venerdì 29 gennaio 2016

Family day

Presupposti
(di Felice Celato)
Non partecipo, domani, al c.d. Family day, nonostante sia cattolico, praticante (come si dice) ma rispettoso delle idee degli altri e anche delle iniziative degli altri, quando  queste iniziative mi paiano – come nel caso in discorso – meritevoli di tale rispetto. Del resto, di norma, non partecipo a nessuna manifestazione di piazza per (direbbe Gotor)….incompatibilità antropologica con le folle.
Peraltro sul tema delle unioni civili (in particolare fra omosessuali) ho già detto ed argomentato la mia in tempi non sospetti (post del 10 giugno 2012, Nuove ragioni di dilaniamento civile) e non ho mutato opinione: sono favorevole alla definizione di questo nuovo istituto giuridico.
Quanto alla sua equiparazione col matrimonio, da molti invocata, voglio sottoporvi un apologo: supponiamo che io decida di lasciare le mie sostanze ai poveri e che, perciò, mi rechi dal notaio con l’idea di fare testamento. Il notaio mi farà preventivamente una sintesi della natura e degli effetti del testamento, arrivando, dopo altre premesse, a dirmi: “….così quando lei verrà a mancare…”. A questo punto, lo interromperei dicendo: “Ma io, i miei beni ai poveri, voglio trasferirli ora, mentre sono in vita, non dopo morto!”
Allora con ogni probabilità il notaio mi dirà: “Ma allora lei non deve fare testamento, perché l’efficacia pratica del testamento presuppone la sua morte! Semmai dovrà fare una donazione, per tanti aspetti simile ad un testamento ma operante inter vivos cioè fra vivi”.
Ecco, io penso che il matrimonio presupponga l’eterosessualità dei nubendi, né più né meno come il testamento presuppone, per la sua effettività, la morte del de cuius. Se si vuole (e, ripeto: secondo me è comprensibile che si voglia) disciplinare questa nuova fattispecie, occorrerà un istituto (nuovo) che, magari, abbia effetti analoghi al matrimonio ma che matrimonio non è.
Ogni istituto giuridico, infatti, disciplina fattispecie diverse anche quando, per certi aspetti (magari non per tutti), prevede effetti consimili.
Questo è il mio povero pensiero, forse non del tutto à la page; ma, pazienza, già da tempo, come direbbe Renzi, me ne sono fatta una ragione di questo mio dépaysement. E, tutto sommato, mi trovo a mio agio più fra gli spaesati che fra i concittadini bene ambientati nel nostro mondo.

Roma 29 gennaio 2016

mercoledì 27 gennaio 2016

Letture

Ponzio Pilato
(di Felice Celato)
Ho appena finito, con grande soddisfazione, la lettura del libro di Aldo Schiavone Ponzio Pilato – Un enigma fra storia e memoria (Einaudi, 2016), segnalato, con una recensione molto lusinghiera, da Galli della Loggia sul Corriere della sera di qualche giorno fa.
Pilato, come forse avranno notato i (per fortuna pochi) frequentatori di questo blog, è un personaggio dei Vangeli (ma anche della storia, magari minore e periferica, dell’Impero Romano) che mi ha sempre affascinato.
I suoi comportamenti e la sua drammatica domanda (“E che cos’è la verità?”) vagamente diffidente e forse anche biecamente pragmatica, me ne hanno fatto, ad un tempo, un’icona dello scetticismo e un testimone credibile dell’incredibile fascino di Gesù.
Schiavone, anche sulla base delle migliori letture storiche, filosofiche e storico-giuridiche (l’apparato bibliografico è imponente, per un libro di 150 pagine), lo ha attentamente studiato, delineandone i tratti psicologici con grande efficacia, anche narrativa, arrivando fino a formulare la tesi di una sorta di suggestionata complicità coll’itinerario di sottomissione del Cristo alla tragedia della sua missione redentrice; fino al punto di sfiorare temi teologici e filosofici di grande delicatezza (la libertà del Figlio di fronte al disegno del Padre): “e così, io credo – scrive Schiavone – che Pilato prese atto di quale fosse la meta dove il suo inquisito voleva arrivare. Capì che Gesù non era stoicamente superiore a quanto poteva capitargli. Che la sua non era indifferenza di fronte alla fine, ma che vedeva invece con lucida passione la morte sulla croce come l’unico esito possibile della propria predicazione, l’ultimo cruciale atto della sua esistenza terrena, e non voleva a nessun prezzo sottrarvisi…..e decise infine [Pilato] di accogliere l’inspiegabile volontà di chi gli stava innanzi”.
Come che sia, il libro vale la lieve fatica di una lettura “al tavolo”. Un pregio del testo, forse laterale, ma per me molto importante, è che durante la lettura non mi è capitato mai di interrogarmi sulla appartenenza o sulla non appartenenza dell’autore al mondo dei fedeli, pur essendo evidente il fascino che su di lui esercita la figura di Gesù e la Sua vicenda fra storia e religione.

Roma 27 gennaio 2016

Il Giorno della Memoria

27 gennaio 1945
(di Felice Celato)
Per onorare il Giorno della Memoria, l’anno scorso vi ho proposto alcuni brani di un piccolissimo libro  (Zvi Kolitz: Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, 97) che vale la pena di leggere e di rileggere. Io stesso l’ho fatto, stanotte, con immutata commozione e reverenza.
Quest’anno vi propongo una poesia che molti di noi conoscono già, ma che, come tutte le poesie, merita di essere anch’essa riletta.

Se questo è un uomo 
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi alzandovi:
ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, 1947)

Roma, 27 gennaio 2016 (71 anni dopo la liberazione del campo di Auschwitz)





martedì 26 gennaio 2016

I vènti del mondo

Nullus ventus
(di Felice Celato)
Forse l’ho già citata, su questo blog, questa straordinaria considerazione di Lucio Anneo Seneca (I sec. d.C.), per tanti aspetti, dopo duemila anni, così attuale e così amaramente applicabile al nostro odierno collettivo dis-sentire: ignoranti quem portum petat, nullus suus ventus est (che possiamo tradurre “nessun vento è favorevole per chi non sa verso quale porto dirigersi”).
Starei per dire che mi viene in mente ogni volta che leggo o ascolto le notizie e i rumori del nostro tempo italiano; sì, italiano; ma, per la verità, non solo, se devo giudicare dai tanti corti tragitti senza vera meta che sembriamo imboccare, in Europa ma anche nel nostro mondo occidentale: se non sai dove andare le tue vele saranno sempre inutili, quand’anche per un po’  ti sembrino gonfie. E’ la mancanza del senso, come direbbero i teologi o gli psicologi, che disorienta e deprime e, alla fine, suscita le brevi emozioni, le mode emotive, le pulsioni contraddittorie, le iper-reazioni o le vacue indifferenze di cui ci nutriamo.
Forse per questo, “sciapi e malcontenti” (come diceva De Rita qualche anno fa), ci innamoriamo di pigre rappresentazioni di effimere mete a favore del mutevole vento, che gonfia per un po’ le vele minori, regalandoci per un breve tratto l’illusione di un viaggio.  Anche noi credenti, non amiamo più pensare al nostro credo come Verità che dà senso alla vita e mèta al viaggio, sembrandoci che tutto (..o quasi) possa esaurirsi in un generico appello all’amore, che, pur essendo virtù ardua ed essenziale e faticosa, paradossalmente finisce per sembrarci un guscio vuoto da riempire arbitrariamente (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 3), sul quale è più facile raccogliere consenso per un viaggio più breve.
Per navigare con senso, nella vita o nel mondo, abbiamo bisogno di “sapere” il porto verso il quale far rotta; per dirigere le vele verso il porto giusto occorre saper leggere le mappe dell’esistenza e saperle orientare con l’ago della bussola che ci indica la direzione; per tenere la rotta ci vuole studio e fatica, perché i vènti sono mutevoli. E la fatica, si sa, stanca.
Il solito lettore impertinente dirà: beh! Perché, oggi, questa nenia?
Per quanto non ami chi risponde ad una domanda con una domanda, stavolta direi: ma, cocco mio, tu li leggi i giornali, li ascolti i nostri leaders o anche, semplicemente, i nostri umori contemporanei, in Italia ma anche qua o là in Europa? O, ancora più in là, hai mai letto, per esempio, “i programmi” di Trump? E hai capito dove, collettivamente, vogliamo andare? Che cosa veramente abbiamo in mente come futuro da vivere?
Io – lo confesso con amarezza – no.
Il fatto è, caro amico, che forse sto invecchiando e, come ogni “vecchio” si sente a disagio in un mondo che gli pare smarrito, così talora mi sembra di essere vissuto in un’epoca che ha via via rinunciato alla coscienza di sé, assordata dai suoi propri rumori e ubriacata dei suoi propri umori. Certe volte arrivo a pensare che forse a questo mondo smarrito, proprio noi, noi della generazione che è stata adulta negli ultimi trenta o quarant’anni, abbiamo fornito, volendo e credendo di dargli un luminoso futuro, i mezzi per disperdersi; così mi viene in mente il dono di Eolo, il mitico re dei vènti, ad Ulisse: un otre che conteneva tutti i vènti, anche quelli più tempestosi, dal cui collo uno stretto legaccio faceva uscire solo un morbido soffio che spingeva la nave verso l’agognata Itaca, tenendo intrappolati i vènti contrari: “eccelso dono, che la nostra follia volse in disastro” narra l’Ulisse di Omero. E difatti, immaginando che l’otre contenesse nascosti tesori, gli incauti compagni di Ulisse, non paghi del vento favorevole che li spingeva verso il porto desiderato, ne disserrarono il laccio. “Con furia ne scoppiar gli agili venti./La subitanea orribile procella / li rapìa dalla patria e li portava / sospirosi nell’alto

Roma, 26 gennaio 2016