite) sarebbero tanti, complessi e sicuramente meritevoli della nostra attenzione (e delle nostre preoccupazioni), il soffermarsi su di essi mi pare un inutile esercizio ansiogeno, destinato ad essere travolto dall’ansia successiva (e anche da qualche rabbia, suscitata persino dalla quotidiana inevitabile lettura di qualche giornale). 

Come mi è stato insegnato, quando il vento è forte e fastidioso meglio avvolgersi nel proprio mantello e tenerselo stretto come se un semplice mantello possa costituire un rassicurante (o illusorio?)  ubi consistam per resistere ai venti.

Con questo spirito, imbottitomi di letture un po' fuori del tempo (per esempio: mi sono appassionato – con varie letture sull’argomento - alla figura di Abramo!), ho rivisitato con me stesso i fondamenti delle mie riflessioni politiche, non per impalcarmi a politologo (quale certamente non sono!), ma solo per confortarmi nei fondamenti della mia cittadinanza mentre spirano i venti.

Questo lungo post (ben più delle circa 750 parole che costituiscono “lo stile” di questi scritti) è una piccola relazione di questa (forse oziosa) rivisitazione.

Cominciamo dalle fondamenta: la nota citazione di Churchill (è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono finora sperimentate) andrebbe – a mio modo di vedere “ristretta” come segue: la democrazia liberale è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono finora sperimentate. “Ristretta” perché mi pare che la storia anche recente abbia chiaramente insegnato che possono ben sussistere democrazie illiberali, nelle quali, appunto, la democrazia è un mero meccanismo procedurale di formazione del potere all’interno di una comunità, meccanismo che, come noto (vedasi da ultimo il post Lessico e nuvole del 18 settembre u.s.) può essere anche radicalmente disgiunto dall’essenza liberale dei fondamenti statuali

Da un recente libro di F. Fukuyama (Il liberalismo e i suoi oppositori, Utet, 2022) traggo questa citazione del filosofo inglese John Gray: comune a tutte le varianti della tradizione liberale è una concezione tipicamente moderna di uomo e società […]. Sicché il liberalismo è individualista in quanto asserisce il primato della persona rispetto alle pretese di qualsiasi collettività sociale; egualitario nella misura in cui attribuisce a tutti gli uomini il medesimo status morale (….); universalista perché afferma l'unità morale della specie umana e attribuisce un'importanza secondaria alle differenze storiche fra società e forme culturali specifiche; e migliorista poiché considera tutte le istituzioni sociali e le strutture politiche passibili di miglioramenti e correzioni. 

Dunque – secondo il filosofo inglese non certo noto per le sue piene simpatie verso il liberalismo – è liberale quella democrazia che possa dirsi ad un tempo individualista, egualitaria, universalista e migliorista (nel senso appena detto).

Personalmente sono portato a riformulare (e semplificare) questi principi in termini che mi paiono più adatti al tempo ed ai contesti attuali. E quindi ad individuare come segue i tre punti cadine del “mio” liberalismo: (1) il primato e la centralità dell’individuo come elemento base della società; (2) l’iniziativa privata e il libero mercato come insostituibili strumenti di produzione della ricchezza e del benessere materiale dei cittadini; (3) lo stato – disciplinato nei suoi poteri dalla rule of law – come organizzazione degli individui per collettivamente essere difesi, per gestire l’amministrazione della giustizia, per tutelare il buon funzionamento del mercato, per legiferare (secondo procedure democratiche) in materia di convivenza civile nel quadro Costituzionale, per amministrare i beni pubblici, per gestire i rapporti internazionali, per regolare la fiscalità (senza pregiudicare il funzionamento dei mercati) e la previdenza sociale (nelle sue varie forme, finanziariamente sostenibili), per tutelare i più deboli (anche gestendo – sia pure in forma aperta alla concorrenza – scuola e sanità).

Per definire meglio il quadro nei contesti attuali, sembra opportuno soffermarsi sul tema della giustizia lato sensu (che in fondo, mi pare, costituisca il senso politico del profilo egualitario del liberalismo moderno), perché esso consente di inquadrare il tema degli equilibri sociali di cui anche il liberalismo più puro finisce per avere bisogno (se si vuole il concetto è quello del liberalismo inclusivo, di cui parlano Salvati & Dilmore in Liberalismo inclusivo, Feltrinelli 2021). Eccoci allora a quelle che io chiamo le tre giustizie politiche:

La giustizia commutativa

  • Il suo presupposto è il libero incontro fra la domanda e l’offerta di beni fra gli attori per la produzione della ricchezza.
  • I suoi strumenti sono il contratto ed il prezzo. Il suo “luogo” è il mercato.
  • Lo Stato ha il dovere e l’interesse a tutelarne il corretto funzionamento per la maggiore produzione di ricchezza e di benessere materiale dei suoi cittadini.

La giustizia distributiva

  • Il suo presupposto sta nella responsabilità morale dello Stato di tutelare i più deboli assicurando una efficace (e ragionevole) distribuzione della ricchezza prodotta dal mercato.
  • Il suo strumento principe è la tassazione.
  • Lo Stato ha il dovere e l’interesse di fare in modo che un’eccessiva tassazione non “deprima” il funzionamento del mercato.

La giustizia sociale

  • Anche qui, il  suo presupposto sta nella responsabilità morale dello Stato di tutelare i più deboli assicurando una efficace (e ragionevole) distribuzione della ricchezza prodotta dal mercato nonché un'accessibile parità di opportunità.
  • I suoi strumenti sono molteplici: la previdenza pubblica, l’accesso universale all’istruzione ed alla sanità, etc
  • Lo Stato ha il dovere e l’interesse a far sì che gli strumenti che usa siano, oltreché finanziariamente sostenibili, anche compatibili con la produzione di ricchezza e di benessere materiale da parte del mercato a beneficio dei suoi cittadini.

NB. Non esiste un interesse dello stato diverso da quello dei suoi cittadini.

Lo Stato, il produttore delle norme di primo grado all’interno della norma fondamentale (Costituzione) e della legislazione comunitaria che da questa trae legittimazione, ha inoltre, come già detto, il dovere e l’interesse a tutelare il corretto funzionamento dei mercati, perché essi sono la “macchina” che fa funzionare la produzione della ricchezza e del benessere materiale dei suoi cittadini (senza la quale anche la democrazia è a rischio).

Questo è il mio mantello per i tempi ventosi (del resto il mantello è un soprabito fuori moda, in uso ormai solo a qualche vecchio paesano).

Roma, 18 novembre 2022

(poco più di 1000 parole, comprese queste)

venerdì 4 novembre 2022

Segnalazione

Un libro…non ancora letto

(di Felice Celato)

Eccomi qua, dopo qualche settimana di perplesso silenzio, a fare una cosa che – se non fosse “giustificata” come dirò – suonerebbe assolutamente fatua: segnalo a tutti i miei 24 lettori (con piena convinzione di fare una cosa “intelligente”) un libro che non ho ancora letto, l’ho appena sfogliato, anche perché è appena uscito “per i tipi” di un raffinato editore (Cantagalli): si tratta del libro L’inesauribile superficie delle cose, di Sergio Belardinelli.

Veniamo alla “giustificazione”: il libro de quo non è altro che una raccolta degli articoli che l’acuto professore di sociologia dei processi culturali presso l’Università di Bologna ha scritto per Il Foglio, il giornale che leggo ogni giorno, insieme ad altri, ma l’unico, ormai, che leggo con piacere della lettura. E dunque gli articoli che costituiscono la silloge li ho tutti via via letti e tutti molto apprezzati per l’afflato culturale che mi lega (da umile homo mechanicus) a questo intellettuale appartenente alla sparuta schiera dei liberali & cattolici, della quale (sempre da umile homo mechanicus) mi onoro di sentirmi parte. [Sento già alcuni amici, specie i più giovani, mormorare: eh! vabbè! Belardinelli ha più o meno la tua età, è marchigiano come te, come te è nato e vissuto in un piccolo paese, vicino al tuo! Non nego che questi elementi biografici me l’abbiano reso ancora più “simpatico”, Sergio Belardinelli; ma posso dire di aver letto molti suoi libri – compresi quelli di narrativa – e di averli sempre apprezzati proprio per quell’affinità valoriale che mi pare di sentire con lui].

Torniamo al libro, usando alcune delle parole del prefatore (Matteo Matzuzzi, capo redattore de il Foglio): aderire alla “superficie delle cose”, come da titolo della raccolta, significa semplicemente senza (..) cercare significati nascosti o una complessità che il nostro secolo avverte come doverosa ma che, il più delle volte, non ha ragion d’essere. E ciò che un tempo si sarebbe detto banale, oggi è semplicemente la rappresentazione delle cose così come sono. Non sempre c’è un complotto, un senso da scoprire, una chiave nascosta. La realtà, spesso, è quella che ci appare e ci cattura con la sua franchezza. È questo il filo conduttore dei testi qui riproposti, che toccano sì molteplici temi, ma che hanno sempre al centro della riflessione l’uomo. L’uomo per come è oggi, smarrito e confuso, preda di mille e più tentazioni e stimoli, disorientato e spesso incapace di riconoscere un senso alla propria esistenza.

E alcune parole dell’autore quando “introduce” il suo libro: Il titolo che ho scelto per questa raccolta, L’inesauribile superficie delle cose, esprime bene una serie di raccomandazioni che, più o meno consapevolmente, mi hanno accompagnato fin da quando andavo al Liceo: mai guardare che cosa c’è sotto o dietro la realtà per comprenderla: ciò che si vede, la superficie, è sempre più che sufficiente; …. Come sintesi mirabile di tutto questo valgano le parole del signor Palomar di Italo Calvino: “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quel che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”.

Credo e spero che gli articoli qui raccolti esprimano bene il senso di questa adesione alla “superficie delle cose”, che considero non soltanto l’antidoto più efficace rispetto al rischio di confondere la realtà coi nostri desideri, ma anche un invito a prendere le cose con leggerezza, un modo di sentirci a casa nel mondo che abitiamo, nonostante tutte le possibili brutture, in barba a qualsiasi dietrologia o complottismo.

Attraversiamo un periodo difficile della nostra storia... Eppure proprio in questo tempo sembra crescere la consapevolezza di quanto sia grande il privilegio di essere europei. La libertà e la dignità di ogni uomo, le istituzioni liberaldemocratiche che ne sono scaturite, la volontà di difenderle anche a costo di duri sacrifici sono segni di una cultura, quella europea occidentale, della quale il mondo intero ha urgente bisogno. Il mondo ha bisogno dell’universalità inclusiva che irradia dall’uomo europeo. L’augurio è che questo libro, pur con leggerezza, possa offrire al lettore qualche motivo di riflessione e di speranza, al riparo dalle faziosità che sempre si accompagnano ai momenti cruciali della storia.

Anche chi, come me, avesse letto gli articoli di Belardinelli quando sono usciti su Il Foglio, troverà senz’altro interessante rileggerli, l’uno di seguito all’altro: diceva un mio lontano professore di Italiano che il bello dei giornali è anche quello di rileggerli quando il tempo li ha stagionati.

Roma, 4 novembre 2022 

 

sabato 15 ottobre 2022

Antichi e perenni linguaggi

Sia santificato il Tuo nome

(di Felice Celato)

Si potrebbe pensare – non senza qualche ragione - che, per un cattolico dichiarato ed appassionato come chi scrive (ancorché convintamente anche liberale), possa risultare di qualche conforto osservare come, nel nuovo quadro politico che sembra essersi delineato con le recenti elezioni, abbondino i riferimenti a qualche valore di cui egli stesso si sente partecipe; e come, anzi, molto spesso questi valori vengano espressi non come semplici orientamenti “ideologici”  ma addirittura come convincimenti religiosi, magari evidenziati da simboliche ostentazioni di devozioni Mariane o altrimenti “popolari”. In fondo gli Stati Uniti d’America da quasi settanta anni hanno adottato come motto nazionale il famoso In God we trust; e diversi Presidenti di questo paese non hanno esitato a richiamarsi esplicitamente a questa fede come fondamento e cemento della comunità nazionale (vedasi, per esempio, qui, il post del 14 marzo 2015 intitolato, appunto, In God we trust). 

Si dà il caso, però, che chi scrive non sia di bocca buona e anzi rivendichi, forse presuntuosamente, qualche maggiore raffinatezza di pensiero. Mi è venuto in soccorso un magnifico brano (tratto dal Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger) dedicato a quella invocazione (sia santificato il Tuo nome) che, ogni giorno, anche i bambini pronunciano nel recitare il Padre Nostro (Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome, etc). Provo a citarne qualche passo: La prima domanda del Padre Nostro ci ricorda il secondo comandamento del decalogo: “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio”. 

Ma che cos'è il nome di Dio? Quando ne parliamo ci torna in mente l'immagine di Mosè che nel deserto vede un roveto che arde, ma non si consuma… Mosè chiede a Dio il Suo nome, il nome con il quale questo Dio dimostra la sua particolare autorità di fronte agli altri dèi. L'idea del nome di Dio appartiene quindi inizialmente al mondo politeistico: in esso anche questo Dio deve darsi un nome. Ma il Dio che chiama Mosè è veramente Dio. Dio, nel senso vero e proprio, non esiste nella pluralità. Dio è per sua natura uno solo. Per questo non può entrare nel mondo degli dèi come uno dei tanti, non può avere un nome in mezzo a tanti nomi.  

Così la risposta di Dio è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di Sé semplicemente “Io sono colui che sono”, Egli è e basta. Questa affermazione è insieme nome e non nome... 

[Ma] che cos'è veramente un nome? Potremmo dire in modo molto semplice: il nome crea la possibilità dell'invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che cosa positivamente si è inteso col nome di Dio. Dio stabilisce una relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui. Ma ciò significa: Egli si consegna in qualche modo al nostro mondo umano. È divenuto accessibile e perciò anche vulnerabile. Affronta il rischio della relazione, dell'essere con noi… 

Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie presso il roveto ardente della Croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel Suo Figlio, fatto uomo. Egli fa parte del mondo, si è consegnato, per così dire, alle nostre mani. 

Da qui comprendiamo che cosa significhi la richiesta della santificazione del nome di Dio. Ora di Dio si può abusare, e così macchiare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così l'immagine di Dio. Quanto più Egli si consegna alle nostre mani, tanto più noi possiamo oscurare la Sua luce: quanto più Egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile….. Possiamo dunque soltanto implorare Lui stesso che non lasci annientare la luce del Suo nome in questo mondo. 

E questa supplica affinché Egli stesso si prenda cura della santificazione del Suo nome, …..tuttavia, costituisce sempre per noi anche un grande esame di coscienza. Come tratto io il santo nome di Dio? Sto con timore reverenziale davanti al mistero del roveto ardente, davanti all'incomprensibile modalità della Sua vicinanza fino alla presenza nell'Eucarestia, nella quale Egli si consegna davvero totalmente nelle nostre mani? Mi preoccupo che la Santa coabitazione di Dio con noi, non trascini Lui nel sudiciume, ma elevi noi alla Sua purezza e santità?

Sono certo che questo esame di coscienza possa riguardare tutti, me stesso per primo, naturalmente; devo anche sperare, però, che sia ogni giorno praticato anche da quelli che fanno più largo uso pubblicamente del nome di Dio.

Roma 15 ottobre 2022

 

 

 

 

 

venerdì 30 settembre 2022

Post-elezioni

Personalissimi punti saldi

(di Felice Celato)

Eccoci qua, dunque, giunti a questo post-elezioni, desiderato per saturazione di vacuità e dei rumori coi quali si è cercato di esorcizzarla. Gli Italiani (o meglio: meno dei due terzi di essi) hanno votato (con regole bizzarre volute a larghissima maggioranza dal Parlamento nel 2017) delineando un quadro politico fra i più nuovi di quelli che sono seguiti a ciascuna elezione, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del nuovo; perché il passato era (evidentemente) insoddisfacente per i più ed il nuovo è naturalmente inesplorato per tutti. I giornali sono pieni di commenti e non sarò certo io – come sempre rassegnato ad essere deluso da chi ha votato – ad aggiungere il mio.

Ripensando alla domanda ed all’offerta di politica (di cui abbiamo parlato recentemente e a tratto molto generale) mi è tornata in mente (curiosamente: mentre guardavo in TV l’ennesima replica del Montalbano de La forma dell’acqua) una citazione da sant’Agostino (già utilizzata qui, oltre sei anni fa, cfr. post Il problema dei contenitori, del 1° maggio 2016) che in qualche modo si applica biunivocamente anche a quell’incontro, appunto fra domanda ed offerta di politica, che si realizza – inevitabilmente – in ogni elezione: quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur (qualunque cosa viene ricevuta, viene ricevuta secondo la capacità di chi la riceve): gli eletti hanno recepito a modo loro, per come l’hanno interpretata, la domanda che veniva dagli elettori (più o meno coscienti di quel che domandavano); e questi, a modo loro, hanno recepito, come l’hanno capita, l’offerta che veniva da chi si candidava ad essere eletto (più o meno cosciente del vero da farsi). Il risultato compone il nuovo legislatore e comporrà (a breve) il nuovo scontato governo. W la democrazia (se è e resterà liberale, naturalmente, nel senso di cui dicevamo, da ultimo, nel post Lessico e nuvole di una dozzina di giorni fa).

Detto ciò, non resta che sperare, attendere e guardare con attenzione. Per quanto riguarda il mio passivo ruolo di inutile osservatore (che prova, però, ad essere attento, non foss’altro per rileggersi senza vergogna a distanza di tempo) i punti saldi (i criteri di giudizio, se vogliamo) sono quelli che ai miei lettori sono ben noti: liberal-democrazia (nel senso predetto), rule of law, più Europa federale, rigorosa responsabilità fiscale (e previdenziale), tutela dei (veri) più deboli, concentrazione sulla creazione della ricchezza (prima che sulla sua distribuzione), studio e lavoro, disciplina inclusiva e lungimirante dell’immigrazione e dell’integrazione, politica estera sulla traccia di quella portata avanti da Draghi.

Sulla base di questi punti saldi, osserverò quel che è venuto fuori dal volere del popolo, con la ferma speranza che, all’apparir del vero, molte delle parole spese nella campagna elettorale restino, almeno in gran parte, appunto, parole da campagna elettorale; e che il sistema politico non si annidi in un acquietamento di pensiero, maschera di ogni poco curata transizione (Censis, Rapporto 2021).

Roma, 30 settembre 2022

 

sabato 24 settembre 2022

Pro-memoria per il 25 settembre

Da ricordare

(di Felice Celato)

Spero di rendere un piccolo servizio ai miei affezionati lettori segnalando alcune cose da ricordare.


Anzitutto: domani 25 settembre è la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Mi permetto di suggerire a tutti, laici o credenti, di celebrarla leggendo (o rileggendo) la pericope evangelica che proprio domani chi va in Chiesa si sentirà proclamare dall’altare. Si tratta (lo preciso per coloro che non sono avvezzi a questa frequentazione domenicale) del brano che parla di un povero di nome Lazzaro [In quel tempo Gesù disse ai farisei: “ C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo. E ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe….]. Chi non lo ricorda, lo trova al capitolo 16 (vv. 19-31) del Vangelo secondo Luca (disponibile anche in ebook!) e può leggerlo per intero e meditarlo per suo conto. Bene: propongo a tutti noi di pensare ai migranti ed ai rifugiati che incontriamo lungo le nostre strade come fossero tutti il Lazzaro del breve discorso parenetico di Gesù.


Poi, domani 25 settembre, al tramonto comincia la grande festa ebraica di Rosh Hashanah (il capodanno ebraico) e l’augurio che tutti dovremmo ricordarci di fare ai nostri fratelli maggiori di fede ebraica è quello della loro tradizione: Possa il tuo nome essere inscritto e conservato (nel libro della vita) per un buon anno. In questa festa, il tradizionale suono dello shofar (un corno di montone fatto tromba) è destinato a risvegliare il popolo ebraico dal suo torpore, ricordandogli che sta per avvicinarsi il giorno in cui verrà giudicato. Secondo i racconti dei midrashim ebraici (strumenti della tradizione religiosa per illustrare e spiegare quelli propriamente biblici) Dio, assiso sul trono e con i libri che raccolgono la storia dell’umanità davanti a sé, prende in esame ogni persona per valutare se meriti o non meriti il perdono. 


Ah! Quasi dimenticavo: domani, in questa piccola crosta del mondo che abitiamo rumorosamente, si vota per una non prevista consultazione popolare sul governo che il paese (dove abita meno dell’1% della popolazione del globo) vuol darsi per i prossimi anni (o mesi?), mentre nel mondo ribollono fetidi umori, agitati da gelidi venti. Ricordiamoci di recarci alle urne, quand’anche – come è facile – ci abbia nauseato la campagna elettorale cui abbiamo assistito; anche facendo risuonare dentro di noi il lugubre suono dello shofar: magari di quello che verrà fuori da questo improvvido evento non resterà traccia nei libri che raccolgono la storia dell’umanità; forse però, nel libricino che riguarda questa piccola porzione dell’umanità che siamo noi, qualche sgualcitura è possibile. A Roma comunque è prevista tempesta (in senso meteo, naturalmente).

Buona domenica a tutti, in attesa di lunedì (fra l’altro è anche previsto un incontro Italia – Ungheria, ma di calcio per fortuna).

Roma 24 settembre 2022

domenica 18 settembre 2022

Lessico e nuvole (politiche)

 Una precisazione… pedante

(di Felice Celato)

Nel blue mood che caratterizza le mie aspettative elettorali (credo di averne parlato fin troppo nei post più recenti), l’ultima cosa che vorrei aggiungere per rendermi definitivamente pesante è una precisazione “lessicale” alla quale, però, sono molto affezionato (tant’è che più volte ne ho scritto qui).

Per dimostrare che non è una solo mia ossessione, lo farò prendendo in prestito le parole recenti di Francis Fukuyama (in Il liberalismo e i suoi oppositori, Utet, 2022) per la loro succinta chiarezza (ma il concetto è tutt’altro che nuovo): a rigore, liberalismo e democrazia sono basati su differenti principi e istituzioni. La democrazia si riferisce al governo del popolo, che oggi è istituzionalizzato in periodiche elezioni multipartitiche, libere ed eque, basate sul suffragio universale degli adulti. Il liberalismo (….) si riferisce allo Stato di diritto, un sistema di regole formali che limitano i poteri dell'esecutivo, anche se quello esecutivo viene democraticamente legittimato tramite un'elezione.

In sostanza siamo di fronte a due concetti di diversa natura (ma, nella mia visione, necessariamente “consustanziali”): procedurale, il primo, perché attiene al metodo di formazione della volontà politica di un paese (la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, come recita appunto il secondo comma dell’art. 1 della nostra carta costituzionale); il secondo, di natura effettivamente valoriale, perché attiene, appunto, ai valori (stato di diritto, primato morale della persona, eguaglianza, diritto all’autonomia, libertà di parola, di associazione, di fede, di vita politica, etc.) che incarnano le fondamenta di una convivenza civile.

Nel suo magnifico (e profetico!) libro (The future of freedom, Norton & Co., 2003, ormai quasi “ventenne” e qui più volte citato), Fareed Zakaria analizza in ottica globale le frizioni fra democrazia e libertà e i pericoli cui quest’ultima è talora esposta quand’anche uno stato possa dirsi – dal punto di vista meramente  procedurale – uno stato democratico. E Anne Applebaum, più recentemente (cfr. Il tramonto della democrazia – Il fallimento della politica e il fascino dell’autoritarismo, Mondadori, 2021), in qualche modo aggiorna le esemplificazioni al riguardo; come pure avevano fatto – anche in ottiche diverse –  Steven Levitsky e Daniel Ziblatt (cfr. Come muoiono le democrazie, Laterza, 2019, ebook) e Yascha Mounk (cfr. Popolo vs Democrazia – Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli 2018, ebook), tutti segnalati su queste colonnine. 

Dunque, per venire alla conclusione di questa pedante notarella e con riferimento ad alcune focose prese di posizione di questi tristi giorni di campagna elettorale, oserei dire che la riaffermazione di "valori democratici" (perché la volontà di uno stato si è formata democraticamente, per esempio in Ungheria) non mi dà alcun conforto circa la natura di quel modello (se di modello si trattasse per qualcuno); a meno che non possa anche dirsi che quella democrazia è anche una democrazia liberale (nel senso sopra detto).

Di una democrazia illiberale non abbiamo  né desiderio né rimpianti (in fondo anche Mussolini nel 1924 ed Hitler nel 1933 ricevettero un ampio consenso democratico, e non credo che tale consenso fosse solo apparente, ancorché espresso in forme di sicuro democraticamente non limpide). Anzi, più brutalmente, (e mi si scusi l’autocitazione da un post del 7 aprile 2017) non saprei che farmene dei cosiddetti valori democratici (in termini più rigorosi: di governanti scelti democraticamente dalla maggioranza) se non fossero indissolubilmente connessi coi valori liberali che stabiliscono il primato della persona sullo stato e, a questo, fissano limiti invalicabili.

Roma 18 settembre 2022

domenica 11 settembre 2022

Meno 14

A due settimane dalle elezioni

(di Felice Celato)

A due settimane dalle pessime elezioni che ci aspettano, so già che continuerò ad essere (cfr. Chi scrive, qui accanto) un elettore sempre deluso da chi ha votato; una ragione in più per non dire, qui, come (probabilmente) voterò; fermo restando che, se Dio vorrà, mi recherò alle urne, come è dovere di ognuno che voglia dirsi “un buon cittadino”; per sbagliare ancora, molto probabilmente, ma – per non dovermene vergognare –  non senza aver riflettuto lungamente (e soffertamente) sulla perdurante povertà della nostra offerta politica, in un passaggio cruciale della nostra storia recente e, soprattutto, del nostro presente, nel durissimo contesto che si prospetta per i mesi (o per gli anni) a venire.


La politica pecca di irrealtà, ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Sabino Cassese: prende per reale il contingente e il quotidiano, spesso l’effimero. Fa programmi che sono tutti al presente, senza prospettare un futuro. Elenca promesse, ma non indica tempi e costi. Guarda alla tasca, in una sorta di bengodi, prospettando un’orgia di sgravi, bonus, superbonus, stabilizzazioni, adeguamenti stipendiali, senza chiedersi con quali mezzi finanziarli e come gestirli. Del resto – e qui, uso le parole dell’ultimo Rapporto Censis, quello del 3 novembre 21, che ci etichettava come la società irrazionale – nessuno si azzarda a dire che l'approccio da economia sussidiata e il consolatorio rifugio in traguardi indistinti e iniziative opache sono anche una forma di autodifesa dal dover prendere coscienza di antichi mali; e (aggiungerei io) di più recenti e gravi diffuse corresponsabilità. 


Ma mi parrebbe di poter dire che la politica (in Italia) pecca pure di vacuità (dalla Treccani on linemancanza di consistenza, povertà assoluta di capacità intellettuale e di contenuti) anche quando prospetta, con incongruo vigore, (verosimili?) cambi di paradigmi politici, o quando si appollaia su vecchi concetti (e usurati ideologismi) per scongiurare quei cambi, che, pure, sembra aver accettato con rassegnazione.


Quando si approccia in questi termini il buio periodo politico che viviamo, viene inevitabilmente da chiedersi che tipo di domanda politica stia stimolando quel tipo di offerta; e sorge il dubbio che l’offerta politica sulla quale esprimeremo il voto sia, anche, il frutto di quel diffuso acquietamento del pensiero (copyright Censis, ibidemche si annida, prima che nel sistema politico, nel sottosviluppo di una moderna coscienza collettiva del nostro paese.


Forse non ci sarebbe quell’offerta politica se non ci fosse, nascosta nei precordi del paese, questa domanda di politica, fatta di un culto irrazionale per l’onnipresenza dello stato come protettore di prima istanza, come ombrello onnipotente di fronte ai temporali della storia, come protagonista attivo in ogni angolo dell’economia, in fondo – da questo punto di vista – come erede, allo stesso tempo, del concetto di stato del fascismo e dell’eurocomunismo (sì: anche nella forma di catto-comunismo!) che ha caratterizzato gran parte della vita politica e culturale del nostro paese per ben più di un cinquantennio. Non è un caso – credo – che nessuno (a parte qualche sparuta minoranza radicale, peraltro focalizzata quasi monisticamente sui temi dei diritti), in questo nostro povero paese, abbia più il coraggio di richiamarsi credibilmente, soprattutto in economia, ad ideali liberali, cui tutti, anzi, si affannano ad alludere con parole di senso preconcettamente negativo, frutto di suggestive sconoscenze (Scendete pure in piazza contro il neoliberismo – scrive Alberto Mingardi nel suo bel libro, La verità, vi prego, sul neoliberismo, Marsilio, 2019 –, ma prima cercate di capire di che cosa si tratta). 


Che la civiltà liberale, coi suoi principi, le sue istituzioni, le sue regole, sia il più importante dono dell'Europa moderna al mondo  e che un sia pur imperfetto ordine liberale offre più di quanto prende, distribuisce beni pubblici (condizioni favorevoli allo sviluppo economico, sostegno alla democrazia e, quindi ai governi per consenso, preservazione della pace) il cui afflusso è nell'interesse di tutti non interrompere (A. Panebianco e S. Belardinelli: All’alba di un nuovo mondo, Il Mulino, 2019), sembrano verità non sufficientemente suggestive per basarci offerte politiche appetibili per un elettorato accuratamente avvezzato alla statolatria. E allora va bene invocare fiscalizzazioni della realtà, misteriosi patriottismi, ossessioni confinarie e purismi quasi raziali, ossidati populismi, propinando – se capita – anche ambigui ammiccamenti alla scarsa solidità del nostro essere cittadini dell’Unione Europea. 


L’importante è trasmettere al popolo sovrano, convocato attorno all’altare del dio-stato, il messaggio che gli eletti potranno fare grandi cose per lui, preservandolo dal male che c’è intorno ed anche in mezzo al popolo.

Con queste percezioni per la testa, è veramente difficile attendersi grandi cose dal voto del 25 settembre. Ma, come sempre, chi vivrà vedrà. E ancora una volta spero veramente di sbagliarmi.

Roma 11 settembre 2022 

 

 

 

 

 

martedì 23 agosto 2022

" Fiscalizzare la realtà"

L’induzione al pensiero politico-onirico

(di Felice Celato)

Preso da cure di altro genere (nel senso latino di curae, preoccupazioni, affanni; che però va bene anche in quello italiano, in senso propriamente medicale) ho trascurato, ormai da un mese, di seminare qui qualche spunto di conversazione asincrona coi miei amici lettori. Eppure, la “campagna elettorale”, con tutte le sue (pericolose) follie, avrebbe offerto molti spunti per comunicare – ove mai ve ne fosse bisogno – la tristezza alimentata dal nostro presente.

Senza entrare nel dettaglio delle grossolanità che ci tocca sentire e leggere ogni giorno (dalle dentiere gratuite per le nonne, alle pensioni più alte e più precoci, alle assunzioni pubbliche in ogni possibile ganglio dello stato, alle defiscalizzazioni di tutto ciò che è “immaginabilmente”  defiscalizzabile, alle tassazioni piatte, spesso - naturalmente – senza alcuna esplicita enunciazione dei necessari correttivi per mantenere l’assetto progressivo dei dettami costituzionali in materia fiscale, ai “ristori” di ogni genere per venire incontro “ai veri bisogni degli Italiani”, etc), vorrei però soffermarmi su un tratto di queste grossolanità che in qualche modo ne accomuna molte, un tratto che affonda le sue radici nella “cultura” di qualche nostrano decennio più recente, frutto di quella diffusa statolatria di cui abbiamo più volte parlato: la proclamazione – o, almeno, lo “spaccio” a fini elettorali di seduttive induzioni al pensiero politico-onirico – che la dura realtà di questi tempi possa, essa stessa, essere “fiscalizzata”, cioè trasferita nel limbo dell’incoscienza e dell’irresponsabilità, dove per tutto c’è un rimedio a spese di qualcun altro, cioè di quel pozzo di san Patrizio che a molti può apparire il debito pubblico (che, nell’assunto degli “spacciatori”, è debito di nessuno).

Non voglio dire – non ne avrei gli elementi – che queste “fantasticherie strane” siano dietro ad ogni inevitabile “promessa elettorale”; in fondo, dicevamo appunto un mese fa, è necessario che durante la campagna elettorale, accanto alla parte ideologica di ogni proposizione politica, sussista una parte più specificamente programmaticaintesa come il complesso delle concrete azioni destinate ad incarnare le finalità che si intendono perseguire, in proclamata coerenza con quella parte ideologica che viene, appunto, proposta.

Ma, a parte che non mi rassicurano affatto molte di tali premesse ideologiche (sento circolare concetti e parole novecentesche  che mi fanno rabbrividire), il diffuso programma di fiscalizzare la realtà (cioè il programma di trasformare ogni evidenza del reale che postuli faticosa – e talora dolorosa – gestione, in un qualcosa di gelatinoso che può, anzi deve, essere trasferito a carico del bilancio pubblico, per modo che ogni cittadino venga posto al riparo dalla realtà) mi pare – oltreché improponibile nelle condizioni date – anche altamente diseducativo; cioè destinato ad alimentare il convincimento popolare che la politica possa fare de nigro album (per usare a rovescio il vecchio brocardo sulla res judicata che – notoriamente – può fare de albo nigrum), cioè rendere bianco ciò che è nero.

L’equilibrio del mondo, in questo tempo assai poco rassicurante, è soggetto a dinamiche (geo-politiche, economiche e finanziarie) che, purtroppo, non possono non avere effetto sulla vita di tutte le cittadinanze (si pensi solo alla crisi energetica); e il buon governo di ogni paese è chiamato ad affrontarle, nella limitata incidenza di ogni singolo paese, con equilibrio, fatica e sudore, intense capacità di gestione, di dialogo e di cooperazione, senza strappi ideologici fuori del tempo, con la massima, ragionevole vicinanza alla propria cittadinanza, che, tuttavia, non illuderà di potersi preservare dalla tempesta, senza che alcuno scroscio di pioggia – anche abbondante – possa bagnarne la messa in piega.

La realtà non è purtroppo “fiscalizzabile”. Capisco che, in campagna elettorale, non sia facile dire la verità ad un popolo che si è lasciato abituare alle illusioni e alle menzogne, che anche è avvezzo (per lunga esperienza) a riconoscerle nel tempo, ma che in fondo se ne lascia nutrire proprio davanti alle urne. Ma se l’induzione al pensiero politico-onirico può aiutare a “vincere” una competizione elettorale, certamente, alla lunga, non contribuisce a rinsaldare il funzionamento di una democrazia (sperando che sia da tutti veramente desiderato).

Roma 23 agosto 2022

 

 

 

 

domenica 24 luglio 2022

Una questione di metodo

Supplica ai politici italiani

(di Felice Celato)

Cari Nostri Rappresentanti,

come era fin troppo facile prevedere, avete fatto sì che fosse urgentemente convocato il popolo sovrano, per una – è doveroso sperarlo – illuminante campagna elettorale, al termine della quale verranno tirate le somme per determinare chi (e in quale proporzione) dovrà rappresentare le nostre istanze nel Parlamento che eleggeremo, per governare il Paese nel prossimo (possibile) quinquennio, sicuramente complicato.

Essendomi programmaticamente confessato un elettore costantemente deluso da chi ha votato (vedasi, a lato, la brevissima presentazione di Chi scrive) lasciatemi sperare, nonostante tutto, che questa volta la “maledizione” che pende sulle mie aspettative politiche non debba manifestarsi ancora; e perciò consentitemi di rivolgervi questa (temo inutile) supplica, almeno di metodo.

E' ovviamente necessario che durante la campagna elettorale vengano rappresentate al popolo sovrano le linee di azione di ciascuno dei gruppi che si contendono il potere di rappresentanza; e che, durante questa “rappresentazione”, vengano delineati programmi usualmente composti di una parte “ideologica” (dalla Treccani, ideologianel linguaggio corrente, il complesso dei presupposti teorici e dei fini ideali o comunque delle finalità che costituiscono il programma di un partito, di un movimento politico, sociale, etc.) e di una parte più specificamente “programmatica”, intesa come il complesso delle concrete azioni destinate ad “incarnare” le finalità che si intendono perseguire.

Bene. Non ho suppliche da rivolgervi per quanto attiene allo sciorinamento delle vostre ideologie (come sopra intese), diverse delle quali degne del massimo rispetto e della massima attenzione da parte del popolo sovrano: i presupposti teorici e i fini ideali sono sempre ricchi di suggestioni. Per la parte “programmatica”, però, consentitemi (come semplice elettore, in eterna ricerca di una non-delusione) di rivolgervi una supplica. 

Come ho già inteso dalle prime e pronte enunciazioni di molti di voi, la parte “programmatica” delle vostre azioni è fatta in larga misura da promesse di spesa (sociale, assistenziale, pensionistica, etc); e su queste intenderei formularvi una proposta di metodo, intesa ad offrire al popolo sovrano un affidabile criterio di giudizio.

Una spesa, come è fin troppo ovvio, comporta di per sé un fabbisogno finanziario, e, quindi, a fronte di esso, la necessità di almeno individuare le fonti di copertura previste; per esempio, attingendo dal linguaggio di moda di questi tempi: se programmo di, chessò, erogare un nuovo bonus per fronteggiare un bisogno avvertito come meritevole di protezione, dovrò dire come intendo finanziare questo bonus. 

[Finanziare, significa, appunto, munirsi delle risorse monetarie che “coprano” il fabbisogno di cassa che ogni nuova spesa comporta, per tutto il tempo necessario a che l’erogazione promessa generi essa stessa le risorse per “ripagarsi” (ovviamente al netto degli oneri finanziari che nel frattempo matureranno). La finanza in fondo non è che un ponte sospeso sul fiume del tempo, fra il momento della spesa e il momento del suo benefico effetto; senza del quale la finanza è solo erogazione a fondo perduto (ricordate la distinzione fra debito buono e debito cattivo, di Draghiana memoria?). Certo, si potrebbe argomentare che un nuovo bonus genererà una maggiore capacità di spesa del cittadino beneficiario, e, quindi, nuova domanda di beni e servizi produttivi, tale da chiamare una nuova o più ampia offerta, e quindi generare, in definitiva, nuova ricchezza (da tassare a suo tempo). Ma questa “dotta” argomentazione (che spesso nemmeno si usa) deve pur fare i conti con il volume di debito, prima e dopo la nuova erogazione; e noi da molti anni ci siamo avvezzati a non farlo!] 

Eccomi dunque alla (temo inutile) supplica: ove mai decideste (ed ho la sensazione che lo farete con grande larghezza) di proporre azioni che comportino nuova spesa, vi prego, dite anche come intendete finanziarla, nel senso detto nell’inciso fra parentesi quadre, indicando cioè se la nuova spesa sarà coperta da: (a) nuove tasse; (b) nuovo debito (da rimborsare nel tempo, se si trovano i prestatori, a costi accettabili); (c) cancellazione di altre spese che vi appaiano non più prioritarie. In quest’ultimo caso, vi prego, però, indicate nominalmente quali spese intendereste cancellare per finanziare la nuova erogazione.

Come vedete, questa che oso proporvi è solo una banale questione di metodo, del resto ben noto ad ogni capofamiglia: quest’anno andiamo in vacanza alla Maldive coi soldi che avremmo destinato, chessò, all’acquisto di una nuova vettura; oppure facendoceli prestare da qualcuno, (se ci riusciamo e a costi accettabili); oppure (molto meglio) aumentando la quantità di ore straordinarie da lavorare nel prossimo anno, in modo da guadagnare mezzi di pagamento per restituire quanto eventualmente ci fosse stato prestato da qualcuno per mandarci alla Maldive. 

Credetemi, cari nostri potenziali Rappresentanti nella prossima legislatura: alla fine di questa campagna elettorale, l’adozione di questo semplice metodo non potrà che accrescere la sensazione di serietà che lodevolmente cercherete di suscitare in mezzo al popolo sovrano. Che di serietà dei Rappresentanti ha estremo bisogno, come anche recentemente dimostrato.

Roma 24 luglio 2022

 

 

lunedì 18 luglio 2022

La metafora dell'uovo e del pulcino

In margine alla crisi

(di Felice Celato)

Narrano, gli aneddoti, che il sommo Padre Dante amasse particolarmente l’uovo, che riteneva – così pare – quanto di meglio si potesse gustare ai suoi tempi, nella sua Firenze.

Come al solito, è difficile dare torto al Sommo Poeta: tutti (o quasi tutti) siamo stati nutriti, fin dalla più tenera età, con uova: dal classico “uovo sbattuto” fino ai classicissimi “uovo al tegamino” e alle frittatine variamente aromatizzate.

Nella storia immortale dell’uovo, c’è poi il famoso uovo che Colombo utilizzò per dimostrare le possibilità di nuove soluzioni per problemi ritenuti irrisolvibili, per poter concludere che tutti avrebbero potuto farlo (il suo famoso “viaggio verso le Indie” attraverso l’Atlantico) ma solo lui l’aveva fatto. 

Poi c’è il famoso rompicapo se sia nato prima l’uovo o la gallina, un rompicapo che, quando tenevo dei piccoli corsi aziendali di “finanza per non addetti” (di solito ingegneri), io ponevo a base della matematica finanziaria, intesa come strumento per misurare l’effetto del tempo sui valori (ma di questo ho già parlato in un post del 13 giugno 2017  intitolato Net present value, che chi vuole si può rileggere).

Ma l’uovo, non bisogna dimenticarlo, prima di essere quell’ottimo alimento dell’uomo di cui dicevo all’inizio, è anche un piccolo miracolo biologico: fecondato dal gallo, diventa il protetto abitacolo del futuro pulcino (prefigurazione del futuro pollo, pure di culinaria memoria), al quale fornisce per una ventina di giorni il prezioso nutrimento del tuorlo fino alla schiusa dell’uovo stesso, con l’emersione del pulcino alla sua (prevedibilmente) non lunga vita nel pollaio.

Sono certo che già molti dei miei pazienti lettori si domandino ove mai possa trovarsi un collegamento fra l’uovo, il pulcino e  questa crisi di governo (o di governabilità?) cui assistiamo attoniti in queste calde giornate di luglio.

Il fatto è che mi ha molto colpito – per la sua pretesa di omnicomprensività (?) – un enunciato di un esponente dell’opposizione  (o forse della italianissima opposizione endo-governativa; non lo cito con precisione solo perché non lo ricordo) che sintetizzo con parole mie, per come l’ho capito: il governo cade (e quindi la parola va data agli Italiani, col voto subito!) perché non ha saputo dare agli Italiani le risposte che questi si attendevano.

Ho provato a ragionarci sopra, cercando anch’io una prospettiva… omnicomprensiva: esiste, forse, una Domanda (la domanda delle domande!) che riassume in sé le domande cui gli Italiani, secondo la vulgata dei fautori della crisi, non hanno ricevuto adeguata risposta dall’attività di governo, in questo difficilissimo periodo di concomitanti pandemie, guerra, inflazione, crisi energetica, perturbazioni geo-politiche, minacce finanziarie, problematiche ambientali, etc.?

Forse, volendo esagerare nell’omnicomprensività, la Domanda è una sola: gli Italiani vogliono essere protetti da tutto ciò che c’è intorno (e in mezzo) a loro, vogliono vivere nel loro ovetto continuando a nutrirsi del tuorlo (fuori di metafora: la spesa pubblica) mentre il pollaio è scosso dalla tempesta: tutto ciò che accade fuori dell’uovo (guerra, inflazione, crisi energetica, etc) non li deve sfiorare (si potrebbe dire: non deve porgli problemi), non può e non deve incidere sul rapporto alimentare fra il pulcinetto ed il tuorlo di cui si nutre. 

E  dunque il governo ha il sacrosanto dovere di erogare con abbondanza e continuità ogni possibile rimedio per le turbative meta-oviche, sia, tale rimedio, un bonus, un superbonus, un ristoro, un sostegno, un supporto, un indennizzo, uno sgravio fiscale, un contributo una tantum o permanente, una messe di assunzioni pubbliche, etc. Dove ne prenderà le risorse, non sono fatti che interessino al pulcino.

Credo che il presente governo (oltre ad aver fatto molte cose difficili e fruttuose per il restauro della credibilità internazionale del nostro povero Paese) non abbia nemmeno lesinato mezzi per tenere il pulcino, per quanto possibile, al riparo da turbative meta-oviche; ma evidentemente non basta: si può fare di più, anzi si deve fare di più! E dunque, suvvia!, si faccia tosto un nuovo governo ( previa consultazione del saggio popolo sovrano che già tanta buona prova di sé ha dato eleggendo queste rappresentanze politiche) che rigeneri il tuorlo e ci preservi dallo shock della schiusa, quando il pulcino ancora umido dovrà pur cominciare a fare i suoi passi nel pollaio. Per un po' magari ci sarà qualche gallina che provvederà il timido beccuccio di vermetti o di altro cibo adatto alla tenera creatura. Ma il guscio non tornerà più a proteggere la progressiva suzione del tuorlo. E allora il pulcino dovrà adattarsi a convivere nel pollaio. E il nuovo Governo – forte delle tante capacità che il popolo saggio saprà attivare alla luce di una illuminante campagna elettorale – potrà senz’altro insegnarglielo meglio dell’attuale. Dunque: al voto! al voto subito! Senza aspettare le naturali scadenze!

Roma, 18 luglio 2022