Berkeley, Magritte
e Pilato
(di Felice Celato)
Ci
siamo così abituati ad un concetto di evanescenza della verità che quasi tutti
siamo diventati confidenti col concetto di temperatura
percepita; la temperatura percepita, dunque, non è quella segnata dal
termometro ma quella che ci pare di avvertire. So bene che esistono dei
parametri “scientifici” per convertire la temperatura effettiva in quella
percepita, ma rimango affezionato all’idea che, dopo un lauto piatto a base di
polenta e salsicce, innaffiato con un buon lambrusco e magari concluso con un
bicchierino di ottima grappa, percepirò una temperatura diversa da quella che
percepisce una persona che da due giorni non mangia.
Ma
lasciamo perdere, non è del freddo che vorrei parlare, oggi; bensì della nostra
scarsa confidenza con la realtà, anzi della nostra acquisita diffidenza verso
la realtà crudamente misurata. E così mi è venuto in mente l’immaterialismo di
George Berkeley, un ricordo del liceo, prontamente “ripassato” sul manuale di
storia della filosofia ( il La Manna!)
che, allora, costituiva la croce e la delizia dei nostri studi
giovanili. George Berkeley era il filosofo del settecento che, per illustrare
sinteticamente il suo “immaterialismo”, coniò il motto “esse est percipi” (l’essere consiste nell’essere percepito), che –
sicuramente al di là delle intenzioni del filosofo irlandese – sembra essere
diventato il motto della nostra società mediatizzata (e certamente dei nostri
politici tele-dipendenti). Il geniale pittore belga Magritte (da me molto
amato) non mancò di scherzare a suo modo sul concetto, indagando, con curiosa
profondità, il confine fra realtà e rappresentazione. Forse molti di noi
ricordano il suo ritratto di una pipa ricurva etichettato ironicamente “ceci n’est pas une pipe” (questa non è
una pipa); e certamente aveva anche ragione perché, semmai, quel quadro era una
rappresentazione di una pipa e non, appunto,
una pipa.
Ma
torniamo al nostro (ansioso) ragionamento.
Dunque
per Berkeley (scrive il La Manna a pg. 178 del suo “manuale”) “le cose non sono che idee e il loro esistere
si risolve nell’essere percepite” (ho già dichiarato altre volte la mia scarsa e datata cultura filosofica per dover nuovamente
giustificare questa incursione nel manuale ad uso dei licei). Eccoci dunque (sorvolando, per le ragioni appena dette, sulle possibili distinzioni filosofiche fra realtà e verità) alle soglie di un concetto che – invece – mi turba assai, proprio perché mi
pare si sia radicato in una inclinazione tipicamente contemporanea che ritengo
estremamente pericolosa: il concetto (vagamente ossimorico) di verità percepita (o, se volete, di realtà percepita), cioè – secondo me –
l’apoteosi del nostro sradicamento dalla effettività, a favore di una sua astratta
configurazione nemmeno più (soltanto) personale ma ormai collettivizzata dalla
iper-rappresentazione mediatica di immagini della realtà, spesso arbitrarie e
approssimative, qualche volta drammaticamente disinformate e talora addirittura
false.
E su
queste “giudichiamo”, su queste sentenziamo, su queste – spesso – addirittura
decidiamo, come se avessimo fatto nostra la scettica domanda di Pilato (“e che cos’è la verità?”), perché per noi
l’essenza della realtà è divenuta, appunto, la sua percezione.
Sbaglierò,
forse sbaglierò, ma questo mi pare diventato il vero problema del nostro tempo
al quale, certamente, non è estranea l’ubriacatura mediatica in cui
galleggiamo.
L’immagine
della realtà ha preso il posto della realtà, ciò che appare di ciò che è; la
conseguenza – drammatica – di ciò è che i nostri sforzi non si dirigono più al
dominio della realtà ma alla coltivazione di come appare, di come può essere
percepita, perché da tale percezione dipende l’immagine che altri si formano su
di noi.
Così,
se ci trovassimo al Los Angeles County Museum of Art di fronte alla pipa di Magritte, ci domanderemmo anzitutto “ma in
fondo che cos’è una pipa?”, come forse farebbe Pilato; poi, magari ci verrebbe
voglia di caricarla di immaginario tabacco per goderci, con Berkeley, la
rappresentazione di una piacevole fumata che alla fin fine – penseremmo – è
meglio di una vera e calda fumata.
Roma,
10 gennaio 2016 (temperatura percepita a Roma 18 gradi)
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