mercoledì 27 luglio 2016

Spigolature / 7

Appunti da letture
(di Felice Celato)
Come dicevo solo ieri, il bandolo della matassa che si aggroviglia intorno a noi ci sfugge, come spesso accade quando gli eventi ci sommergono di emozioni e ci oscurano l’intelligenza.
E pur tuttavia è difficile sottrarsi al fascino di una lettura “olistica” di quanto accade in Europa in questi mesi, come in fondo tentano di fare numerosi commentatori, in Italia e all’estero, ovviamente con diverse chiavi interpretative, talora inquinate (almeno da noi) da intenti ideologico-propagandistici che trovo francamente inaccettabili (non foss’altro per rispetto dei tanti morti) oltre che pericolosi.
In questo contesto, mi ha colpito (sul WSJ di oggi) un’analisi del commentatore americano Bret  Stephens, che già ho citato su questo blog almeno un paio di volte (Il buon Europeo del 25 novembre e Radici del 21 ottobre ultimi scorsi) proprio sul tema della crisi di identità culturale e morale dell’Europa. L’articolo è troppo lungo per riportarlo qui; ma vale la pena di citarne alcuni passaggi che, secondo me, ben ne sintetizzano il senso.
Anzitutto il titolo: L’Europa è persa (helpless)? Poi la diagnosi: Un popolo che non crede in nulla, nemmeno in se stesso, è destinato a sottomettersi a qualunque cosa (People who believe in nothing, including themselves, will ultimately submit to anything). Infine la cura (ancora) possibile: Ciò che l’Europa deve veramente imparare da Israele è la sua lezione morale. E precisamente che l’identità può essere un grande tutore ( a great preserver) della libertà e che le società libere non possono sopravvivere come tali se accedono a progressivi compromessi con i barbari (progressive accommodations to barbarians).
Non voglio dire che questa lettura “olistica” sia quella giusta, perché proprio – come ripeto – il bandolo della matassa ci sfugge (o almeno mi sfugge). Però vale certamente la pena di pensarci su.

Roma, 27 luglio 2016

martedì 26 luglio 2016

Tempi cupi

Passa la voglia
(di Felice Celato)
Passa la voglia di scrivere; e anche quella di leggere per seguire le vicende sanguinose di questa estate satanica. E passa anche la voglia di pensare, per cercare il bandolo - se c’è un bandolo e semmai fossimo in grado di afferrarlo - il bandolo di questa matassa che si aggroviglia di giorno in giorno, fra follie, fanatismi, violenze inaudite, rigurgiti di disperazione e di fame di morti.
Con animo moscio, vi giro comunque una considerazione che da qualche giorno mi frulla per la testa e che, solo qualche settimana fa, avrebbe scatenato la mia verve polemica: l’Italia, nel 2015, dicono le statistiche, cresce nel turismo; e meno male. Ma – come al solito – cresce meno della media europea (non ostante – lo nota acutamente Gian Antonio Stella sul Corriere della sera di oggi – i tanto magnificati clamorosi effetti dell’Expo di Milano; e non ostanti  le turbolenze di molti paesi “concorrenti” nell’offerta di spiagge, che hanno allontanato gli appassionati da quelle spiagge e magari li hanno convogliati verso le nostre). Male, dunque, come al solito; ma purtuttavia bene, perché comunque si parla di una crescita significativa per quello che consideriamo l’oro del nostro paese, la ricchezza che nessuno ci potrà portare via (non ostante che – e come ti sbagli? –  tutti ce la invidino), il nostro asset per il futuro, il polo previlegiato del nostro sviluppo, etc. etc. di chiacchiera in chiacchiera.
E allora? Almeno un po' sei soddisfatto? diranno i lettori stanchi dei rintocchi lenti delle mie campane.
Allora ecco che cosa ci inventiamo (leggo da La Stampa del 18 luglio): “Troppi turisti”, ora le città vogliono il numero chiuso.
Sacrosanto commento di Alberto Mingardi (cito da Il Foglio): Il numero chiuso per i turisti. Ce lo meritiamo il declino.
Ci torneremo sopra quando, sperabilmente, avremo ripreso a respirare.

Roma 26 luglio 2016

mercoledì 20 luglio 2016

Il vettore della storia

I segni dei tempi
(di Felice Celato)
L’uomo è immerso nella storia, spesso senza comprenderne il senso di marcia. Questa è la riflessione che mi ha suggerito un giovane e molto colto collega come stimolo a riflettere sul nostro grado di comprensione di ciò che ci accade dattorno: chi viveva in Europa nella prima metà del XVII secolo, esemplificava Alessandro, ben difficilmente si rendeva conto di vivere al tempo di quella che chiamammo la “guerra dei trent’anni”, la lunga serie di sparsi conflitti armati a sfondo religioso ed egemonico che dilaniarono l’Europa fra il 1618 e il 1648 e si conclusero definitivamente con la pace di Westfalia, forse la data fondativa dello stato moderno.
Il fatto che il mondo contemporaneo ci abbia reso avvezzi ad una dilagante contestualità dell’informazione – che, paradossalmente, rende ancora più complicata la lettura delle dinamiche storiche – non modifica, quasi quattrocento anni dopo la guerra dei trent’anni dell’esempio appena ricordato, l’attualità del tema. Anzi, forse più che di attualità sarebbe bene parlare di perennità: Venuta la sera voi dite: “bel tempo perché il cielo rosseggia”; e al mattino “oggi temporale, perché il cielo è rosso cupo”. L’aspetto del cielo lo sapete distinguere e i segni dei tempi non siete capaci di coglierli? dice Gesù ai farisei e ai sadducei in Mt 16, 2-3. L’uomo immerso nel liquido amniotico della sua contemporaneità non sa leggere i segni dei tempi, se non per nutrire convinzioni, passioni, angosce e speranze fallaci e di durata assai breve, come I sonnambuli di Clark di cui abbiamo parlato qualche tempo fa ( Storie, Noi nuovi sonnambuli, post dell’8 aprile 2016), apparentemente vigili ma non in grado di vedere.
Il tema è suggestivo e merita senz’altro una riflessione storico-filosofica che forse esula dalle mie capacità culturali (magari tenterò di rifletterci coi miei poveri mezzi durante l’estate); eppure sin d’ora me ne resta una sensazione di insicurezza di tutte le chiavi interpretative con le quali cerchiamo di connettere i punti tragici degli eventi di questi tempi confusi, per trarne una linea, una sorta di vettore che rappresenta una grandezza dotata di direzione.
La considerazione dell’amico Alessandro induce ad una particolare cautela nella lettura dei segni dei tempi; dalla quale però non possiamo astenerci, perché è proprio dell’uomo cercare di penetrare il futuro, anche se spesso lo fa guardando solo all’effimero colore del cielo.
Certo, se giudichiamo da questo non possiamo che prevedere tempesta. Ma, magari, come spesso ci accade, sbagliamo.

Roma 20 luglio 2016

venerdì 15 luglio 2016

Nizza, 14 luglio

Latent threats
(di Felice Celato)
In questi tempi  ci siamo abituati alle notizie di attentati e di stragi; quella di Nizza mi ha, tuttavia, colpito particolarmente per una serie di motivi che vanno al di là della stessa efferatezza degli eventi e che provo a mettere in fila.
Il pensiero, a caldo, mi è corso all’11 settembre del 2001, una data che, per una serie di motivi, ho vissuto, allora, con grande emozione, come una svolta epocale, dopo la quale – mi dissi allora – il mondo non sarebbe stato più quello al quale ci eravamo abituati: tre strumenti di vita e di progresso (tre aerei di linea) furono trasformati in strumenti di morte, diventando armi letali come, appunto, ogni arma fabbricata per esserlo. Un atto di guerra non dichiarata, messo in atto da un nemico liquido, nel cuore di una aggregazione umana scelta per le sue caratteristiche simboliche.
Giusto stamane parlavamo delle latent failures dei processi con i quali cerchiamo di assicurarci una relativa sicurezza; oggi – un camion, anch’esso strumento di progresso, di circolazione di beni, di connessione di mercati, trasformato in un macinatore di vite – mi sono venute in mente le latent threats, le minacce latenti del nostro vivere in comunità dense di persone e di incroci esistenziali; latenti e imprevedibili.
Come le latent failures si annidano nei buchi neri delle nostre menti, così le  latent threats si incistano nei recessi perversi delle nostre teste, disposte a trasformare qualsiasi oggetto in strumento di male, spesso di male assoluto, direi, perché rivolto solo a realizzare se stesso su indistinti bersagli.
Non sono state utilizzate armi, se non, pare, per tragiche operazioni di contorno, per aggiungere morte ai morti cercati con uno strumento della vita di ogni giorno. E’ stato usato un banale camion, che fino ad allora aveva trasportato tonnellate e tonnellate di merci, noleggiato mostrando una patente e – immagino – una carta di credito, senza subire perquisizioni mirate ad accertare che chi prendeva in uso il camion non portasse “armi a bordo”; la sua arma – potente ed esplosiva – era celata nella sua mente.
Come si difendono il nostro mondo, le nostre collettività mobilissime, le nostre civiltà basate sull’incontro, da questo tipo di arma? Possiamo immaginare un dialogo con queste armi viventi? Bisognerà immaginare una versione “buona” della psicopolizia di Orwelliana memoria per stanare le schegge crudeli che vivono in mezzo a noi? Possiamo seguitare a proclamare, nei nostri esercizi di retorica, che i nostri liquidi aggressori non cambieranno i nostri stili di vita?
Proprio non so; l’illusione di vivere in un periodo di pace si confronta con 84 morti, quasi 200 feriti, parecchi gravi, molti bambini. E’ ancora latente la minaccia al nostro mondo?
Roma 15 luglio 2016


Dolore e rabbie

Il treno di Puglia
(di Felice Celato)
Non lascia indifferenti la lettura degli stralci di vite interrotte da eventi tragici, come quello del treno di Puglia.
Tutte le vite sembrano progettate per un loro naturale ciclo paraboloide, come potrebbe essere una curva di Gauss che concentra il massimo dell'intensità nei punti che più si allontanano dall'origine e dalla fine.
Quando questo ciclo s’interrompe con un taglio netto, prima della sua naturale consunzione  o, peggio ancora, prima di raggiungere l'apice dell'intensità, traboccano dal taglio le potenzialità inespresse, le speranze spezzate, le opportunità sprecate, gli affetti d’un tratto deserti mentre ancora erano vivi e si dispiegavano in progetti ed attese; e, come spesso accade, il sangue del troncamento si fa più rosso, più "assurdo", più "inaccettabile"; e si colora di rabbia. La difformità dal progetto, comprensibilmente, ci sconvolge come se di quel progetto fossimo a pieno titolo certi invece che esserne una mera parte proponente e operante.
E traboccano pure – con la consueta dose di "sdegni" –  le "richieste di giustizia" che vorrebbero compensare, su una ideale bilancia dei dolori, quello immane per le vite troncate con quello, vendicatore, dei portatori incoscienti delle latent failures, dei buchi neri delle nostre menti che spesso sono all’origine dei troncamenti (nella specie: quello dei capistazione che, per tragico errore, avrebbero alzato o abbassato l'arcaica paletta).
Certamente non possiamo più rimetterci ai "fati"; e l'incessante ansia di rendere sempre più sicuri i processi nei quali si dispiegano le dinamiche collettive dei nostri tempi ( primo fra tutti, il trasporto ) è tutt’altro che un inutile esorcismo contro la fatalità, come dimostrano le statistiche.
Ma ancora una volta (ne abbiamo già detto il 27 marzo 2015, all'epoca della tragedia dei Trois-Evechés, dove forse fu la follia a prendere il posto dell'errore fatale) non deve sfuggire al nostro turbamento, depurato dalla rabbia, che il carico dei nostri destini, qualsiasi sia il livello di sicurezza attesa dai relativi processi, resta, alla fine, affidato alla padronanza di sé che si richiede ad ogni individuo, in ogni momento, nell’illusione che sia possibile escludere anche l’emergere di un cedimento della mente o dell’attenzione, improvviso e travolgente; appunto, le latent failures del fattore umano, eterno e sfuggente limite di ogni processo di eliminazione del rischio del vivere.
Certo, possono esserci cause remote e profonde delle arretratezze infrastrutturali, delle inadeguatezze, delle omissioni; e non voglio dire che sia improprio andare alla ricerca di chi ne porta la responsabilità, sul piano politico o sociologico. Solo dico che, appunto, sono cause remote, indirette, non nuove, magari note e rimosse o a lungo sottaciute per qualche oscura convenienza o sorda trascuratezza. Focalizzare l’attenzione su queste cause remote può persino – per un po’ – sorreggere nel dolore e forse anche essere, per chi vi ha interesse, un utile strumento di politicizzazione delle disgrazie; ma certamente ostacola quella purificazione di cui anche il dolore – come spesso la memoria – ha bisogno per essere, esso stesso e fino in fondo, autentico e forse più umano.
Roma 15 luglio 2016