sabato 23 maggio 2020

Ascensione

La memoria credente

(di Felice Celato)

Anche se il calendario civile ha “abolito” la festa della solennità religiosa dell’Ascensione, la Chiesa l’ha riportata nel calendario ordinario dei giorni feriali e dei giorni festivi; e noi cattolici celebriamo comunque l’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo nella prima domenica dopo quaranta giorni dalla Pasqua; cioè domani. E la celebriamo, quest’anno, leggendo, nell’ordine liturgico, l’ultimo passo del Vangelo di Matteo (Mt. 28, 16-20).

Di questo brano, noto a tutti noi, non possono non colpire le ultimissime parole: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” che costituiscono, forse, il vertice della spiritualità cristiana del quotidiano, una magnifica promessa solenne che ci fa bene meditare ogni volta che il quotidiano ci appare oscuro (e magari minaccioso).

Ho provato quest’anno a ripensarla alla luce di un concetto (direi forse meglio: di un metodo dello spirito) che ho udito illustrare da un padre Gesuita qualche tempo fa: la memoria credente, intesa – almeno così io l’ho capita – come l’esercizio benefico di ripercorrere, appunto con la memoria, la nostra vita passata, luogo sicuro – per il credente – ove rintracciare questa presenza (io sono con voi tutti i giorni) anche se…ex post, perché quando era viva presenza non l’abbiamo forse avvertita.

Mi è tornata in mente, allora, una piccola poesia, forse di un anonimo brasiliano (alcuni la ascrivono invece, magari più fondatamente, alla scrittrice canadese Margaret Fishback) che mi è capitato di conoscere in un modo del tutto casuale (è appesa vicino al lettino di un’infermeria dove una brava suora Austriaca di tanto in tanto mi preleva il sangue per le periodiche analisi ematiche; e credo di averla già citata su questo blog tanti anni fa). 

Bene, provo a trascrivervela così come l’ho rintracciata in rete, perché mi pare un suggestivo modo di esercitare la memoria credente alla luce del brano citato del Vangelo di Matteo e come memoria esistenziale di quella promessa dell’Ascensione:

Questa notte ho fatto un sogno,

ho sognato che camminavo sulla sabbia

accompagnato dal Signore,

e sullo schermo della notte erano proiettati

tutti i giorni della mia vita.

Ho guardato indietro e ho visto che per ogni giorno della mia vita, apparivano orme sulla sabbia: una mia e una del Signore.

Così sono andato avanti, finché tutti i miei giorni si esaurirono.

Allora mi fermai guardando indietro, 

notando che in certi tratti del percorso c’era solo un’orma....

Questi tratti coincidevano con i giorni più difficili della mia vita;

i giorni di maggior angustia, maggiore paura e maggior dolore.

Ho domandato allora:

“Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me

in tutti i giorni della mia vita,

ed io ho accettato di vivere con te,

ma perché mi hai lasciato solo proprio nei momenti peggiori

 della mia vita?

Ed il Signore rispose:

“Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato

con te e che non ti avrei lasciato solo

neppure un attimo: e non ti ho lasciato....

I giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia,

sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio”.

 

Roma  23 maggio 2020

 

 

 

mercoledì 20 maggio 2020

Tarrou

….e le nostre vaghe speranze
(di Felice Celato)
Proprio mentre incostantemente declina (e speriamo che continui a declinare!) il tasso di crescita quotidiana del contagio, mi sono trovato ad ultimare la terza o quarta rilettura di quell’autentico capolavoro che è La peste di Albert Camus. E – nella speranza che la nostra “peste” stia anch’essa finendo e che il famoso lockdown volga alla sua naturale ed integrale remissione – mi hanno fatto riflettere le considerazioni di Tarrou, uno dei più stretti amici di Bernard Rieux (come noto, il protagonista del romanzo) e lui stesso coprotagonista, sul finire della immaginaria peste di Orano e poco prima della morte, per tardivo contagio, dello stesso Tarrou: dunque Tarrou pensava che la peste avrebbe cambiato la città e nel contempo non l'avrebbe cambiata, che naturalmente il più grande desiderio dei [suoi ] concittadini era e sarebbe stato fare come se non fosse cambiato niente e che, quindi, in un certo senso niente sarebbe cambiato, ma in un altro senso [che] non è possibile dimenticare tutto, anche con la debita forza di volontà, e [che] la peste avrebbe lasciato delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini. 
Allora mi sono domandato: che cosa, noi (almeno provvisoriamente sopravvissuti), in fondo speriamo per il dopo Covid? E, per non sbagliarmi nell’interpretazione dei sentimenti degli altri, io stesso che cosa spero per noi e per la nostra collettività?
Certo, per pensare in positivo, se anche non mi attendo che tutto cambi, che i frutti di questo doloroso cammino siano, tutti, succosi portatori di energia e di collettiva vitalità, tuttavia, come accade a Tarrou, mi pare giusto pensare che non [sarà] possibile dimenticare tutto,... e [che] la [“nostra”] peste [lascerà] delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini; e magari – auspicabilmente – anche nelle teste di noi che (per ora) siamo sopravvissuti, in fondo senza gravi traumi, alla pandemia da Coronavirus.
Beninteso: che l’Italia – nel suo compendio psico-sociologico – abbia confusamente sperato per sé, nel drammatico corso del picco pandemico, una liberatoria palingenesi integrale, non mi sorprenderebbe; ancorché, in un paese tanto accesamente diviso come il nostro, si sia fatto così difficile immaginare un autentico sentimento collettivo che “ricapitoli” ciò che il Paese vuole per sé. Ma quel che purtroppo mi pare molto probabile è che, nei fatti, sarà difficile non trovarci con un’ambiente umano meno frazionato e diviso di quello che da tempo ci caratterizza, una volta che si saranno appieno manifestate le scorie avvelenate della mentalità parassitaria di massa (copyright Luca Ricolfi, su Huffington Post dell’ 8 maggio u.s.) indotta dalle modalità scelte per fronteggiare la crisi (la faglia fra i protetti e i non proteggibili tenderà inevitabilmente a contrapporci gli uni agli altri).
Eppure, provo a ragionare in positivo, in omaggio allo scheletro contadino vagheggiato da De Rita nel post-crisi del 2011: immaginiamo che – come dice Ricolfi – il governo più risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica, per non voluto paradosso, sia riuscito nel miracolo di restituire una sorta di “coscienza di classe” alla parte produttiva del paese; e che questo basti a porre all’opera quel bisogno di fantasia e di apertura mentale di cui abbiamo non recente ma urgente bisogno. Bene; sulla base di tali assunti, che Italia post-Covid possiamo sperare di vedere (negli anni che ci sono rimasti)? 

  1. Un’Italia più conscia della comune interdipendenza, economica prima che politica? E, per conseguenza, un’Italia più aperta verso il resto del mondo (e dell’Europa in primis) e più intelligente e meno chiassosa nel gestire le relazioni che tale apertura postula? Forse, un po’ è possibile sperarlo; d’altra parte – per quanto poco credito si voglia riconoscere alla nostra intelligenza – è difficile pensare che non ci si sia resi conto di quanto abbiamo sperimentato in corpore vili, di come funziona il tessuto economico del mondo moderno, delle inestricabili interconnessioni fra il domestico e “l’altro”.
  2. Ma anche è possibile sperare in un’Italia più conscia della differenza concettuale fra economia (produzione di ricchezza e di benessere) e finanza (ridistribuzione temporale delle manifestazioni monetarie dell’economia, grazie ai soldi dei creditori)? Anche questo è possibile sperarlo; ma solo a condizione che si sviluppi d’improvviso quella solidarietà intergenerazionale che fino ad oggi non abbiamo coltivato, anche in tempi di vacche (relativamente) grasse.
  3. Infine (per così dire): è possibile sperare un’Italia che riconosca profondamente la sua drammatica carenza di cultura, di preparazione tecnica e scientifica adeguatamente riconosciuta? Qui sono ancora più cauto: durante la gestione della crisi, in fondo, quello che si è ritenuto più semplice fare è stato chiudere a inizio di marzo scuole ed università, senza nemmeno sforzarsi di immaginare un seguito di più intensificate cure per questo settore così decisivo per ogni paese moderno. 

Tutte queste cose, infinitamente dettagliabili, possono costituire la tela delle nostre speranze; e allora – se le speranze generano energie – si potrà dire che – nonostante tutto – al Covid saremo sopravvissuti.

Mentre sperava, forse, cose un po' diverse per Orano, Tarrou – come ricordavo all’inizio – moriva di peste. Io, per ora, mi sono limitato a….farla un po' lunga.
Roma  20 maggio 2020

venerdì 15 maggio 2020

Citazioni senza parole aggiunte

L’ultimo Papa d’ Occidente?
(di Felice Celato)
Questo Papa [Benedetto XVI] intellettualmente gigantesco e fisicamente umile è stato un “eretico” nel tempo del religiosamente corretto, del sincretismo, del misticismo fai da te, dell'ecumenismo vuoto, del dialogo con tutti e con nessuno, del cattolicesimo che la cultura dominante vuole remissivo, piegato, sconfitto, marginale. Un Pellegrino della modernità che ha attraversato il vecchio mondo europeo segnato dalla mancanza di respiro, dal vuoto dalla divisione, dal nulla. Un Papa considerato “retrogrado”, custode di una “tradizione obsoleta”, ma ossessionato dal declino del cattolicesimo e da quello che Robert Speamann definì “il nichilismo travolgente di questi tempi”.
……..
Nella sua celebre Introduzione al Cristianesimo, l'allora professore [Joseph Ratzinger] usò un apologo narrato dal filosofo danese Soren Kierkegaard per spiegare lo stato in cui si sarebbe ritrovata la Chiesa in Occidente, paragonata a un clown che nessuno prende più sul serio. Un circo si incendiò e a chiamare aiuto nel villaggio vicino fu mandato un clown “già abbigliato per la recita”. C'era il pericolo che si incendiasse anche il villaggio. Ma i paesani “presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere” e lo applaudivano. ”Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere; e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto di una finzione, d’un trucco, bensì di un amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda”. E quando il fuoco arrivò al villaggio era troppo tardi, cosicché circo e villaggio finirono distrutti.   “Chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio” scrisse Ratzinger nel 1969.
.......
Ratzinger ha contribuito a garantire che qualcosa di riconoscibile come “cristianesimo” sia sopravvissuto al caos contemporaneo. Ci ha fornito gli strumenti per superare la crisi e per ricostruire qualcosa che assomigli a quello che un tempo, con orgoglio, chiamavamo “Occidente”. Non è poco, per un solo uomo. Ratzinger è stato però anche la grande “vittima” di quella dittatura del relativismo che è il suo grande cavallo di battaglia, come se l'attacco continuo alla cultura contemporanea abbia contribuito all’erosione delle sue forze fisiche e morali. Il tempo ci dirà – se grazie a cinquant'anni di dinamite intellettuale che ha piazzato sotto l’inespugnabile edificio della postmodernità – Ratzinger sia stato quel clown cui nessuno ha creduto mentre gridava “al fuoco” o se invece non sia stato un nuovo Benedetto in grado di salvare la civiltà dal grande incendio. 
…….
Ci vogliono altre parole per dire che questo libro di Giulio Meotti, evidentemente dedicato a Benedetto XVI (L’ultimo Papa d’Occidente?, LiberiLibri, 2020,  da cui sono tratti questi brani), ricchissimo di citazioni e di riferimenti, mi ha consolato?
Non enim possumus quae vidimus et audivimus non loqui, noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato, risposero Pietro e Giovanni agli uomini del Sinedrio che cercavano di imporre il silenzio alla predicazione della Buona Novella (Att. 4,20); e la Chiesa da loro costruita è giunta fino a noi in mezzo alle tempeste dei secoli. E Benedetto XVI non ha taciuto.
Roma 15 maggio 2020

mercoledì 13 maggio 2020

Divagazioni politico-lessicali

Consenso e con senso
(di Felice Celato)
Come sanno i miei 24 lettori (….uno in meno di quelli del Manzoni, per il dovuto rispetto al sommo scrittore) mi piace divagare fra le parole. E il contesto (Dizionario Etimologico Nocentini, Le Monnier, editore: dal latino textus -us tessuto, intreccio) ci insegna che il consensus, il consenso, è diventato – per carità, anche a ragione – la bussola della nostra politica, orientata non più e non solo dal “rito” democratico per eccellenza (le elezioni), ma anche dal mutevole oscillare quotidiano delle cosiddette pubbliche opinioni (della gente comune, nel lessico triviale della televisione).
E dunque vale la pena di ragionare sul consenso. L'ottimo Vocabolario Treccani (meritoriamente accessibile a tutti su Internet) ci fornisce un’ampia articolazione del significato della parola consenso (vedasi alla voce http://www.treccani.it/vocabolario/consenso); mi soffermo su quello riferito al linguaggio politicoappoggio, favore espresso da gruppi e strati sociali alla politica di chi è al potere; esempi: il consenso dei ceti medi al programma delle riforme ; partito che ha ottenuto un largo consenso di voti, un ampio consenso elettorale; organizzazione del consenso, azione svolta da istituzioni e persone influenti per assicurare il favore di larghi strati di opinione a chi esercita il potere.
Sono certo di aver qui citato più volte il bellissimo libro (nemmeno tanto recente, essendo stato pubblicato nel 2003 da Norton & Co.) di Fareed Zakaria, The future of freedom, che svolge una magnifica rassegna storica e contemporanea dei risvolti inquietanti della “regola del numero” applicata alla qualità delle democrazie (su un eloquente piano non politico, per esempio: the democratic revolution coursing through society has changed our very definition of culture.  The key to the reputation of, say, a singer, in an old order would have been who liked her. Today is how many like her….quantity has become quality. Così, nota Zakaria, Madonna può essere apprezzata più di una grande soprano). Non è il caso di ulteriormente argomentare al riguardo, specie nel contesto in cui viviamo e considerate le opinioni politiche che ci vengono quotidianamente propinate dai nostri consensus’ hunters, mutevoli spacciatori di provvisori indirizzi e di incerte azioni (sempre “tattiche”). [Scrive sempre Zakaria (parlando degli USA, beninteso!) che oggi saggiamente we expect very little of those in positions of power, and they rarely disappoint us.]
Fatto sta che ogni forma di consenso, tanto più quando largo, mi mette in allarme, spesso estremo. 
Sento già tuonare i miei amici (anzi amicissimi) di sinistra (e perciò, naturalmente, innegabilmente, incrollabilmente e puramente democratici!) che – messi alle strette sui rischi della “regola del numero” – attingono ad un famoso aforisma di un vecchio conservatore anti-socialista  come Churchill, affermando che la democrazia è, in effetti, la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. Sia chiaro: sarebbe veramente difficile dar loro torto! E proprio non me la sentirei, nemmeno per amore della polemica, di abbracciare un’opinione opposta a quella dei miei amici (e di Churchill).  Solo mi meraviglia che quando si parla di economia, i miei amici levogiri non siano egualmente pronti a riconoscere che il capitalismo è la peggior forma di generazione di benessere, eccezion fatta per tutte quelle altre forme finora sperimentate.
Bene, tornando al consenso, in un estremo tentativo di…appunto consenso coi miei ipotizzati contestatori, provo ad affacciare una condizione per adorare, anch’io senza riserve, la “regola del numero” (talora nota come uno vale uno): che almeno il consenso implichi necessariamente il “con senso”(sempre dal Vocabolario Treccani, voce senso, significato 4.d: contenuto logico, contenuto d’idee sostanzialmente valido) : si può consentire coi più, a patto che la loro opinione postuli la sussistenza di un senso!
Il che non sempre avviene; guardando ai recenti (e non solo recenti) indirizzi del nostro povero paese, direi meglio: il che ben raramente avviene (e non solo in tempi di peste quando, come diceva il Manzoni, anche se il buon senso c’è, se ne sta nascosto per paura del senso comune).
Roma 13 maggio 2020


giovedì 7 maggio 2020

Verso la chiusura del lazzaretto

Il meltdown del lockdown
(di Felice Celato) 
Si chiude oggi questa serie di tristi post dal lazzaretto. Saranno stati i primi tepori primaverili o i dati sul calo dei nuovi casi di contagio o la stanchezza di tutti per questa innaturale fase della nostra vita; fatto sta che si avvia a chiusura (cauta e forse non definitiva, s’intende!) la lazzarettizzazione delle nostre città.
Ed eccoci qua – la notizia era attesa da noi baciapile! – che il presidente della CEI ed il Premier Umanista hanno firmato oggi il Protocollo che permetterà la ripresa delle celebrazioni con il popolo; così recita in epigrafe il solenne comunicato stampa congiunto CEI-Governo che stabilisce, tuttavia, dettagliate norme – igienizzazione  dei luoghi e degli oggetti, svuotamento delle acquasantiere, modalità di somministrazione dell’eucarestia, modalità di afflusso dei fedeli, etc – sull’accesso ai luoghi di culto in occasioni di celebrazioni liturgiche (cfr. acistampa del 7 maggio 2020, ore 1.00 a.m., come a testimoniare, secondo liturgie sindacali, l’intensità e la complessità della trattativa svolta al difficile tavolo negoziale dal Cardinale Bassetti, dal Premier Conte e dal Ministro degli Interni Lamorgese). Per il momento (ma forse ci sarà un prossimo addendum?) non sono disciplinate né confessioni né estreme unzioni.
La normativa entra in vigore da lunedì 18 maggio, recita l’imbarazzato (o imbarazzante?) comunicato congiunto, che pure fa esplicita menzione della profonda collaborazione e sinergia fra i firmatari del Protocollo, concessione di reciproco apprezzamento fra le parti tipica dell’esito felice di ogni trattativa; sicché da domenica 24 maggio riprenderanno le celebrazioni domenicali, magari – come suggerito dal Protocollo – intensificate per numero per evitare sovraffollamenti; e forse (immagino) anticipate da qualche messa feriale nei giorni che vanno da lunedì 18 a sabato 23, per i più ansiosi di celebrazioni eucaristiche.
Poiché sono solito andare a messa al Gesù, mi è venuto naturale collocarmi con la mente nella bellissima chiesa dei padri Gesuiti; e inevitabilmente il pensiero mi è andato al drammatico Crocefisso della scura cappella centrale di sinistra. 
Mi sono immaginato che sul Volto del Christus patiens, distrutto dalla sofferenza, passasse per un momento un’ombra di ironica pietà per l’igienizzazione degli oggetti (forse le pissidi?) o per i guanti e le mascherine prescritte ai celebranti.
E mi è tornata alla mente l’ultima frase del Vangelo secondo Matteo: Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Nonostante tutto.
Roma 7 maggio 2020

venerdì 1 maggio 2020

Le non-feste nel lazzaretto

1° maggio
(di Felice Celato)
Per quello che sono stati in Italia (attenzione: non per quello che avrebbero potuto essere) ho sempre avuto un rapporto difficile coi sindacati; e certamente, dei loro rumorosi primi di maggio, non ho mai apprezzato quasi niente. Eppure quest’anno ne provo un’intensa nostalgia. La loro densità sulla piazza San Giovanni, le loro retoriche comiziali piene di energia e di poco altro, le loro bandiere al vento e le musiche suggestive, in qualche modo mi mancano, fino al punto, per paradosso, di restituirmi – col vuoto della piazza –  l’immagine in negativo di una stasi del lavoro che, inevitabilmente, vuol dire stasi del nostro modo di vivere.
Si è fermata l’Italia (ma non solo l’Italia), contratta dal virus e dall’immaginario fosco che lo stesso sparge a piene mani in un mondo confuso e impaurito, mentre volano gli elicotteri delle illusioni, le velleità di onnipotenza regolamentare, le misere contese che della politica portano solo il nome, senza evocare nemmeno l’abbozzo di un disegno.
Mi è capitato di domandarmi se le cupe previsioni che mi affollano la testa non siano esse stesse una specie di colpa, uno stigma del carattere, un segno di sterile vecchiaia o, quanto meno, un sintomo mentale della oscura potenza del virus. Eppure, anche senza scomodare il pessimismo assennato di Scruton e solo ripercorrendo i tanti argomenti che mi affannano la mente, tristemente mi conforto del loro fondamento; sicché la cosa più sana che riesco a mettere insieme in queste ansiose giornate sono… i passi che – nel sostanziale rispetto delle minuziose discipline che regolano i nostri comportamenti nel tempo di “peste” – riesco ad inanellare fino alla stanchezza fisica; che, almeno, mi aiuta a prendere sonno.
Il fatto è che questa strana scossa pandemica (esaltata ovviamente da una connotazione info-demica, mancata a tutti i “precedenti” storici del genere pandemico) sembra indicare chiaramente il bisogno (anzi, l’urgenza) di una riprogettazione, non solo (e non è poco) delle nostre modalità di materiale convivenza (un solo esempio banale: la convivenza “distanziata” nelle classi scolastiche); ma anche – così torno a quello che dicevo all’inizio – delle nostre più complesse modalità di produrre (relativa) ricchezza e (relativo) benessere, in progressione mai vista nella storia e pur in un contesto demograficamente raddoppiato in poco più di 50 anni (chi non è convinto che ciò sia realmente accaduto, può guardarsi le dinamiche mondiali della povertà, della mortalità infantile, della vita media, dell’educazione, etc. che facilmente si trovano su ourworldindata.org).
Si dirà che, come spesso avviene nella storia degli uomini, ben presto le abitudini digeriranno le emozioni della info-demia, magari dopo averle a lungo ruminate; può essere, anche se non ne sono del tutto convinto: ho osservato persone colte e pensose (anziane e giovani) adattarsi con tanto scrupolo alle minute prescrizioni di legge governative, che devo pensare non ad una transitoria emozione negativa ma ad una radicazione profonda delle cupe paure che il virus ha seminato nel mondo.
Sarà come sarà (meglio non fare previsioni!), ma – non foss’altro nel breve-medio termine, almeno durante il periodo di ruminazione degli esiti pandemici – la scossa all’albero delle nostre economie sarà forte; e non sarà certo la finanza ad arrestarla, potendo essa – lo dovremmo ricordare tutti – solo distribuire nel tempo le manifestazioni monetarie degli eventi economici, mettendo nel conto i rischi del tempo.
E allora, che c’entra tutto ciò col 1° maggio? Niente, è solo che la nostalgia porta spesso lontano con la mente; e così mi è capitato di pensare alle leadership che si manifestano nelle piazze, sui palchi davanti a folle plaudenti e a quelle – necessarie al presente – che si manifestano con un progetto e con la capacità di realizzarlo.
Roma 1° maggio 2020 (già Festa del Lavoro)